Medico in equipe e sua responsabilitàFonte: Cod. Civ. Articolo 1176
12 Maggio 2014
Nozione BUSSOLA IN FASE DI AGGIORNAMENTO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE L'attività medica in équipe si fonda sulla cooperazione fra più sanitari che intervengono – simultaneamente ovvero anche in tempi diversi – all'interno di un unico percorso diagnostico o terapeutico, perseguendo l'obiettivo comune della salute e salvaguardia del paziente che vi sia sottoposto. La condotta del singolo medico risulta così funzionalmente connessa a quella del resto dell'équipe, dal momento che senza la necessaria interazione fra le competenze tecnico-scientifiche differenti proprie di ciascun componente, lo scopo unitario non potrebbe essere raggiunto. Ciò comporta che - in caso di esito negativo della diagnosi, terapia, o intervento chirurgico svolto in équipe – l'attribuzione di responsabilità in capo a ciascun componente può derivare non solo dalla violazione delle leges artis relative al proprio ambito di competenza e specializzazione, ma anche dalla mancata osservazione di un più ampio obbligo di vigilanza e controllo sull'operato degli altri membri.
Elemento oggettivo Il presupposto oggettivo della responsabilità civile del medico quale membro di un'équipe si ravvisa nell'ipotesi in cui l'intervento abbia avuto esito negativo. Più precisamente, un intervento può dirsi “non riuscito” non soltanto nei casi in cui ne sia derivato un aggravamento dello stato di salute del paziente, o addirittura l'insorgenza di una nuova patologia, ma anche quando esso non abbia prodotto alcun miglioramento, sempre che tale miglioramento costituisse l'esito legittimamente attendibile di una diligente esecuzione della prestazione medico – chirurgica. Il mancato miglioramento delle condizioni del paziente, infatti, implica una serie di conseguenze, negative, sul piano sia materiale sia morale, a suo carico (ad esempio, in termini di spese mediche e di sofferenze fisiche invano sostenute, ovvero anche di sofferenze morali prodotte dalla consapevolezza della mancata guarigione e dalla prospettiva di doversi sottoporre a nuove cure e ulteriori interventi. Tuttavia, anche nelle ipotesi di intervento “non riuscito” vale la regola generale in tema di responsabilità medica per cui – non potendo essere dedotta ipso facto dalla mancata realizzazione del risultato positivo di cura del paziente – essa dovrà essere valutata alla stregua dei doveri di diligenza che governano l'esercizio dell'attività professionale in questione, per come declinati, in particolare, dagli artt. 1176 e 2236 c.c. Elemento soggettivo Il presupposto per l'attribuzione al sanitario di una responsabilità professionale in équipe si realizza sempre con la violazione delle leges artis che governano il proprio ambito di specializzazione, nel più ampio quadro di cura e assistenza che l'intera équipe è tenuta a fornire al paziente. In taluni casi, però, il singolo potrebbe essere chiamato a rispondere del mancato raggiungimento del risultato atteso per l'intervento anche quando si sia attenuto alle regole di diligenza sottese alla parte di trattamento medico a lui assegnata, ogni qualvolta - in ragione della sua appartenenza all'équipe – avrebbe dovuto e potuto vigilare sull'operato degli altri componenti. Ogni medico, infatti, ha il dovere di stimare l'attività svolta, contestualmente o antecedentemente, dai colleghi, ancorché afferente a specializzazioni diverse dalla sua, in maniera tale da verificarne la conformità alle regole generali dell'attività medico-chirurgica, e da rilevare eventuali errori che risultino evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle conoscenze scientifiche del professionista medio. Un limite alla imputazione di responsabilità in queste ipotesi è costituito dal cosiddetto principio di affidamento – in base al quale il singolo non potrebbe essere obbligato a determinare il proprio comportamento in funzione del rischio di condotte colpose altrui, potendo fare affidamento, appunto, sul fatto che gli altri soggetti coinvolti nel trattamento agiscano nell'osservanza delle regole di diligenza sottese all'attività medico – chirurgica. Tuttavia, il principio di affidamento non serve ad escludere la responsabilità del singolo membro dell'équipe medica in due casi: qualora si tratti di medico che rivestiva una posizione apicale all'interno dell'équipe, tale da far sorgere a suo carico un obbligo generalizzato di vigilanza e controllo sull'operato di alcuni o di tutti gli altri membri, a lui gerarchicamente subordinati (così accade per il medico primario, ovvero per lo strutturato nei confronti dell'operato dello specializzando), ovvero quando, in base a contingenze fattuali riconoscibili mediante le generiche competenze proprie della professione medica, sia possibile prevedere