Responsabilità medica contrattuale e/o extracontrattuale

10 Luglio 2018

Il volto cangiante della disciplina della responsabilità medica, per decenni delineato dai mutevoli tratti della giurisprudenza di merito e di legittimità, risulta oggi raffigurato, con contorni più definiti, da un recente intervento del legislatore italiano che, con la l. n. 24 del 2017 (cd. legge Gelli-Bianco), ha disciplinato un doppio binario, configurando all'art. 7 una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e una responsabilità extracontrattuale del medico.
Inquadramento

Il volto cangiante della disciplina della responsabilità medica, per decenni delineato dai mutevoli tratti della giurisprudenza di merito e di legittimità, risulta oggi raffigurato, con contorni più definiti, da un recente intervento del legislatore italiano che, con la l. n. 24 del 2017 (cd. legge Gelli-Bianco), ha disciplinato un doppio binario, configurando all'art. 7 una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria (privata o pubblica che sia) e una responsabilità extracontrattuale del medico, salvo che questi abbia stipulato un contratto con il paziente (si tornerà più diffusamente sull'art. 7 ).

L'intervento legislativo trova ragion d'essere nella volontà di ricondurre la responsabilità del medico nell'alveo delle regole proprie della responsabilità extracontrattuale per quanto concerne l'onere della prova (in particolare, della colpa e del nesso causale) e il termine di prescrizione (quinquennale, diverso da quello decennale previsto per la responsabilità contrattuale). E a tanto il legislatore è stato indotto, è da ritenersi, in conseguenza di un diritto di creazione giurisprudenziale sulla base del quale «per il medico […][era] piuttosto remota la possibilità di uscire indenne da una domanda di risarcimento del danno per colpa professionale”, un sistema concepito non già intorno al principio cardine della responsabilità per colpa ma “un sistema di ‘responsabilità di posizione', dove il sanitario finisce per rispondere dell'insuccesso dell'intervento per il solo fatto di rivestire la qualifica di sanitario» (M.ROSSETTI, Unicuique suum, ovvero le regole di responsabilità non sono uguali per tutti (preoccupanti considerazioni sull'inarrestabile fuga in avanti della responsabilità medica), in Giustizia civile, 10, 2010, 2218).

Breve excursus sulle principali tappe giurisprudenziali e legislative che hanno contribuito a delineare il sistema attuale della responsabilità medica nell'ambito della rc

Per comprende appieno la portata della legge n. 24/2017 pare necessario ripercorrere, sia pure in via di estrema sintesi, le principali tappe che hanno inciso in modo significativo sullo statuto della responsabilità medica nell'ordinamento italiano.

A lungo, la classe medica italiana ha goduto di una sostanziale immunità dall'accertamento della relativa responsabilità professionale; i più attenti commentatori sono soliti rammentare che il 24 luglio del 1871 la Cassazione di Napoli si era addirittura spinta a sentenziare che «chi nell'esercizio della sua professione arreca danno ad altri per cattivo magistero della sua arte non è in colpa e non incontra responsabilità, a meno che non sia provato l'animo deliberato di malaffare»(la sentenza è richiamata dall'annotatore di Cass. Roma, 8 giugno 1886, in Foro it., 1886, I, 714 ed è citata da U. IZZO, in Il tramonto di un ‘sottosistema della r.c.: la responsabilità medica nel quadro della recente evoluzione giurisprudenziale, in Danno e responsabilità, 10, 2, 2005, 130). Agli albori della giurisprudenza di legittimità del nuovo Stato italiano, l'onere probatorioposto in capo al paziente che assumeva di esser stato danneggiato dalla condotta negligente od imperita del medico veniva pertanto configurato in modo assai gravoso atteso che del medico occorreva provare l'animo deliberato di malaffare.

