Consenso informato e il risarcimento del danno consequenziale
18 Aprile 2014
Nozione BUSSOLA IN FASE DI AGGIORNAMENTO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE Affinché la prestazione medico-sanitaria si configuri come lecita e legittima, l'imprescindibile punto di partenza è costituito dal consenso al trattamento espresso dal soggetto che ne è destinatario. Tale consenso soggiace anzitutto ai normali requisiti di validità richiesti in materia contrattuale (artt. 1427 c.c. e ss.) deve cioè essere immune da errore, violenza e dolo. Esso deve poi provenire da soggetto legalmente capace, salve le ipotesi di temporanea incapacità naturale, di minore e di paziente affetto da vizio di mente abituale che rinviano, rispettivamente, alle problematiche dello stato di necessità e della manifestazione del consenso da parte del legale rappresentante dell'incapace. Un consenso consapevole non può essere espresso in mancanza di informazioni adeguate rese su quanto ne costituisce l'oggetto. Poiché tale informazione non può che provenire dallo stesso Sanitario (in forza di un contratto d'opera intellettuale concluso con il paziente o di rapporto di lavoro o professionale del primo intrattenuti con la struttura che dovrà erogare la prestazione richiesta), la manifestazione del consenso è oggi il risultato di una cooperazione tra l'operatore sanitario e il paziente (c.d. alleanza terapeutica), attività che la dottrina e la giurisprudenza hanno ricondotto all'adempimento dei doveri di protezione che gravano sul debitore della prestazione in aggiunta a quelli che costituiscono l'oggetto diretto (in quanto pattuito) della obbligazione (cfr. art. 1374 c.c.). In tal senso si è espressa Cass. civ., S.U., n. 26972/2008 che ha individuato tra i “contratti di protezione” quelli che si concludono nel settore sanitario, espressamente richiamando il cospicuo orientamento giurisprudenziale di legittimità che inquadra nell'ambito della responsabilità contrattuale la responsabilità del medico e delle struttura sanitaria nel caso di violazione dell'obbligo del consenso informato (sulla natura contrattuale e non precontrattuale della responsabilità professionale del medico per violazione dell'obbligo di informativa cfr. Cass. civ., sez III, n. 11005/2011). In tal modo la giurisprudenza ha preso atto della compiuta evoluzione del rapporto medico/paziente, passato dalla prospettiva eminentemente fiduciaria che lo contraddistingueva e che vedeva il paziente “affidarsi” al curante, sino a delegare allo stesso tutte le scelte in ordine alle terapie maggiormente idonee a conseguire il risultato sperato, a quella della centralità della persona nell'intero ordinamento. La riscoperta della visione “personalistica” che ora lo connota è stata declinata attraverso una lettura “costituzionalmente orientata” di tutte le norme applicabili. Essa ha trovato ideale ambito di espansione in materia di diritto alla salute, la cui tutela è solennemente affermata dall'art. 32 Cost., quale norma non solo programmatica ma fonte di diritti soggettivi azionabili dal privato, secondo quanto insegnato dalla epocale sentenza r. 184/1986 della Corte costituzionale. D'altronde, la parimenti conclamata volontarietà dei trattamenti sanitari (art. 32, comma 2, Cost.) si è saldata con l'altro principio portante costituito dalla inviolabilità della libertà personale (art. 13 Cost.) sino a costituire un unicum con l'art. 2 della stessa Carta fondamentale (art. 2 Cost). Risultano così delineati i fondamenti di un sistema di tutela del cittadino-paziente coniugato sulla di lui autodeterminazione in materia di salute e di integrità psico-fisica, espressa nelle diverse forme del suo concreto atteggiarsi: dalla partecipazione con il Sanitario alle scelte tra i diversi metodi diagnostici e di cura praticabili sino al rifiuto di cure, lasciando che la Natura faccia il proprio corso (sulla facoltà del malato di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla in tutte le fasi della vita, anche terminale, si è espressa Cass. civ., sez. I, n. 21748/2007). In coerenza con la riferita impostazione ideale la Corte costituzionale, con la sent. n. 438/2008, ha dunque individuato quale vero e proprio diritto della persona il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico. L'evoluzione di sistema di cui si è dato conto trova diversi sostegni nella legislazione sia internazionale e comunitaria sia interna. Sotto il primo profilo si ha riguardo, tra l'altro, alla Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina (Oviedo, 4 aprile 1997), ratificata dall'Italia con la l. 28 marzo 2001, n. 145, il cui art. 5 ribadisce che un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Nella stessa prospettiva si pone l'art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000. Peraltro già la l. 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, aveva affermato (art. 33, l . n. 833/1978) la normale volontarietà degli accertamenti e dei trattamenti sanitari, facendo carico ai presidi e ai servizi pubblici territoriali deputati alla erogazione degli accertamenti e dei trattamenti sanitari obbligatori di assumere iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato. La necessità del consenso informato del ricevente (da esprimersi, così come l'eventuale dissenso, in forma scritta) è prevista per le trasfusioni di sangue dal D.M. Sanità 15 novembre 1991 ed ha avuto conferma con la l. 21ottobre 2005, n. 219, art. 3, Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati . In linea con la normativa ricordata, il Codice deontologico dei Medici (artt. 33 e 35 C.D. del 2006) obbliga gli esercenti la professione a correttamente ed esaurientemente informare il paziente in ordine alle terapie praticate al fine di ottenerne il