l'imminente verificazione di un danno alla salute del paziente (cosiddetto “principio dell'affidamento temperato”). Nesso causale L'accertamento del nesso eziologico fra l'evento dannoso occorso al paziente e la condotta dei medici dell'équipe segue le regole della causalità in campo medico. In particolare, è necessario verificare, mediante un giudizio necessariamente probabilistico, che l'opera del medico costituisca condicio sine qua non dell'evento dannoso nel senso che, qualora fosse stata svolta correttamente e prontamente, lo avrebbe certamente – o comunque con una probabilità seria e apprezzabile – evitato. Tale accertamento deve avvenire mediante il ricorso alle leggi scientifiche di tipo statistico che si adattino alle caratteristiche del caso concreto, tenendo conto, cioè, dell'età, del sesso, delle condizioni generali del paziente, dell'eventuale presenza di fenomeni morbosi interagenti, e di tutte le variabili individuali che incidono sul trattamento del singolo paziente. Seguendo poi anche un criterio di regolarità causale, è necessario escludere l'intervento di fattori causali alternativi idonei ad interrompere il processo causale innescato dall'azione o omissione del sanitario. Questo schema non muta in presenza di una pluralità di condotte, ascrivibili a soggetti diversi, come accade nel caso dell'intervento in équipe: infatti, anche qualora si tratti di azioni/omissioni realizzate in tempi diversi, se nella concatenazione degli avvenimenti esse abbiano cagionato una situazione tale per cui l'evento dannoso, sebbene direttamente scaturito dall'ultima delle condotte in questione, non si sarebbe in concreto verificato, ne andrà comunque riconosciuta l'efficienza causale. Viceversa, quando sia sopravvenuta una causa da sé sola sufficiente a provocare il danno, in quanto autonoma, eccezionale e del tutto atipica rispetto alla serie causale già in atto (ad esempio, la condotta anomala e imprevedibile tenuta da uno dei medici dell'équipe) i fattori pre-esistenti perdono rilevanza causale e sono degradati a mere occasioni di realizzazione dell'evento stesso. Onere della prova La ripartizione dell'onere della prova segue le regole generali dettate in tema di responsabilità professionale del singolo medico. A tal proposito, la legge n. 24 dell'8 marzo 2017(“Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, cosiddetta “legge Gelli”) ha sancito un mutamento di paradigma rispetto al modello di responsabilità medica “da contatto sociale”, delineato dalle sezioni unite della Corte di Cassazione nel 1999. A tutt'oggi, infatti, la responsabilità del sanitario che opera all'interno di una struttura, pubblica o privata, viene inquadrata come extracontrattuale (art. 7 l. 24/2017), ossia connessa ad una sua condotta dolosa o colposa che abbia provocato al paziente un danno alla salute qualificabile dall'ordinamento come “ingiusto”. È stato dunque espunto il principio della “vicinanza della prova”, precedentemente sotteso alla distribuzione dell'onere probatorio, secondo il quale, alla luce dell'art. 1218 c.c., al paziente – creditore spettava semplicemente dimostrare di essere entrato in “contatto” con il medico (ovvero con l'équipe), e di aver subito un danno in termini di peggioramento, ovvero anche di mancato miglioramento del proprio stato di salute, allegando l'inadempimento del sanitario – debitore, mentre quest'ultimo era tenuto a provare la diligente esecuzione della propria prestazione, ovvero la derivazione dell'evento dannoso da un fattore causale non prevedibile né altrimenti evitabile (v. M. Di Pirro, La responsabilità del medico. Tutela civile, penale e profili deontologici, Napoli, 2011, 47 ss.). Invero, seguendo lo schema della legge Gelli, l'onere della prova, per così dire “agevolato” in favore del paziente persisterebbe esclusivamente nei confronti della struttura sanitaria, la cui responsabilità continua ad essere concepita come contrattuale. Colui che, invece, voglia promuovere un'azione risarcitoria direttamente nei confronti del singolo, o dell'équipe, operante all'interno della struttura, dovrà dimostrare il dolo o la colpa individuale nella esecuzione dell'intervento medico – chirurgico, oltre che la sussistenza del rapporto causale fra l'attività in questione e il danno ingiusto patito. Per quanto attiene, più da vicino, la prova della responsabilità del medico in équipe, la diversificazione fra la posizione della struttura e quella della persona fisica è stata veicolata, in certa misura, anche prima della riforma Gelli del 2017. Una parte della dottrina, infatti, segnalava già da tempo l'effettiva difficoltà pratica per il danneggiato di dimostrare in giudizio non soltanto il contributo fornito dal singolo nella esecuzione dell'intervento e nella produzione dell'evento dannoso, ma anche la sussistenza di