Tentativo di conciliazione
09 Giugno 2016
Inquadramento IN FASE DI AGGIORNAMENTO AUTORALE DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE Con l'art. 76, comma 1, d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, è stato inserito nel codice di procedura civile l'art. 185-bis che disciplina la proposta di conciliazione del giudice. La norma prevede che il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando sia esaurita l'istruzione, formuli alle parti, ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all'esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. Opportunamente, in sede di conversione è stato previsto che la proposta di conciliazione non possa costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice. La norma trova un immediato antecedente nell'art. 420 c.p.c., che nella formulazione precedente faceva riferimento alla sola proposta transattiva, e in quella attuale (risultante a seguito delle modifiche recate dall' art. 77, comma 1, lett. b), d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dallal. 9 agosto 2013, n. 98), al pari di quanto previsto nell'art. 185-bis c.p.c., fa riferimento alla proposta transattiva o conciliativa del giudice, e stabilisce che il suo rifiuto senza giustificato motivo, costituisca comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio. Ispirata ad obiettivi diversi è invece la previsione dell'art. 185 c.p.c., che subordina il tentativo di conciliazione alla comparizione personale delle parti, che in questo senso deve essere stata richiesta congiuntamente dalle stesse (altro ancora è la possibilità di disporre la comparizione delle parti ai sensi dell'art. 117 c.p.c., al fine di procedere al libero interrogatorio delle stesse). Conciliazione e transazione
Come traspare dalle norme, la proposta del giudice può essere di due diversi tipi, conciliativa o transattiva.
Quest'ultima è finalizzata a conseguire una transazione, vale a dire una soluzione ispirata all' art. 1965 c.c . , e che di conseguenza si sostanzi nel consenso ad una soluzione con la quale le parti, sulla base di reciproche concessioni, pongano fine alla loro lite. In questo ambito, sarà ben possibile che la regolamentazione intervenga anche su rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti, mediante reciproche concessioni, e anche con la creazione, modificazione o estinzione di tali diversi rapporti giuridici. Non vi sarebbe infatti modo di escludere che la soluzione della crisi passi attraverso una complessiva regolamentazione dei rapporti tra le parti, pur comprendenti questioni diverse da quelle strettamente oggetto del giudizio, quando però tali rapporti siano ritualmente stati introdotti nel processo, anche solo in termini di mere allegazioni.
La prima è invece finalizzata alla soluzione della lite, sulla base di un accordo che possa anche non tener conto delle posizioni di reciproca pretesa, e quindi non necessariamente attraverso il percorso delle reciproche concessioni. I presupposti
La norma prevede che la formulazione della proposta alle parti avvenga ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all'esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto.
Deve ritenersi che siano da escludere, dall'ambito suscettibile di condurre ad una proposta transattiva/conciliativa, le controversie che abbiano ad oggetto diritti indisponibili, almeno tutte le volte in cui non sia possibile pervenire ad una soluzione basata su profili attinenti a diritti disponibili (come può argomentarsi da Cass. civ., sez. un., 22 luglio 2013 n. 17781 ). Quanto alla effettiva portata precettiva dei requisiti indicati dall'art. 185-bis c.p.c.,deve ritenersi che essi rappresentino in realtà delle indicazioni non vincolanti, e non limitative della possibilità di formulare una proposta. Non è in discussione la circostanza per la quale una proposta possa avere maggiori o minori possibilità di essere accettata, sulla base della tipologia della controversia, del suo valore, e della condivisione che caratterizza i principi giuridici applicabili. Ma la possibilità che una proposta venga accettata non può assurgere a criterio di preclusione della sua stessa formulazione.
D'altra parte, alla proposta conciliativa sono attribuite anche funzioni ulteriori. La prima è quella disciplinata dall' art. 91, comma 1, secondo periodo c.p.c. Tale norma prevede che se il giudice accoglie la domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa (dopo l'introduzione dell'art. 185-bis c.p.c., da riferire anche alla proposta conciliativa formulata in base a questa previsione, e non più alla sola disposizione di cui all'art. 185 c.p.c.), condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta stessa al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell'art. 92 c.p.c.. In questo ambito, è innegabile che la ingiustificata mancata accettazione della proposta possa addirittura comportare uno scostamento dall'applicazione del criterio della soccombenza, con l'attribuzione delle spese processuali, per le fasi successive alla formulazione della proposta non accettata, a carico della parte che abbia opposto un rifiuto rivelatosi non giustificato alla proposta richiamata. Il rilievo della proposta, ben al di là dello stretto profilo inerente la modalità di definizione del processo, riflette pertanto i propri effetti anche su un profilo diverso, ed eccentrico rispetto all'ambito principale di applicazione della norma.Ma ancor più rilevante è l'effetto attribuito alla mancata accettazione della proposta conciliativa, a seguito della modifica apportata all'art. 2 comma 2- quinquies l. n. 89/2001 (Legge Pinto), dall'art. 1, comma 77 , lett. c), l. 28 dicembre 2015, n. 208 , a decorrere dal 1 gennaio 2016. Si è in particolare previsto che non sia riconosciuto alcun indennizzo, proprio nel caso di cui all'art. 91, comma 1 , secondo periodo, c.p.c. , vale a dire quando vi sia stato un ingiustificato rifiuto della proposta conciliativa, e la sentenza abbia accolto la domanda in misura non superiore alla proposta stessa.