consenso. Primaria importanza assumono il fondamento conoscitivo del consenso al trattamento sanitario e il modo in cui il primo deve essere approntato. Si è detto che in materia l'attività è finalizzata al superamento, o almeno alla riduzione, della c.d. assimetria informativa che caratterizza il rapporto tra il fruitore della prestazione e il debitore della stessa, titolare di una cultura e di nozioni tecniche di tipo specialistico che il primo di norma non possiede. Soltanto un'informazione adeguata può consentire l'espressione di una determinazione volitiva consapevole, senza la quale l'acquisizione del consenso si risolve in uno o più adempimenti burocratici, nel vuoto formalismo della sottoposizione al paziente di una quantità di moduli, diversamente articolati, che questi è chiamato a firmare al momento del ricovero o della conclusione del contratto d'opera con il professionista. In tal modo, la autodeterminazione del paziente in ordine alle cure cui egli dovrà sottoporsi non viene affatto garantita e l'equilibrio tra il di lui diritto di libertà terapeutica e la “potestà di cura” riconosciuta al sanitario quale esercente una “professione protetta” (art. 348 c.p.) risulta irrimediabilmente compromesso a favore di questa, con l'aggiunta del discarico da responsabilità offerto al terapeuta dalla espressione di un consenso scritto formalmente ascrivibile al paziente. A tale ultimo proposito si parla di “medicina difensiva” per indicare l'atteggiamento del medico che mira a cautelarsi da possibili iniziative legali del paziente rimasto insoddisfatto e che consiste nel porre in essere accertamenti diagnostici superflui e soprattutto privilegiare scelte terapeutiche meno rischiose a scapito di opzioni maggiormente efficaci seppure più esposte a eventuali complicanze . L'attenzione della giurisprudenza alle modalità di esercizio dell'obbligo di informazione riflette la riconducibilità di questo all'ambito dei “doveri di protezione” e, più in generale, al principio di buona fede oggettiva che impronta l'adempimento dell'obbligazione. Anche se è impossibile operare una rigida precostituzione dei criteri sui quali l'informazione che si pretenda adeguata dovrà modellarsi, variabili in funzione della peculiarità delle singole fattispecie, alcune caratteristiche comuni sono state delineate dalla giurisprudenza di legittimità. Se esse non ricorrono permane, come fonte di responsabilità del medico e della struttura, il deficit di informazioni a danno del paziente, privato della possibilità di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, e si consuma nei suoi confronti una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 20984/2012; Cass. civ., sez. III, n. 16543/2011). Il consenso deve essere, anzitutto, personale, cioè provenire dal paziente, con esclusione dei casi di incapacità di intendere e volere del paziente medesimo. Deve poi essere specifico ed esplicito (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 7027/2001) inoltre reale ed effettivo con esclusione della validità del c.d. consenso presunto (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 20984/2012 che ha escluso la sussistenza di un consenso presunto argomentato dal Giudice di merito dalle circostanze che il paziente fosse un medico, facesse parte della stessa struttura ospedaliera e quindi avesse un contatto frequente con i medici curanti, si fosse sottoposto volontariamente alla terapia). Infine esso deve essere attuale (cfr. Cass. civ., sez. I, n. 21748/2007). A garanzia della effettività del consenso grande attenzione viene dedicata dalla giurisprudenza alla “personalizzazione” delle informazioni, con riguardo alle condizioni soggettive del paziente, all'età, al livello culturale, alle condizioni psicologiche del momento (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 24791/2008). Quanto alla completezza delle informazioni in ipotesi di intervento chirurgico, esse debbono comprendere l'indicazione delle sue diverse fasi, delle eventuali metodiche alternative cui è possibile fare ricorso, della possibilità e probabilità dei risultati conseguibili in dipendenza dell'una o dell'altra scelta (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 10014/1994) senza che possa distinguersi tra chirurgia riabilitativa e chirurgia estetica. Neppure deve mancare il riferimento ai rischi prevedibili, anche se di bassa frequenza statistica, con la sola esclusione degli esiti anomali (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 364/1997). L'informazione deve riguardare anche il carattere irreversibile dell'intervento (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 24109/2013 a proposito della possibilità che l'intervento di sterilizzazione attraverso la chiusura delle tube praticato in occasione del parto cesareo possa risultare inadeguato a impedire la discesa dell'ovulo una volta che i tessuti, dopo il parto,siano tornati in condizioni di normalità). Ancora, essa si estende al dettaglio dei rischi per le diverse fasi dell'intervento contrassegnati da autonomia gestionale (con specifico riguardo al trattamento anestesiologico cfr. Cass. civ., sez. III, n. 14638/2004). Nel bilanciamento dei vantaggi e dei rischi che un'informazione adeguata deve consentire al paziente di operare con l'assistenza del medico assumono rilievo le indicazioni obiettive circa lo stato di efficienza e il livello di dotazione della struttura sanitaria dove l'intervento dovrebbe avere luogo cosicché il malato possa eventualmente decidere di soprassedere all'atto operatorio in quella struttura a favore di altra maggiormente specializzata o scientificamente accreditata (cfr. Cass. civ. sez. III, n. 3847/2011, circa la mancanza, nella specie, di un'adeguata struttura di rianimazione neonatale).