Trascorso oltre un secolo da quella pronuncia, negli anni Settanta del XX secolo, la Corte di cassazione vira e dà vita ad un nuovo e assai più favorevole regime dell'onere della prova per il paziente. La creazione di speciali regole operazionali nell'ambito della responsabilità medica avviene in prima battuta conferendo una diversa rilevanza giuridica (non già sul piano della valutazione della colpa già accertata ma, si badi, sul piano dell'onere della prova della colpa da accertare) tra interventi routinari ed interventi complessi; con la sentenza n. 2439/1975 (in Foro it., 1976, I, 745) - letteralmente riprodotta nella sentenza n. 6141/1978 (in Foro it., 1979, I, 4), sentenza quest'ultima ampiamente citata nella pronuncia n. 6220/1988 – la Corte di cassazione statuisce che, ai sensi degli artt. 2236 e 1218 c.c. il paziente (la Corte, per il vero, discorre di “cliente”) deve limitarsi a provare che l'intervento medico cui è stato sottoposto non era di difficile esecuzione e che le sue condizioni di salute finali sono risultate deteriori rispetto a quelle preesistenti l'intervento; tanto accertato, scrive la Corte, «non può non presumersi la inadeguatezza o non diligente esecuzione della prestazione professionale; presunzione basata su di una regola di comune esperienza nel settore chirurgico ed in definitiva sul principio dell'id quod plerumque accidit». In altri termini, per tale giurisprudenza (che fa quindi proprio il principio res ipsa loquitur), la prova da parte del paziente della natura routinaria dell'intervento e dell' aggravamento delle sue condizioni di salute genera una presunzione di inadempimento del professionista medico, sicché è questi a dover vincere la presunzione provando «di avere adeguatamente e diligentemente eseguito la prestazione professionale e di nulla aver potuto contrapporre all'insorgenza dell'esito peggiorativo dell'intervento, in quanto causata dal sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile». Non è mancato chi, in particolare nel ricorso all'inferenza insita nella regola probatoria del res ipsa loquitur, ha ravvisato la creazione di matrice giurisprudenziale di forme di responsabilità semi-oggettiva quando non addirittura oggettiva o comunque un criterio di accertamento della responsabilità idoneo a trasformare l'obbligazione di mezzi del medico in obbligazione di risultato.

In relazione agli interventi routinari di cui si diceva poc'anzi, l'art. 2236 c.c. per opera della giurisprudenza, vede dunque scemare grandemente, o dovrebbe forse meglio dirsi scomparire, la propria portata precettiva, l'art. 2236 c.c. applicandosi «solo se [il medico] versi in colpa grave, quante volte il caso affidatogli sia di particolare complessità o perché non ancora sperimentato e studiato a sufficienza o perché non ancora dibattuto con riferimento ai metodi terapeutici da seguire (Cass. civ., 26 marzo 1990 n. 2428(Cass. civ., n. 4152/1995; nello stesso senso, ancora dieci anni dopo, v. Cass. civ., n. 7997/2005). In materia di responsabilità medica, la giurisprudenza crea una ulteriore regola applicativa dell'art. 2236 c.c. allorquando statuisce che tale norma si applichi ai soli casi di imperizia, non anche a quelli di imprudenza e negligenza: «Secondo il costante orientamento di questa Corte (cfr. Cass. 6464/1994; Cass. 3023/1994; Cass. 1132/1976), la disposizione dell'art. 2236 c.c. che, nei casi di prestazioni che implichino la soluzione di problemi tecnici particolarmente difficili, limita la responsabilità del professionista ai soli casi di dolo o colpa grave, non trova applicazione per i danni ricollegabili a negligenza o imprudenza, dei quali il professionista, conseguentemente, risponde anche solo per colpa lieve» (Cass. civ., n. 11440/1997; nello stesso senso, v. Cass. civ., 10 maggio 2000, n. 5945 ed un decennio dopo Cass. civ., n. 9085/2006).

Regole speciali vengono elaborate dalla giurisprudenza anche per quanto concerne l'onere di allegazione da parte dell'attore in ordine ai profili di colpa contestata al medico citato in giudizio (cfr. Cass. civ., n. 9471/2004), onere interpretato in modo certo assai più lasco rispetto all'usuale (perché dovuto) rigore applicato dai giudici nell'interpretazione dell'atto di citazione.