In sostanza, in tale eventualità la parte che abbia opposto il rifiuto, come detto poi rivelatosi ingiustificato, non solo potrà essere condannata al pagamento delle spese successive alla formulazione della proposta non accettata, ma neppure potrà vedersi riconosciuto alcun indennizzo conseguente alla eventuale eccessiva durata del processo.
E questo introduce, in vista della opportunità di sottoporre alle parti una proposta conciliativa, un ulteriore elemento di valutazione in capo al giudice, il quale potrà risolversi a tale determinazione anche tenendo in conto questi profili ulteriori. Vi è da chiedersi se le disposizioni appena viste possano essere applicate anche rispetto alla proposta transattiva, che non è espressamente richiamata. La risposta deve fare i conti con i casi concreti. In particolare, se anche si volessero escludere ostacoli teorici alla estensione di tali previsioni, lo spazio per la soluzione favorevole dovrebbe essere ricavato nel rispetto delle caratteristiche della proposta transattiva, che si sono appena analizzate. In altre parole, ove la decisione, anche in questa evenienza, non attribuisca nulla di più di quanto fosse stato posto a base della proposta, deve ritenersi che anche in presenza di una proposta transattiva sia ben possibile applicare l'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c. sia direttamente (vale a dire nella regolamentazione delle spese), e sia indirettamente (vale a dire quale preclusione all'indennizzo di cui alla legge Pinto ). Ovviamente, si tratterà di comprendere se una proposta transattiva, caratterizzata da reciproche concessioni, e come tale non suscettibile di riconoscere alle parti l'intero oggetto della domanda, possa non di meno prestarsi ad integrare i requisiti previsti dall'art. 91 c.p.c. .I limiti temporali della proposta
La vera questione controversa, nella applicazione concreta dell' art. 185 -bis c.p.c. , riguarda il termine finale entro il quale essa deve essere formulata.
Il dato meramente normativo prevede che «il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l'istruzione, formula alle parti ove possibile …».
Da tale disposizione si ricavano due elementi.
Il primo è che la proposta debba essere formulata non a discrezione del giudice, ma sempre, quando il processo lo consenta. Ed infatti la norma stabilisce non che il giudice «può formulare», ma che il giudice «formula», spostando il criterio dirimente non nella valutazione astratta da parte del giudice, ma nella concreta condizione del processo, e in particolare «alla natura del giudizio, al valore della controversia e all'esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto».
Se, come visto, queste caratteristiche non valgono come limite alla possibilità di effettuare la proposta, non di meno esse valgono come criterio che impone la proposta, e quando una proposta non venga formulata, deve ritenersi che la valutazione del giudice sia stata nel senso della esclusione del ricorrere di tali presupposti, sia pure implicitamente.
Il secondo è invece quello che maggiormente rileva, e riguarda il limite processuale entro il quale la proposta potrebbe essere formulata.
La norma fissa tale limite facendolo coincidere con l'esaurimento della istruzione.
Si è pertanto sostenuto ( Trib. Milano, 4 luglio 2013 ) che «esaurita e chiusa l'istruttoria, non sussiste più per il giudice il potere dovere di formulare una ipotesi conciliativa o transattiva ai sensi e con gli effetti di cui all' art. 185- bis c . p . c . ». E questo sia in virtù della «interpretazione letterale» della norma, in quanto «l'espressione “sino a quando è esaurita l'istruzione” indica esplicitamente come limite dell'attività del giudice di formulare i termini della transazione o della conciliazione quello della fase istruttoria», e sia in virtù dell'interpretazione «logico sistematica, in quanto stabilire il potere dovere del giudice di formulare, non potendo ciò avvenire se non in termini sufficientemente specifici e dettagliati, alle parti una ipotesi conciliativa o transattiva della controversia, in una fase in cui è già chiusa l'attività istruttoria e non resta che rimettere le parti alla decisione, significherebbe imporre al giudice di anticipare esplicitando il contenuto della ipotesi transattiva/conciliativa la sua probabile decisione finale, senza che agli atti possa sopravvenire alcun nuovo elemento istruttorio utilizzabile per la decisione».