Elemento soggettivo
Si è visto che il soggetto obbligato a informare il paziente non può che essere il sanitario. E' irrilevante che questi sia il professionista con il quale il paziente ha concluso un contratto d'opera intellettuale oppure il medico a diverso titolo operante (in forza di contratto di lavoro subordinato o altrimenti tenuto a rendere la prestazione) nella struttura ospedaliera, pubblica, convenzionata o privata. La necessità che l'attività informativa sia posta in essere dal medico esclude che possa dirsi adeguata una sua somministrazione affidata a una surroga di tipo documentale nella forma, ad esempio, della sottoposizione al paziente, al momento della sua accettazione presso la struttura, di una serie di moduli anche dettagliati quanto al contenuto, ma fatti sottoscrivere in assenza di spiegazioni rilasciate al paziente in ordine all'attività diagnostica o terapeutica alla quale sarà sottoposto (cfr. Cass. civ, sez. III, n. 24791/2011). In senso conforme si esprime anche l'art. 35 comma 2 del vigente Codice di deontologia medica (“il consenso espresso in forma scritta…è integrativo e non sostitutivo del processo informativo”). A maggior ragione risulta priva di rilievo la predisposizione di una modulistica generica in quanto riferibile a qualsiasi tipo di intervento o di accertamento. Destinatario dell'informazione è il paziente in quanto maggiore di età capace di intendere e di volere al momento della prestazione del consenso informato. Fanno eccezione a tale principio i soli casi di trattamento sanitario obbligatorio per legge (art. 32 comma 2, Cost.) e di sussistenza di uno stato di necessità c.d quoad vitam . Nel primo caso (su cui si tornerà più ampiamente nella voce “casistica”) il riferimento è ormai pressoché esclusivamente ristretto alle vaccinazioni obbligatorie e alle patologie mentali (cfr. Cass. civ. sez. III, n. 364/1997, che, nel confermare la vigenza dell'eccezione alla regola del consenso informato, sottolinea che la l. 13/5/1978, n. 180, sulla riforma dei manicomi, ha stabilito che “gli accertamenti e trattamenti sanitari sono volontari”, salvi i casi espressamente previsti”). Nell'ipotesi del soggetto temporaneamente incapace in pericolo di vita, il rapporto tra il diritto del singolo alla autodeterminazione in materia di salute e la potestà di cura del sanitario si risolve a favore della seconda per la ragione dirimente della impossibilità di disporre di un consenso validamente espresso. In situazioni siffatte, impedire al medico di intervenire significherebbe porre a rischio la vita del paziente (sino alla sua perdita) per astratto ossequio a un principio, ma nell'assenza di uno dei presupposti che delineano la sua operatività, costituito dalla capacità dell'avente diritto di consentire o rifiutare la cura. Inoltre l'urgenza di somministrarla prima che la patologia evolva verso un esito fatale impedisce il ricorso all'istituto della rappresentanza legale, di cui possono avvalersi, in situazioni analoghe, il minore e l'interdetto giudiziale. La giurisprudenza consolidatasi in tema di consenso informato (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 10014/1994; sez. I, n. 21748/2007) ha da sempre fatto salva l'ipotesi qui in esame, pretendendo però che, laddove sussistente, questa possa essere ricondotta alla fattispecie dello “stato di necessità” considerato dall'art. 54 c.p. Difettando in radice la possibilità del paziente di compiere qualsivoglia scelta, lo stesso interesse di questi (oltre che della comunità dei consociati) alla conservazione della vita giustifica il pieno esplicarsi della potestà di cura pertinente al sanitario, che dovrà esercitarla secondo le regole dell'arte applicate con la diligenza professionale richiesta (art. 1176 comma 2 c.c.) e avvalendosi di tutti i mezzi a sua disposizione. D'altronde l'imminenza del pericolo e la necessità di un tempestivo intervento per scongiurare il consolidarsi di effetti irrimediabilmente negativi danno ragione del ricorso, sul piano concettuale, al cosidetto “consenso presunto” dell'avente diritto, ricostruito alla stregua di parametri valutativi ancorati all'id quod plerumque accidit. Quanto al consenso informato del minore di età, lo stato della normativa primaria (art. 2 c.c.) non consente di prescindere, di regola, dal consenso espresso dal di lui legale rappresentante (art. 37 del Codice di deontologia medica, con specifico riguardo al comma terzo quanto alla necessità che il sanitario informi l'autorità giudiziaria “in caso di opposizione da parte del rappresentante legale al trattamento necessario e indifferibile a favore di minori” e che proceda “senza ritardo e secondo necessità alle cure indispensabili se vi è pericolo per la vita o grave rischio per la salute del minore”). Dell'anacronismo dell'impianto codicistico imperniato sulla nozione di capacità di agire anche in materia di salute (nonostante il coinvolgimento del minore “capace di discernimento” in tutte le scelte esistenziali che lo riguardano sia sancito da diverse Convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e persino da talune norme del codice civile in materia di scioglimento del matrimonio e di separazione dei coniugi e di azioni di stato oltreché da leggi speciali, quali quelle sull'adozione, sull'interruzione volontaria della gravidanza, sulla tossicodipendenza) si fa portavoce il Codice di deontologia medica (art. 38 comma secondo “Il medico, compatibilmente con l'età, con la capacità di comprensione e con la maturità del soggetto, ha l'obbligo di dare adeguate informazioni al minore e di tenere conto della sua volontà”). Un'ulteriore variante allo schema entro il quale può articolarsi il sistema del consenso informato al