Tale modo di intendere l'onere probatorio trova conferma anche in materia di consenso informato in pronunce quali, su tutte, la sentenza n. 7027/2001, ove la Corte di cassazione afferma che «avrebbe dovuto essere il [medico] a provare il fatto estintivo del dovere di informazione, ossia di avervi adempiuto a prescindere dalle difficoltà dell'attività professionale prestata, essendo incondizionato il dovere medesimo […]» (valga osservare che tale sentenza ha preceduto di pochi mesi la nota pronuncia resa a Sezioni Unite, la n. 13533/2001, secondo cui è il debitore a dover provare l'adempimento, il creditore potendo limitarsi a provare il titolo giuridico, fonte del rapporto, e ad allegare l'inadempimento).

Il formante giurisprudenziale ha contribuito a creare un regime speciale di regole per la materia della responsabilità medica non solo in relazione alla prova della colpa, di cui si è fin qui sinteticamente detto, ma altresì in ordine all'accertamento nel nesso di causa. Sul punto, vale evidenziare innanzitutto che la giurisprudenza di legittimità, allestendo un sistema di regole processuali in favore del paziente attore, finisce con il porre in capo allo stesso medico la prova in ordine a quell'elemento della fattispecie che è il nesso di causa: un elemento del fatto addotto dal paziente attore quale causa petendi deve dunque essere fornita dal medico convenuto.

In ordine all'accertamento della causalità omissiva, la Corte di cassazione fa propria una concezione della causalità eccentrica rispetto alla interpretazione che la dottrina e la giurisprudenza penale avevano tradizionalmente prospettato degli artt. 40 e 41 c.p. A far data dalla pronuncia n. 11755/2006 la Corte di cassazione e quindi le Sezioni Unite n. 21619/2007 affermano che l'accertamento della causalità civile richiede uno standard probatorio meno severo di quello richiesto nel processo penale, riconducibile al principio del più probabile che non.

L'accertamento del nesso di causa diviene fievole con l'applicazione giurisprudenziale di quella nuova categoria di danno denominata “danno da perdita di chance (di sopravvivenza, di guarigione)”, fattispecie da molti qualificata quale mera finzione atteso che, a stretto rigore – è stato detto – la chance non è un bene che faccia parte del patrimonio del paziente, certamente non è un bene esistente prima dell'intervento del medico sorgendo anzi per effetto dell'intervento del medico.

Segue. In particolare, la responsabilità medica nell'ambito della struttura ospedaliera

L'obbligo del medico di curare il paziente può trovare la propria fonte non solo nel contratto di prestazione d'opera intellettuale stipulato direttamente con il paziente ma altresì nel contratto che il medico stipula con la struttura ospedaliera (pubblica o privata) presso cui opera e a cui si rivolge il paziente. In tale seconda ipotesi, pertanto, il paziente non stipula un contratto con l'esercente la professione sanitaria ma con la struttura di cui il medico è dipendente.

A lungo si è dibattuto in dottrina come in giurisprudenza in ordine alla natura della responsabilità del medico che opera all'interno di una struttura ospedaliera. La tesi tradizionale vi ha ravvisato un'ipotesi di responsabilità extracontrattuale; il medico, è stato detto, è un soggetto terzo rispetto al rapporto contrattuale che lega la struttura con il paziente e pertanto non può che rispondere a titolo di responsabilità aquiliana, la responsabilità di natura contrattuale presupponendo sempre il raggiungimento di un accordo e, quindi, ancor prima, la scelta da parte del paziente del medico curante (il che non avviene in una struttura in cui i medici preposti alla cura dei singoli pazienti sono individuati sulla base di regole organizzative interne). È stato evidenziato altresì che nei confronti del paziente solo la struttura sanitaria è tenuta all'adempimento, non anche il medico dipendente. Tale ricostruzione interpretativa ravvisa pertanto una responsabilità contrattuale in capo alla struttura sanitaria che con il paziente stipula il cd. contratto di spedalità o di assistenza (cfr. Cass. civ., n. 2144/1988, Cass. civ., n. 2428/1990) e una responsabilità extracontrattuale in capo al medico dipendente o della cui opera la struttura si avvale, anche a prescindere dalla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato (tanto è stato precisato dalla Corte di cassazione a far data dalla pronuncia n. 13066/2004).