E tuttavia, si è anche sostenuto ( Trib . Fermo, 21 novembre 2013 ), pur nella presa d'atto per la quale una soluzione conciliativa/transattiva a ridosso della sentenza, e all'esito della istruzione, offra un «vantaggio per il sistema e per gli stessi interessati (anche in termine di risparmio sui costi delle spese processuali) […] più modesto», che la questione debba guardare all'intero giudizio, tenendo conto che l'accordo transattivo o conciliativo precluderà ragionevolmente ulteriori gradi di giudizio. In tale prospettiva, è stato affermato che «l'unico vero ostacolo -in cui è in gioco il diritto costituzionale di difesa- è che il giudice, con la sua proposta, non deve spingere la parte che, per motivi psicologici e/o economici, non è in grado di "reggere" i tempi di un processo medio, ad accettare una proposta che le dia molto di meno di quanto le spetta o le imponga molto di più di quanto deve dare», sicché si è ammessa la rimessione in istruttoria, con la formulazione di una proposta conciliativa.
È il caso di dire che la proposta successiva alla chiusura dell'istruzione non può essere intesa per ciò solo anticipatoria del giudizio, sia perché le valutazioni della fase decisionale tengono conto delle ulteriori esplicitazioni difensive delle parti, oltre che di ulteriori riflessioni dello stesso giudice, e sia perché quest'ultimo esplicita il proprio orientamento già in altre circostanze, in corso di giudizio (ad esempio pronunciandosi in caso di richiesta di provvedimenti cautelari).
Né può sottacersi che la proposta deve in effetti essere vista nell'ambito della intera struttura processuale, che non comprende solo il giudizio di primo grado, ma anche le fasi delle impugnazioni, sicché una soluzione condivisa dalle parti sarebbe idonea a deflazionare il carico processuale sull'intero sistema giudiziario. D'altra parte, è innegabile che il rischio di anticipazione di giudizio sia connaturato alla proposta, in qualunque fase essa venga formulata, ciò di cui il legislatore ha mostrato di essere consapevole, prevedendo espressamente che la proposta non sia motivo di ricusazione né di astensione. La motivazione
Ulteriore punto controverso attiene alla necessità di una motivazione della proposta. La giurisprudenza che si è pronunciata sul tema (Trib. Roma, sez. XIII, 4 novembre 2013), ha sostenuto che pur non essendo previsto dalla legge che «la proposta formulata dal giudice ai sensi dell' art. 185 -bis c.p.c. debba essere motivata (le motivazioni dei provvedimenti sono funzionali alla loro impugnazione, e la proposta ovviamente non lo è, non avendo natura decisionale), possono essere indicate alcune fondamentali direttrici utili a orientare le parti nella riflessione sul contenuto della proposta e nell'opportunità e convenienza di farla propria, ovvero di svilupparla autonomamente».
Si tratta di una posizione che appare del tutto ragionevole, quando per l'appunto la proposta si limiti ad indicare gli elementi di fatto di cui tener conto, e operi richiami di giurisprudenza, utili a permettere le necessarie valutazioni alle parti processuali. Mette infine conto rilevare come la giurisprudenza di merito ( . Palermo, sez. I, 16 luglio 2014 ) abbia anche sostenuto che il giudice, in sede di formulazione della proposta conciliativaex art. 185-bis c.p.c. , possa «indicare alle parti che, qualora la proposta non venga accettata, sarà disposta la mediazione ex officio iudicis quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale», con la precisazione per la quale tale condizione che si sarebbe ritenuta soddisfatta soltanto se nel primo incontro le parti avessero svolto effettivamente il tentativo di mediazione. Si tratta di una posizione che tiene conto della necessità di valutare i costi complessivi del giudizio, tanto che in altra occasione (Trib. Milano, 21 marzo 2014) è stato affermato che proprio in presenza di «una causa che, già in itinere, abbia avuto un corso sproporzionato rispetto ai termini reali della controversia, è opportuno che il giudice formuli una proposta conciliativa, sulla base dei fatti pacifici e non contestati», con la possibilità di avviare le parti, in caso di rifiuto immotivato della proposta, alla mediazione ai sensi dell'art. 5 , comma 2 , d.lgs. n. 28/2010 .Riferimenti
ORSOLO, Il ruolo del giudice nella composizione dei conflitti, in Contratti, 2014, 12, 1172; TEDOLDI, Iudex statutor et iudex mediator: proposta conciliativa ex art. 185-bis c.p.c., precognizione e ricusazione del giudice, in Riv. Dir. Proc., 2015, 4-5, 983;
MORICONI, Mediazione e proposta del giudice: le problematiche relative alla acquisizione, rilevazione e valutazione dei dati relativi, in judicium.it. |