trattamento sanitario è costituito dalla condizione di permanente quanto irreversibile incapacità del paziente. Detta condizione impedisce al sistema di operare in uno dei suoli elementi “portanti”, costituito dalla espressione di un consenso valido perché frutto di una determinazione volitiva consapevole e libera. Per non lasciare l'incapace in balìa della propria menomazione – privandolo del diritto alle cure in tutti i casi in cui queste non siano destinate a porre rimedio a patologie foriere di un immediato pericolo di vita – si rende necessario il ricorso al di lui rappresentante legale, chiamato a surrogare con la propria la volontà dell'incapace. La questione, dibattuta in dottrina, della operatività della rappresentanza legale nella sfera degli atti cosidetti personalissimi, in quanto attinenti la libertà e gli intimi convincimenti del rappresentato (postasi per lo più con riguardo alla separazione personale e al divorzio dell'incapace) è stata positivamente risolta dalla giurisprudenza di legittimità. In materia, l'ancor recente vicenda Englaro assurta ai clamori della cronaca e divenuta poi materia di un lacerante dibattito ideale con importanti ricadute politico-legislative ha determinato la Corte Suprema (Cass. civ., sez. I, n. 21748/2007) a rimeditare la problematica del diritto dell'incapace a far valere le proprie determinazioni in ordine alle cure cui essere sottoposto, con specifico riferimento al contenuto negativo di esse, ossia al rifiuto della continuazione del trattamento. La particolare drammaticità della questione era, come è noto, costituita dalla imprescindibilità di detto trattamento per il protrarsi delle residue funzioni vitali di cui l'incapace, in stato vegetativo permanente da più di quindici anni, era dotata. La vicenda ha così offerto l'occasione di una riflessione ad amplissimo raggio che ha messo a nudo le cruciali implicazioni etiche del diritto del singolo alla autodeterminazione in materia di cure quando essa assuma le forme del rifiuto delle stesse o della loro continuazione e si identifichi tout court, in taluni casi, con il rifiuto di vivere. La decisione della Suprema Corte di consentire l'accoglimento della richiesta del legale rappresentante di autorizzazione alla sospensione del trattamento sanitario dal quale dipende la vita dell'incapace è stato subordinato al positivo accertamento, da parte del Giudice del merito, delle seguenti condizioni: irreversibilità, medicalmente accertata, della condizione di stato vegetativo dell'incapace, tale da non lasciare supporre, allo stato delle conoscenze scientifiche di volta in volta attuali, la possibilità di un pur minimo recupero della coscienza e della percezione del mondo esterno da parte del rappresentato; ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza, implicante una ricostruzione del “vissuto” dell'incapace anteriore al coma sulla base dello stile e del carattere della sua vita, oltre che dei di lui precedenti desideri e delle sue dichiarazioni. In tale attività di ricostruzione dell'esistenza anteatta dell'incapace assume centralità la posizione del rappresentante legale, al quale spetta di “far emergere e rappresentare al giudice l'autentica e più genuina voce” del proprio rappresentato, in attuazione del compito, attribuitogli dalla decisione in rassegna, di decidere non “al posto dell'incapace né per l'incapace, ma con l'incapace”.
Non si è mai dubitato che la violazione dell'obbligo di informazione del paziente debba essere legata da nesso causale con il risultato peggiorativo della salute dello stesso, nel senso che detto peggioramento risulti conseguenza del trattamento eseguito in mancanza di consenso informato. Privo di rilevanza,ai fini della sussistenza dell'illecito, è peraltro l'accertamento, operante su un diverso piano di responsabilità, se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 9374/1997). Dopo alcune pronunce di giudici di merito pervenute a conclusioni diverse circa l'autonoma risarcibilità del danno da violazione del consenso informato prescindente dal danno alla salute quale conseguenza delle informazioni omesse (Trib. Venezia, 4 ottobre 2004, est. Simone; Trib. Milano, 29 marzo 2005, n. 3520, Trib. Genova, sez. II, 10 gennaio 2006) importanti puntualizzazioni in argomento sono state espresse da Cass. S.U., 11 novembre 2008, n. 26973 e da Cass. civ., sez. III, n. 2847/2010). Con la prima delle due decisioni si è ribadito che il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, (nella specie il diritto alla autodeterminazione) costituisce “danno conseguenza” (Cass. civ. sez. III, n. 8827/2003 e Cass. civ. n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato. Definitivamente superata, secondo le Sezioni unite, è infatti la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, parlando di "danno evento”, come pure la variante costituita dall'affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa. La seconda pronuncia affronta nella sua interezza il problema delle conseguenze del difetto di informazione muovendo dal fondamento del consenso informato quale diritto della persona alla propria libertà, non necessariamente coincidente, anzi in sé diverso, dal diritto alla salute. La dissociazione tra le due situazioni soggettive tutelate può comportare che, nella sussistenza di un consenso consapevole, possa configurarsi responsabilità medica da lesione alla salute se la prestazione terapeutica sia tuttavia inadeguatamente eseguita; e che, per converso, vi sia lesione del diritto all'autodeterminazione, ma l'intervento terapeutico sortisca un esito assolutamente positivo. Ciò consiste di individuare il contenuto del nesso causale (e del correlativo onere probatorio a carico