L'equiparazione (ritenuta insoddisfacente) del medico curante al quisque de populo, al passante, obbligato al rispetto del principio del neminem laedere (pur essendo egli parte di una relazione di cura con il paziente) ha condotto parte della dottrina e parte della giurisprudenza, mosse dall'intento di apprestare una migliore tutela al paziente (sia in punto di onere della prova che di termine di prescrizione), a percorrere la via della natura contrattuale della responsabilità del medico dipendente, mediante il ricorso alla figura del contratto a favore di terzo, tesi questa non ritenuta convincente da molti in considerazione, sopra tutto, del fatto che il paziente non è il terzo titolare del diritto a richiedere la prestazione oggetto dell'obbligazione assunta da altri in suo favore ma è egli stesso parte di un contratto concluso con la struttura medica. Parimenti, non sono mancate critiche ad una ricostruzione alternativa – pur questa volta a riconoscere natura contrattuale alla responsabilità del medico – che, in dottrina come in giurisprudenza, ha fatto ricorso al cd. contratto con obblighi di protezione per terzi. Non poche sono state le critiche mosse a talaltra ricostruzione; basti qui porre in evidenza che tale fattispecie non consente di estendere in favore del terzo un obbligo di protezione che non sia dovuto alla controparte (per questo rilievo, v. C. CASTRONOVO, La nuova responsabilità civile; Giuffrè, III ed., 2006, 481).

Nel 1999 la Corte di cassazione, con la sentenza n. 589, aderendo alla qualificazione della responsabilità del medico elaborata dal formante dottrinale, ravvisa nella responsabilità dell'esercente sanitario una responsabilità da contatto sociale, di natura contrattuale in quanto scaturente dalla violazione di obblighi di protezione o doveri di sicurezza inerenti la condotta oggetto dell'obbligazione assunta dal medico con la struttura sanitaria, doveri che si specificano in quegli obblighi di cura di cui è destinatario il singolo paziente: «[l]'obbligazione senza prestazione riconosce […] che il medico dipendente non è debitore [del paziente]ma salva la responsabilità del medico dall'onta di essere equiparata alla responsabilità del passante» (C. CASTRONOVO, idem, 490). Tale ricostruzione, che ravvisa dunque una natura contrattuale sia della responsabilità della struttura che del medico (per quanto, vale precisarlo, solo la prima trova fonte in un contratto) troverà conferma nella pronuncia resa a Sezioni Unite, la n. 577/2008, ove vengono formulati i seguenti principi di diritto: «In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio, l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di un'affezione ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante».

Segue. La legge n. 189/2012 (di conversione del cd. decreto balduzzi)

Nel 2012 il legislatore italiano con il Decreto legge n. 158 (cd. decreto Balduzzi), allo scopo di disciplinare, nell'ambito del giudizio di responsabilità medica, la valutazione del rispetto delle buone prassi e delle linee guida, ha previsto: «Fermo restando il disposto dell'art. 2236 c.c., nell'accertamento della colpa lieve nell'attività dell'esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell'articolo 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell'osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale ed internazionale».

In sede di conversione il testo subisce uno stravolgimento; nell'art. 3 del d.l. n. 158/2012, introdotto con l'intento di limitare il ricorso alla cd. medicina difensiva, conseguenza di quella che è stata definita “inarrestabile fuga in avanti della responsabilità medica” (M. Rossetti, cit.), si legge: «L'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo».

La formulazione della norma non appare felice, atteso che, sulla base del criterio letterale, a stretto rigore, la norma dovrebbe essere interpretata nel senso che nei soli casi di responsabilità per colpa lieve (“in tali casi”) la responsabilità medica avrebbe natura aquiliana, soluzione interpretativa questa del tutto irragionevole perché aliena ad un sistema in cui la qualificazione della natura del titolo di responsabilità non discende (né può farsi discendere) dalla gradazione della colpa. Tanto precisato, è comunque innegabile che il legislatore ha comunque operato un espresso rimando all'art. 2043 c.c. Tale rimando è stato però diversamente interpretato dalla giurisprudenza italiana.