eventuali responsabilità per omesso controllo riferibili agli altri sanitari all'interno dell'équipe operatoria. Ecco perché veniva invocato il principio “res ipsa loquitur”, al fine di dedurre dalla realizzazione in natura di un determinato fatto dannoso una presunzione di negligenza nella condotta di chi lo abbia materialmente cagionato (per un approfondimento su questo principio v. F. Ambrosetti – M. Piccinelli – R. Piccinelli, La responsabilità nel lavoro medico d'équipe. Profili penali e civili, Torino, 2003, 203 ss.): in questo modo, la prova dell'esistenza di un danno tangibile sofferto dal soggetto in conseguenza all'intervento in équipe al quale si era sottoposto farebbe scattare comunque la responsabilità della struttura – pubblica o privata – nell'ambito della quale l'équipe medica ha operato, e alla quale è legata da un rapporto di tipo contrattuale, al di là e a prescindere dalla responsabilità eventualmente ascrivibile ai singoli componenti del gruppo operatorio. Aspetti processuali Sul piano civilistico, i componenti dell'équipe che siano ritenuti responsabili del danno subito dal paziente ne rispondono in via solidale, in ottemperanza a quanto disposto dall'art. 2055 c.c., fermo restando il diritto di regresso riconosciuto al singolo che lo abbia risarcito integralmente nei confronti degli altri membri corresponsabili. Uno sguardo alla responsabilità penale del medico in équipe La responsabilità del medico in équipe viene riconosciuta anche in sede penale quando dalla condotta negligente del singolo, ovvero dall'omessa o inadeguata vigilanza da parte sua sull'operato degli altri membri del gruppo operatorio, si sia prodotto un evento da cui la legge fa dipendere l'esistenza di un reato (morte o lesioni personali del paziente). Il che fa scattare, a carico del sanitario ritenuto responsabile, un'obbligazione risarcitoria per i danni prodotti dall'illecito penale. Un limite all'imputazione di responsabilità nei confronti del singolo sanitario che, di per sé, si sia attenuto alle regole dell'arte medica nell'esecuzione del proprio segmento terapeutico o operatorio, è rappresentato sempre dal principio di affidamento, al quale tuttavia la giurisprudenza penale applica significativi temperamenti, qualora l'errore da altri commesso fosse riconoscibile, pure in assenza di una competenza settoriale specifica, ovvero quando si tratti di soggetti in posizione apicale all'interno dell'équipe (a titolo esemplificativo, per il primo gruppo di ipotesi, v. Cass., sez. IV, 6 febbraio 2015, n. 30991: «in tema di colpa professionale, qualora ricorra l'ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario - compreso il personale paramedico - è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all'osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell'agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l'affermazione dell'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità». In questi termini la Corte ha confermato la sentenza di condanna nei confronti degli infermieri e dell'anestesista per le lesioni occorse alla vittima, la quale, in attesa di essere sottoposta ad intervento chirurgico, era stata posizionata sul lettino operatorio ed era stata girata sul lato, senza tuttavia essere legata, ed in tale posizione le era stata somministrata l'anestesia, a causa della quale, sopravvenuto lo stato di incoscienza, era caduta dal letto. Per il secondo gruppo di ipotesi, v., da ultimo Cass., sez. IV, 5 maggio 2015 n. 33229: «In tema di responsabilità medica, il capo dell'équipe operatoria è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente in ragione della quale è tenuto a dirigere e a coordinare l'attività svolta dagli altri medici, sia pure specialisti in altre discipline, controllandone la correttezza e ponendo rimedio, ove necessario, ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali o comunque rientranti nella sua sfera di conoscenza e, come tali, siano emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio». In applicazione del principio è stata confermata condanna nei confronti del chirurgo otorino capo équipe, il quale, in presenza di specifica questione anestesiologica di carattere interdisciplinare, da lui pure individuata, non aveva impedito all'anestesista di procedere con più tentativi all'anestesia con curaro, cui conseguiva il decesso del paziente. Per ulteriori approfondimenti sui limiti all'applicazione del principio di affidamento nella individuazione della responsabilità penale del medico in euqipe v., da ultimo, ex pluribus, L. Risicato, L'attività medica d'équipe tra affidamento e obblighi di controllo reciproco. L'obbligo di vigilare come regola cautelare, Torino, 2013; L. Gizzi, Équipe medica e responsabilità penale, Milano, 2011) Casistica
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