del paziente) secondo che l'omessa informazione abbia o non inciso sulla sua integrità fisica. Nel primo caso (danno da lesione della salute verificatosi per le non imprevedibili conseguenze dell'atto terapeutico necessario e correttamente eseguito secondo le regole dell'arte, ma non preceduto da una adeguata informazione circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli) grava sul paziente dimostrare, anche mediante presunzioni, che egli avrebbe rifiutato quel determinato intervento (inclinando su possibili alternative di cura, procrastinando quello eseguito o addirittura non facendosi curare) se fosse stato compiutamente informato. Nel secondo (violazione del diritto all'autodeterminazione senza ricadute apprezzabili in termini di danno biologico) il paziente, ferma la prova dell'incidenza causale dell'omessa informazione sulla determinazione volitiva dello stesso in punto di scelte di cura, dovrà anche dimostrare, quale conseguenza dell'omessa informazione, la produzione di un danno non patrimoniale tale da varcare la soglia della gravità dell'offesa, secondo i canoni delineati da dalle sentenze delle Sezioni unite civili nn. da 26972 a 26974/2008. La casistica annovera la risarcibilità della vanificata facoltà di rinunciare alla terapia anche a costo della vita perché in contrasto con la propria fede religiosa (sui Testimoni di Geova cfr. le sentenze della Cass. civ., sez. III, n. 23676/2008 e Cass. civ., n. 4211/2007); la risarcibilità del danno non patrimoniale da acuto o cronico dolore fisico (Cass. civ., sez. III, n. 23846/2008) indotto dalla terapia pure dimostratasi salvifica; il diritto al risarcimento per la lesione derivata da un atto terapeutico che abbia salvaguardato la vita in un campo a discapito di un pregiudizio secondario sotto altro pur apprezzabile aspetto non adeguatamente prospettato al paziente; il turbamento e la sofferenza derivati al paziente sottoposto a terapia dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate perché non prospettate. Onere della prova
In aggiunta a quanto anticipato nella voce precedente si riferisce qui dell' orientamento giurisprudenziale ormai incontrastato nel senso che l'adempimento degli obblighi informativi deve essere provato dal sanitario. Ciò è conseguenza dell'altro principio, ormai pressoché unanime in materia, che riconduce l'intervento del medico, anche solo in funzione diagnostica e quale che sia il rapporto che lo lega alla struttura sanitaria dove la prestazione viene eseguita, entro l'ambito del rapporto di tipo contrattuale (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 20984/2012 e Cass. civ., S.U., n. 26973/2008) derivante da un contratto in senso proprio (per lo più d'opera intellettuale, artt. 2230 c.c. e ss.) o dal c.d. contatto sociale (a partire da Cass. civ., sez. III, n. 589/1999). Spetterà dunque al medico, a fronte dell'allegazione di inadempimento da parte del paziente, dimostrare di avere erogato allo stesso informazioni adeguate alla espressione di un consenso consapevole alla terapia, esteso sino alla accettazione dei rischi di un esito infausto o solo parzialmente risolutivo della patologia in essere. Trattasi di esito necessitato in presenza della opzione a favore della responsabilità contrattuale e dell'inevitabile rinvio a quanto previsto dagli art. 2697 c.c. e 1218 c.c. il cui combinato disposto fonda il principio della presunzione di persistenza del diritto (cfr. Cass. civ., SU., n. 13533/2001). La giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che l'attività posta in essere per consentire l'espressione di un consenso informato non richiede la prova scritta ad substantiam, ma comunque la manifestazione di un consenso reale, concretamente avvenuta hic et nunc (cfr. Cass.civ., sez. III, n. 20984/2012). In nessun caso tale prova può essere surrogata dal ricorso a un consenso presunto, magari fondato sulle qualità soggettive del paziente (cfr. la sentenza ultima citata, che ha ritenuto irrilevante la condizione di medico del paziente; Cass. civ., sez. III, sent. n. 19220/2013 che ha ritenuto “presunto” il consenso fatto derivare dalla considerazione che il paziente fosse avvocato). Le condizioni professionali e la preparazione culturale del paziente possono semmai incidere sulle modalità di somministrazione delle informazioni (quanto al linguaggio usato e al loro dettaglio), mai sulla necessità che il consenso espresso sia stato completo, effettivo e consapevole (cfr., in aggiunta alle due decisioni citate per ultimo, Cass. civ., sez. III, n. 16453/2011 e Cass. civ.,2847/2010). In ordine alla prova del nesso causale tra omessa informazione e danno derivatone, si è anticipato che spetta, come d'ordinario, al paziente/danneggiato dimostrarne la sussistenza. Essa rinvierà alla formulazione di un giudizio controfattuale ipotetico consistente nella valutazione se la condotta omessa (attività informativa) avrebbe evitato l'evento ove fosse stata tenuta: se cioè l'adempimento da parte del medico dei suoi doveri informativi avrebbe prodotto l'effetto della non esecuzione dell'intervento chirurgico dal quale, senza colpa di alcuno, lo stato patologico è poi derivato. Solo un volta fornita la prova che il paziente avrebbe rifiutato l'intervento ove fosse stato compiutamente informato, la condotta positiva omessa dal medico (informazione, ai fini dell'acquisizione di un consapevole consenso) assume rilevanza causale sull'evento di danno (lesione alla salute conseguita all'intervento) (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 2847/2010). Questa decisione giustifica il criterio di distribuzione dell'onere probatorio a carico del paziente anche in funzione della “vicinanza” al fatto da provare (trattandosi di stabilire in quale senso si sarebbe orientata la scelta soggettiva del paziente), tanto più considerandosi che la determinazione di questi di scostarsi dalla valutazione di opportunità del medico circa il ricorso alla terapia costituisce un'eventualità che non corrisponde al id quod plerumque accidit. Nell'assolvimento dell'onere probatorio come sopra delineato il paziente potrà avvalersi di ogni mezzo di prova, documentale, per testi e per presunzioni. Secondo Cass. civ., S.U., n. 26973/2008 il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice. Graverà sul danneggiato di esercitare con rigore l'onere di allegazione di tutti gli elementi idonei, nella concreta fattispecie, a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto. Aspetti medico-legali