Un primo orientamento vi ha ravvisato la voluntas legislativa di ricondurre il regime di responsabilità medica al sistema vigente ante 1999. Il “legislatore consapevole” (Trib. Varese, n. 1406/2012) ha inteso prevedere che in sede civile, anche in caso di colpa lieve, la responsabilità del medico è di natura aquiliana, tale interpretazione confacendosi alla ratio dell'intervento legislativo «in quanto viene alleggerito l'onere probatorio del medico e viene fatto gravare sul paziente anche l'onere (non richiesto dall'art. 1218 c.c.) di offrire dimostrazione giudiziale dell'elemento soggettivo di imputazione della responsabilità. L'adesione al modello di responsabilità ex art. 2043 c.c. ha, anche, come effetto, quello di ridurre i tempi di prescrizione: non più 10 anni, bensì 5». (idem). Nello stesso senso si è pronunciato il Trib. Milano, n. 9693/2014 che ha letto il richiamo all'art. 2043 c.c. come una precisa indicazione del legislatore volta ad individuare il criterio attributivo della responsabilità del medico in quello della responsabilità da fatto illecito.

Un secondo orientamento ha invece ravvisato nel richiamo all'art. 2043 c.c. una mera svista del legislatore, sicché dovrebbe ritenersi immutata la natura contrattuale della responsabilità medica come qualificata dal diritto vivente. Nello stesso senso si è espressa la Corte di cassazione che nella sentenza n. 8940/2014 ha affermato che «[n]on sembra ricorrere, dunque, alcunchè che induca il superamento dell'orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni (da ultimo riaffermate da Cass. n. 4792 del 2013)».

Legge n. 24/2017 (cd. legge Gelli-Bianco). in particolare, sulle fattispecie di concorso di responsabilità tra struttura sanitaria e medico

Quanto fin qui descritto, per cenni ed in via di estrema sintesi, rappresenta lo scenario in punto di responsabilità medica in cui si staglia la cd. legge Gelli-Bianco.

L'art. 7 della legge prevede, a chiare lettere: «1. La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose. 2. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell'ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina. 3. L'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. […]».

Con la legge Gelli-Bianco viene pertanto restaurato il regime del doppio binario di responsabilità predicato ante 1999 (allorquando, come si è visto, si era consolidata la ricostruzione giurisprudenziale della natura contrattuale della responsabilità anche del medico dipendente/collaboratore di una struttura); oggi, per espressa definizione legislativa, ha natura contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria mentre ha natura extracontrattuale la responsabilità del medico che ivi opera, con tutto quanto ne consegue in punto di onere della prova e termine prescrizionale.

Vale premettere innanzitutto che la previsione espressa di un concorso di responsabilità tra struttura e medico supera le perplessità, prospettate fin dal finire degli anni Sessanta del secolo scorso da parte comunque minoritaria della dottrina, in ordine alla stessa ammissibilità di un concorso di responsabilità extracontrattuale dei dipendenti, quindi anche dei medici, e responsabilità contrattuale della struttura quale organizzazione complessa; si riteneva infatti che la responsabilità di quest'ultima assorbisse, neutralizzandola, l'illiceità della condotta del medico. La scelta del legislatore sul punto è chiara: la struttura sanitaria, quale struttura organizzata complessa che, con l'accettazione del paziente, stipula con questi un contratto di spedalità, risponde, oltre che per l'inadempimento da colpa propria, anche per il fatto colposo o doloso dei suoi ausiliari. Si ribadisce pertanto in materia di responsabilità sanitaria la disciplina posta dall'art. 1228 c.c., sicché sussiste nei confronti del paziente creditore una sorta di garanzia, assunta dalla struttura sanitaria debitrice, di rispondere anche dei fatti commessi da altri, della cui opera si avvale (cfr. P. TRIMARCHI, Il contratto: inadempimento e rimedi, Giuffrè, 2010, 46; v. anche F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche italiane, 625). La struttura sanitaria risponde pertanto per il fatto dei medici sulla base di una regola di responsabilità che prescinde dalla colpa nella scelta o nella vigilanza dell'ausiliario (v. M.C. BIANCA, Diritto civile. 5. La responsabilità, Giuffrè editore, 1994, 60) ma risponde pur sempre, in relazione alla condotta dei medici (e ferma restando la configurabilità di una sua responsabilità per fatto proprio) solo allorquando costoro abbiano agito con dolo o colpa. Il fatto dell'ausiliario rileva dunque come fatto di inadempimento, del che il medico non risponde verso il creditore non essendo parte del rapporto obbligatorio. Il medico cui è imputabile una condotta colposa o dolosa e che, incidendo sull'integrità psico-fisica del paziente ne ha leso un diritto fondamentale della persona, risponderà invece, in proprio, a titolo di illecito aquiliano.