Nel caso in cui l'omissione di informazioni adeguate abbia indotto il paziente a prestare un consenso non consapevole, dunque viziato e invalido, e dall'esecuzione del atto medico sia derivato un pregiudizio alla salute del paziente, la consulenza tecnica medico-legale costituirà l'ordinario modo di assolvimento dell'onere probatorio (cfr. Cass. civ., S.U., n. 26973, che richiama gli artt. 138 e 139 del d.lgs. n. 209/2005). Diversa è l'ipotesi in cui sia stato leso il diritto alla autodeterminazione del paziente senza compromissione della sua salute. In tale fattispecie, il ricorso allo specialista medico legale potrà rendersi ugualmente necessario trattandosi di determinare l'ampiezza dell'informazione che avrebbe dovuto essere somministrata nell'illustrare al paziente le conseguenze, certe, probabili e possibili, della terapia che la giurisprudenza, come anticipato, vuole estesa ai rischi prevedibili anche se rari, con esclusione dei soli esiti anomali, al limite del fortuito (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 364/1997). Del difficile contemperamento tra completezza degli obblighi informativi e necessità di evitare lo scoramento del paziente, indotto, per parosisstico timore, a non avvalersi di terapie normalmente risolutive ed oggettivamente utili alla sua guarigione, l'Ausiliario del Giudice potrà essere prezioso quanto indispensabile indagatore.
Criteri di liquidazione
Le Sezioni unite civili della Cassazione, con le note sentenze “gemelle” dell'11 novembre 2008, hanno annoverato il pregiudizio al diritto alla autodeterminazione (art. 32 comma 2 Cost. e art. 13 Cost.) tra i diritti non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Hanno poi ribadito la necessità di integrale ristoro del danno ammonendo a non indulgere a rigide categorizzazioni, per lo più nominalistiche e di contenuto descrittivo, a favore dell'accertamento dell'effettiva consistenza del pregiudizio allegato attraverso l'individuazione delle ripercussioni negative sul valore uomo verificatesi. In sede liquidatoria si è ritenuto (Trib. Milano, n. 3520/2005) che, in presenza di accertata colpa medica cui è conseguito un danno alla salute accompagnata dalla omissione di informazioni, idoneo criterio sia quello di liquidare, oltre al danno biologico, con un'unica voce sia il danno morale soggettivo sia il danno da lesione del diritto di autodeterminazione. In mancanza di colpa medica, ma in presenza di danno biologico, il danno risarcibile dovrà tener conto della percentuale di possibilità che il paziente, correttamente informato, avrebbe optato per un diverso trattamento sanitario, circostanza, questa, che la più recente giurisprudenza della Cassazione (Cass. sez. III, n. 2847/2010) configura quale oggetto dell'onere probatorio del paziente non informato. Una volta assolto tale onere, la liquidazione del pregiudizio potrà coincidere, in tutto o in parte, con il risarcimento del correlativo danno biologico assunto quale conseguenza immediata e diretta del difetto di informazione (con l'estensione della risarcibilità ai danni costituenti effetti “normali” dell'illecito, secondo il criterio della regolarità causale di cui a Cass. civ. S.U., n. 9556/2002). Infine, nel caso in cui, all'esito dell'intervento eseguito senza il consenso informato del paziente e in assenza di colpa medica, non sia conseguito alcun pregiudizio alla salute dello stesso, il giudice può ricorrere al criterio dell'equità pura (per un'applicazione concreta di tale criterio cfr. Trib. Genova, sent. 10 gennaio 2006) e il risarcimento sarà subordinato alla condizione che il danno abbia superato la soglia della “gravità dell'offesa” (esclusione dei c.d. danni bagatellari, cfr. Cass. civ., S.U., n. 26973/2008). Aspetti processuali
Sul presupposto che il diritto all'autodeterminazione è diverso dal diritto alla salute Cass.civ. sez. III ,n. 18513/2007 ha qualificato come mutamento della causa petendi il porre a fondamento dell'azione di risarcimento danni conseguenti ad intervento chirurgico il difetto di consenso informato, dopo avere fondato tale azione sulla colpa professionale. Tale convincimento è stato di recente parzialmente corretto dalla stessa Corte Suprema (sez. III civ., sent. n. 4030/2013) che ha disatteso la Corte territoriale laddove questa aveva ritenuta nuova la specifica censura svolta nell'atto di appello in ordine alla deduzione dell'errore diagnostico sulla patologia che aveva determinato i medici ad un atto chirurgico invasivo ed invalidante, erroneamente assentito. Accogliendo il relativo motivo di ricorso, la Cassazione ha qualificato mera specificazione della causa petendi (non mutamento della stessa) la deduzione, contenuta nell'atto di appello, della errata diagnosi compiuta dai sanitari circa la patologia da cui era affetta la paziente (e sulla cui sussistenza l'intervento compiuto era stato reputato necessario dai medici) in luogo della errata conduzione dell'intervento chirurgico. Con l'indicata specificazione la parte ha dunque posto in essere un atto intrinseco alla deduzione di una domanda diretta ad accertare la responsabilità civile dei sanitari e della struttura ospedaliera, secondo le circostanze note ed allegate. E' comunque necessario che l'omissione di attività informativa ( o l'insufficienza di questa) da parte dei sanitari sia dedotta tra i fatti indicati nell' atto introduttivo del giudizio e posti a fondamento della pretesa risarcitoria azionata. Profili penalistici
In ambito penale, la mancanza del consenso informato del paziente (reso a seguito di attività informativa del sanitario rispondente alle caratteristiche che si sono viste sopra, voce elemento oggettivo), al di fuori delle ipotesi dello stato di necessità (art. 54 c.p.) e di trattamenti sanitari obbligatori per legge (T.S.O di cui alla l. n. 189/1978, malattie veneree in fase contagiosa, art. 6, l. n. 837/1956, malattie infettive e diffusive, D.M.S. 5/7/1975), rende l'attività del sanitario suscettibile di assumere rilevanza costituendo, volta a volta, i reati di violenza privata (art. 610 c.p.), stato di procurata incapacità mediante violenza (art. 613 c.p.), lesioni volontarie (art. 582 c.p. e art. 583 c.p.), e omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p., cfr. Cass. pen. sez. V, n. 699/1992). Il medico assume, per l'Ordinamento, la posizione di garanzia della salute del paziente, la cui tutela, per il relativo risalto costituzionale, fornisce copertura costituzionale alla legittimazione dell'atto medico. Risulta in tal modo abbandonato il più risalente orientamento giurisprudenziale che, rendendo applicazione del principio del consenso dell'avente diritto (art. 51 c.p.c.) quale causa di giustificazione, faceva leva sull'esistenza di un “consenso presunto” insito nel ricorso, da parte del paziente, all'assistenza sanitaria. La giurisprudenza penale risulta sostanzialmente allineata a quella civile nell'escludere, ai sensi degli artt. 32 comma 2 Cost. e art. 13 Cost. e dell'art. 33, l. n. 833/1978, la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questi è in grado di prestare il suo consenso e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità (Cass. pen. sez. IV, 16375/2008). Anche a proposito delle caratteristiche del consenso informato, Cass. pen. sez. IV, n. 32423/2008, ha escluso che esso possa esaurirsi nella comunicazione del nome del prodotto che verrà somministrato o di generiche informazioni, dovendo invece investire gli eventuali effetti negativi della somministrazione in modo che sia consentito al paziente di valutare congruamente il rapporto costi-benefici del trattamento e di mettere comunque in conto l'esistenza e la gravità delle conseguenze negative ipotizzabili. Peraltro la tassatività della sanzione penale (che investe anche il bene giuridico tutelato) e l'identificazione di questo nella salute della vittima del reato esclude che sia configurabile una responsabilità del sanitario tutte le volte in cui il detto bene non sia stato attinto dalla condotta dell'agente. Secondo Cass. pen. S.U., sent. n. 21 gennaio 2009, ove il medico sottoponga il paziente a un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato e tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, nel senso che dall'intervento stesso è derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili, e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza penale sia sotto il profilo della fattispecie ex art. 582 c.p. sia sotto quello del reato di violenza privata. Nella medesima logica argomentativa Cass.pen. sez. V, n. 48074/2011, pur premettendo che requisiti della causa di giustificazione concernente l'attività medico chirurgica sono la condotta “istituzionalmente” rivolta a curare e a rimuovere un male e il consenso informato del paziente, ha escluso che possa integrare il reato di lesioni personali la condotta del medico che sottoponga il paziente a un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato concluso con esito positivo, con miglioramento delle condizioni del paziente. Per contro, secondo Cass. pen. sez. V, n. 33136/2011, nella valutazione della responsabilità penale del medico per lesioni conseguenti all'esecuzione di un intervento chirurgico non necessario, il reato non è escluso nell'ipotesi in cui l'azione del medico, seppur conforme al consenso prestato dal paziente, non realizzi un beneficio per la salute complessiva del paziente. In altre parole, se la mancanza del consenso (opportunamente informato) del paziente determina l'arbitrarietà del trattamento medico chirurgico e la sua rilevanza penale quando si accompagni a una lesione della integrità fisica del paziente conseguente a quel trattamento, la prestazione di questo debitamente consentito non vale a elidere la colpa del medico che abbia operato negligentemente o imperitamente o in violazione delle regole dell'arte (cfr. Cass. pen., sez. IV, n. 42656/2013). Casistica
· Un consenso immune da vizi presuppone una completa informazione sulla natura dell'intervento, sulla sua portata ed estensione e sui suoi rischi, sui risultati conseguibili e sulle possibili conseguenze negative, senza che possa distinguersi tra chirurgia riabilitativa e chirurgia estetica (cfr. Cass. civ., sez. III, 25 novembre 1994, n. 10014).
· L'art. 32 Cost. prevede la possibilità di trattamenti sanitari obbligatori, ma li assoggetta ad una riserva di legge, qualificata dal necessario rispetto della persona umana e ulteriormente specificata con l'esigenza che si prevedano ad opera del legislatore tutte le cautele preventive possibili, atte ad evitare il rischio di complicanze (cfr. Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748).