Il testo dell'art. 7 della legge n. 24/2017, oltre al concorso improprio di responsabilità di cui si è discorso finora, contempla anche un concorso proprio di responsabilità che si prefigura allorquando rispondono entrambi, sia la struttura che il medico, a titolo di responsabilità contrattuale. Il primo comma di tale disposizione prevede infatti la responsabilità contrattuale della struttura anche quando il paziente abbia direttamente scelto il medico che lo prenderà in cura; in tale ipotesi, ai sensi dell'inciso finale del terzo comma anche il medico risponderà a titolo contrattuale perché scelto dal paziente con cui, dunque, assume un'obbligazione contrattuale; in tal caso non risponderà a titolo di responsabilità extracontrattuale non essendo dato configurare un fatto illecito aquiliano che coincida con l'inadempimento della prestazione oggetto dell'obbligazione assunta dal debitore nei confronti del creditore.

Da ultimo, vale precisare che, in conformità al disposto dell'art. 1228 c.c. e alla relativa giurisprudenza, la struttura sanitaria risponderà del fatto del medico fin quando l'incarico professionale si ponga quale cd. occasione necessaria del fatto (sintagma che comprende anche le ipotesi di abuso dell'incarico, cfr. Cass. civ., n. 1682/2000), pena far esulare la responsabilità della struttura dai confini della responsabilità contrattuale

Natura della responsabilità della struttura sanitaria e del medico. Orientamenti a confronto

GIURISPRUDENZA ANTE LEGGE BALDUZZI

Cass. civ., n. 598/1999 – Sulla responsabilità del medico ospedaliero, qualificata quale responsabilità da contatto

Nei confronti del medico, dipendente ospedaliero, si configura una responsabilità contrattuale nascente da "un'obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto", in quanto poiché sicuramente sul medico gravano gli obblighi di cura impostigli dall'arte che professa, il vincolo con il paziente esiste, nonostante non dia adito ad un obbligo di prestazione, e la violazione di esso si configura come culpa in non faciendo, la quale dà origine a responsabilità contrattuale.

La pur confermata assenza di un contratto, e quindi di un obbligo di prestazione in capo al sanitario dipendente nei confronti del paziente, non è in grado di neutralizzare la professionalità (secondo determinati standard accertati dall'ordinamento su quel soggetto), che qualifica ab origine l'opera di quest'ultimo, e che si traduce in obblighi di comportamento nei confronti di chi su tale professionalità ha fatto affidamento, entrando in "contatto" con lui.

Cass. civ., Sez.Un. n. 577/2008 – Il rapporto paziente-struttura come autonomo atipico contratto di spedalità e la ripartizione dell'onere probatorio

Il legame che si instaura tra paziente e struttura va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l'apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di "assistenza sanitaria", che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori. La responsabilità della struttura è così ricondotta ad un autonomo contratto (di spedalità).

Inquadrata nell'ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico, nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell'onere probatorio deve seguire i criteri fissati in materia contrattuale, alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell'inadempimento e dell'inesatto adempimento. Prestata piena adesione al principio espresso dalla pronunzia suddetta, l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno.