· Nel trattamento sanitario volontario, per la validità del consenso del paziente, è necessario che il professionista lo informi dei benefici, delle modalità di intervento e dei rischi prevedibili, dovere particolarmente incombente nella chirurgia estetica, nella quale esso deve comprendere anche la possibilità del paziente di conseguire un effettivo miglioramento dell'aspetto fisico. La violazione di tale dovere qualifica come danno gli esiti, soprattutto se evitabili, dell'intervento di chirurgia estetica (cfr. App. Roma, sez. III civ., sent. n. 89/2012).
· L'obbligo di informazione si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo, non potendosi disconoscere che l'operatore sanitario deve contemperare l'esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche ad un banale intervento (cfr. Cass. civ. sez. III, n. 364/1997).
· Si estende inoltre ai rischi specifici rispetto a determinate scelte alternative e a quelli propri delle varie fasi dell'intervento allorché queste assumano una propria autonomia gestionale e diano luogo a scelte operative diversificate, ognuna delle quali presenti rischi diversi (cfr. Cass. civ., sez. III, 30 luglio 2004, n. 14638).
· L'obbligo di informazione non può ritenersi debitamente assolto mediante la mera sottoscrizione di un generico e non meglio precisato “apposito modulo”, dovendo risultare acclarato con certezza che il pazienze sia stato dal medico previamente edotto delle specifiche modalità dell'intervento, dei relativi rischi, delle possibili complicazioni (cfr. Cass. civ., sez. III, 8 ottobre 2008, n. 24791; Trib. Bari, sez. II civile, 10 marzo 2009; Trib. Genova, sez. II civile, 10 gennaio 2006; Trib. Roma, sez. XIII, 12 settembre 2012, n. 17119).
· Il consenso per un intervento chirurgico, richiesto dal paziente con la consapevolezza della sua pericolosità implica, di regola, quando questo intervento è assolutamente necessario e urgente per la sua vita, quello per tutte le operazioni preparatorie, complementari e successive necessarie ed obbligate (perché prive di possibili più sicure alternative), ancorché portatrici di propri rischi, se questi rischi possono considerarsi implicitamente accettati, ancorché non specificamente evidenziati dalla informativa.
· La necessità del consenso, fino a quando non sia diversamente disposto da speciali norme di comportamento, trova pertanto spazio solo là dove vi è l'esigenza di una scelta, non altrove (cfr. Cass. civ., sez. III, 26 settembre 2006, n. 20832).
· L'art. 5 comma 3, l. n. 135/1990 (in materia di sospetta infezione da AIDS e sottoposizione a test HIV) va interpretato nel senso che si può prescindere dal consenso del paziente solo nei casi in cui egli sia del tutto impossibilitato a prestarlo. In virtù del contenuto dell'art. 32 comma 2 Cost., il malato ha diritto di essere preventivamente e tempestivamente informato delle indagini cliniche e delle cure alle quali lo si vuole sottoporre, in tutti i casi in cui possa esprimere liberamente e consapevolmente la sua volontà (cfr. Cass. civ., sez. III, 30 gennaio 2009, n. 2468).
· Il dissenso del paziente, nell'ipotesi di pericolo grave e immediato per la sua vita, deve essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata. Esso deve, cioè, esprimere un dissenso che segua e non preceda l'informazione avente ad oggetto la rappresentazione di un pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile. La reale volontà del paziente non può essere ricostruita dal medico sulla base del mero sintagma “niente sangue” vergato su un cartellino (cfr. Cass. civ., sez. III, 15 settembre 2008, n. 23676).
· Si possono avere ipotesi di assoluta necessità di sostituzione della volontà del soggetto con quella di persona nominata tutore anche in assenza di patrimoni da proteggere: e si pensi a persona la cui sopravvivenza è messa in pericolo da un suo rifiuto (determinato da infermità psichica) ad interventi esterni di assistenza, quali il ricovero in ospedale per urgenti e necessari interventi sanitari (cfr. Cass. civ., sez. I, 18 dicembre 1989, n. 5652).
· La nomina dell'amministratore di sostegno, in funzione della prestazione del consenso a un intervento indispensabile nel campo della salute, è ammissibile solo quando il malato non appaia in grado di dare un valido consenso informato ovvero se, pur rendendolo (positivo o negativo che sia), appaia al medico incapace di intendere e volere ancorché per una situazione transeunte (nella specie il giudice tutelare ha rigettato la richiesta di nomina dell'amministratore di sostegno, avanzata dal PM, nei confronti di una testimone di Geova, la quale aveva rifiutato una trasfusione di sangue, mediante ammiccamento oculare e movimenti labiali) (cfr. Trib. Catania, ord. 23 ottobre 2010).
· In tema di trattamento medico-chirurgico, risponde di omicidio preterintenzionale il medico che sottoponga il paziente a un intervento (dal quale consegua la morte di quest'ultimo) in assenza di finalità terapeutiche, ovvero per fini estranei alla tutela della salute del paziente, ad esempio provocando coscientemente un'inutile mutilazione o agendo per scopi estranei (scientifici, dimostrativi, didattici, esibizionistici o di natura estetica), non accettati dal paziente; al contrario non ne risponde, nonostante l'esito infausto, il medico che sottoponga il paziente a un trattamento non consentito e in violazione delle regole dell'arte medica, quando nella sua condotta sia rinvenibile una finalità terapeutica, o comunque la terapia sia inquadrabile nella categoria degli atti medici, poiché in tali casi la condotta non è diretta a ledere e l'agente, se cagiona la morte del paziente, risponderà di omicidio colposo ove l'evento sia riconducibile alla violazione di una regola cautelare (cfr. Cass. pen. sez. V. n. 34521/2010).
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