ORIENTAMENTI A CONFRONTO POST LEGGE BALDUZZI

Trib. Varese, 26 novembre 2012

Il Legislatore sembra (consapevolmente e non per dimenticanza) suggerire l'adesione al modello di responsabilità civile medica come disegnato anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l'azione aquiliana. È evidente che l'adesione ad un modulo siffatto contribuisce a realizzare la finalità perseguita dal legislatore (contrasto alla medicina difensiva) in quanto viene alleggerito l'onere probatorio del medico e viene fatto gravare sul paziente anche l'onere (non richiesto dall'art. 1218 c.c.) di offrire dimostrazione giudiziale dell'elemento soggettivo di imputazione della responsabilità. L'adesione al modello di responsabilità ex art. 2043 c.c. ha, anche, come effetto, quello di ridurre i tempi di prescrizione: non più 10 anni, bensì 5.

Trib. Milano, n. 13574/2014 – La responsabilità del medico è di natura contrattuale

La responsabilità del medico ospedaliero – anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 3 d.l. 158/2012 – è da qualificarsi come contrattuale. Il primo comma dell'art. 3 del d.l. Balduzzi come sostituito dalla legge di conversione si riferisce, esplicitamente, ai (soli) casi di colpa lieve dell'esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. L'ossequio alla lettera della nuova disposizione comporta anche adeguata valorizzazione dell'incipit dell'inciso immediatamente successivo alla proposizione che esclude la responsabilità penale del sanitario in detti casi , per effetto del quale deve ritenersi che esso si riferisca soltanto - appunto - a "tali casi" (di colpa lieve del sanitario che abbia seguito linee guida ecc.).

Trib. Milano, n. 9693/2014 - La responsabilità del medico è di natura extracontrattuale

Il tenore letterale dell'art. 3 comma 1 della legge Balduzzi e l'intenzione del legislatore conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d'opera (diverso dal contratto concluso con la struttura) venga ricondotta dal legislatore del 2012 alla responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. e che, dunque, l'obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito aquiliano (che il danneggiato ha l'onere di provare). In ogni caso l'alleggerimento della responsabilità (anche) civile del medico “ospedaliero”, che deriva dall'applicazione del criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria indicato dalla legge Balduzzi (art. 2043 c.c.), non ha alcuna incidenza sulla distinta responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata (sia essa parte del S.S.N. o una impresa privata non convenzionata), che è comunque di tipo “contrattuale” ex art. 1218 c.c.

Cass. civ., n. 4030/2013 - La responsabilità del medico è di natura contrattuale

La materia della responsabilità civile segue le sue regole consolidate, e non solo per la responsabilità aquiliana del medico, ma anche per la c.d. responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale.

Cass. civ., n. 8940/2014 - La responsabilità del medico è di natura contrattuale

L'art. 3 del d.l. 152/2012 omette di precisare in che termini si riferisca all'esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilità penale, comporta che la norma dell'inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c., poichè in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l'irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso certamente prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura.

Tanto evidenzia che la norma non sembra avere a regime l'esegesi sostenuta dalla ricorrente e che, quindi, non può avere le ricadute sulle vicende pregresse da essa supposte, sulla falsariga del precedente di merito invocato.

Non sembra ricorrere, dunque, alcunchè che induca il superamento dell'orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni (da ultimo riaffermate da Cass. civ., n. 4792 del 2013).

GIURISPRUDENZA POST LEGGE GELLI-BIANCO

Trib. Milano, 14 febbraio 2018

In via generale, ai sensi dell'art. 7 della l. n. 24 del 2017, applicabile alla fattispecie concreta, l'esercente la professione sanitaria risponde del proprio operato ai sensi dell'art. 2043 c.c., salvo che abbia agito nell'adempimento di un'obbligazione contrattuale assunta con il paziente, nel qual caso egli risponde ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c.

Secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione «in tema di responsabilità civile nell'attività medico-chirurgica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto (o del "contatto") e dell'aggravamento della situazione patologica (o dell'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento) e del relativo nesso di causalità con l'azione o l'omissione dei sanitari, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del "più probabile che non", restando a carico dell'obbligato – sia esso il sanitario o la struttura - la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile» (Cass. civ., sez. III, sent. 16 gennaio 2009 n. 975).

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