Conciliazione nelle controversie di lavoro

Antonio Lombardi
16 Maggio 2016

L'esigenza di una definizione conciliativa delle controversie è particolarmente avvertita in ambito giuslavoristico, in ragione delle peculiari esigenze di celere definizione delle controversie.
Inquadramento

Inquadramento

L'esigenza di una definizione conciliativa delle controversie è particolarmente avvertita in ambito giuslavoristico, in ragione delle peculiari esigenze di celere definizione delle controversie, tipiche di un sistema di gestione di diritti sensibili, quali il diritto al lavoro ed alla percezione della retribuzione che, secondo l'art. 36 Cost., deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto ed in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. Effetto indiretto della conciliazione è quello di deflazione del contenzioso giurisdizionale che consente, attraverso il controllo dei ruoli giurisdizionali e la conservazione di carichi esigibili, di provvedere ad una più celere definizione delle controversie pendenti.

La summa divisio delle conciliazioni in ambito giuslavoristico è tra conciliazioni stragiudiziali e giudiziali.

Le conciliazioni stragiudiziali (recte: antegiudiziali) sono quelle che avvengono prima che la controversia sia devoluta, mediante la proposizione del ricorso giurisdizionale, alla cognizione del giudice del lavoro. Le stesse possono avere luogo in sede amministrativa, dinanzi ad apposite commissioni costituite presso le Direzioni provinciali del lavoro (art. 410 c.p.c.), ovvero in sede sindacale, sulla base di procedure e davanti agli organismi previsti dalla contrattazione collettiva. Il sistema della conciliazione stragiudiziale è, per effetto della stratificazione legislativa in materia, particolarmente articolato e frammentario, componendosi di ipotesi di conciliazione obbligatoria e facoltativa.

La conciliazione giudiziale ha, viceversa, luogo nel corso del processo dinanzi al giudice, il quale è tenuto ad esperire il relativo tentativo in limine litis, all'udienza di discussione di cui all'art. 420 c.p.c., contestualmente allo svolgimento di interrogatorio libero. Nel caso in cui il tentativo abbia esito positivo, il giudice redige il verbale di conciliazione e lo allega al verbale di udienza. Il verbale di conciliazione, ai sensi dell'art. 420, comma 3, c.p.c., ha efficacia di titolo esecutivo.

In evidenza

La conciliazione in ambito giuslavoristico può essere stragiudiziale o giudiziale. La conciliazione stragiudiziale, a sua volta, si articola in amministrativa o sindacale, facoltativa o obbligatoria. La conciliazione giudiziale ha luogo nel corso del processo dinanzi al giudice, ed il relativo verbale ha efficacia di titolo esecutivo.

La conciliazione stragiudiziale facoltativa

A seguito dell'entrata in vigore del cd. Collegato lavoro (l. 183/2010), che ha apportato modifiche all'art. 410 c.p.c., il tentativo di conciliazione non è più condizione di procedibilità del ricorso giurisdizionale, essendo divenuto facoltativo, fatte salve alcune eccezioni, di cui si dirà innanzi.

Secondo il novellato art. 410 c.p.c., chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall'art. 409 c.p.c. può promuovere, anche tramite l'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato, un previo tentativo di conciliazione dinanzi alla commissione di conciliazione, istituita presso la Direzione provinciale del lavoro. La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. Attesa la natura ricettizia degli atti interruttivi della prescrizione, deve ritenersi che la comunicazione che interrompe la prescrizione e sospende il decorso dei termini decadenziali sia quella fatta alla controparte, all'atto della conoscenza legale e non effettiva (Cass. civ., sez. lav., 1 luglio 2013, n. 16452).

La richiesta del tentativo è consegnata o spedita mediante raccomandata con ricevuta di ritorno. Se la controparte intende accettare la procedura di conciliazione, deposita presso la commissione di conciliazione, entro venti giorni dal ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale. Ove ciò non avvenga, ciascuna delle parti è libera di adire l'autorità giudiziaria.

Emergono sovente, in sede processuale, questioni in ordine all'applicabilità del termine di decadenza di 60 giorni di cui all'art. 32, l. 183/2010 per l'impugnativa dei licenziamenti o termini contrattuali, decorrenti dall'impugnativa stragiudiziale, nei casi in cui il ricorrente abbia comunicato richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione ed il resistente non vi abbia aderito.

Deve ritenersi, sulla base di una lettura dei commi 5, 6 e 7 dell'art. 410 c.p.c., che la mancata accettazione del tentativo di conciliazione, momento a partire dal quale decorre il termine di 60 giorni per la proposizione dell'impugnativa, abbia luogo decorsi venti giorni dal ricevimento della richiesta di cui al comma 5 con la conseguenza che è da tale momento che riprenderà a decorrere il termine di decadenza per la proposizione di ricorso giurisdizionale.

Entro i dieci giorni successivi al deposito dell'istanza la commissione fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione, che deve essere tenuto entro i successivi trenta giorni. Dinanzi alla commissione il lavoratore può farsi assistere anche da un'organizzazione cui aderisce o conferisce mandato.

L'assistenza, in sede amministrativa, delle associazioni sindacali comporta conseguenze di rilievo posto che, per il combinato disposto degli artt. 2113 c.c. e art. 410 e 411 c.p.c., le rinunce e transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi non saranno impugnabili, alla condizione che al lavoratore sia prestata assistenza sindacale effettiva, attuando correttamente la funzione di supporto che la legge assegna e garantendo al lavoratore piena conoscenza del diritto rinunciato e della misura di tale rinuncia (Cass. civ., sez. lav., 23 ottobre 2013, n. 24024).

Se la conciliazione, anche parzialmente, riesce, viene redatto separato processo verbale che può essere dichiarato esecutivo dal giudice su istanza della parte interessata. In caso di mancato raggiungimento dell'accordo la commissione di conciliazione formula proposta transattiva riassunta nel verbale che, se non accettata senza adeguata motivazione può essere valorizzata dal giudice nel successivo giudizio ai sensi dell'art. 92 c.p.c..

La conciliazione facoltativa in sede sindacale non è soggetta, per espressa previsione dell'art. 411 c.p.c. alle disposizioni di cui all'art. 410 c.p.c., essendo attivata e regolamentata sulla base delle specifiche procedure previste da contratti ed accordi collettivi. Il processo verbale di avvenuta conciliazione è depositato presso la Direzione provinciale del lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un'associazione sindacale e, successivamente depositato presso la cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è stato redatto, è dichiarato esecutivo con decreto del giudice, previo accertamento della sua regolarità formale. Nel caso in cui la conciliazione non riesca, troveranno applicazione le norme dettate per la conciliazione in sede amministrativa.

L'abrogazione, ad opera dell'art. 30, comma 9, parte seconda, degli artt. 65 e 66 del d.lgs. 165/2001, che disciplinavano il tentativo di conciliazione per le controversie relative al pubblico impiego contrattualizzato, ha determinato la piena equiparazione tra il regime del contratto di lavoro pubblico privatizzato e privato.

Il nuovo sistema di conciliazione del cd. jobs act

Il sistema di conciliazioni è stato, di recente, arricchito da una nuova fattispecie, introdotta dall'art. 6 d.lgs. n. 23/2015, attuativo del cd. Jobs Act, applicabile ai contenziosi relativi ai lavoratori assunti, convertiti a tempo indeterminato, o qualificati da rapporti di apprendistato a partire dal 7 marzo 2015.

Il subprocedimento finalizzato alla composizione di un conflitto potenzialmente proiettabile in sede giurisdizionale è innescato dall'iniziativa del datore di lavoro licenziante che, per evitare il giudizio, ferma restando la possibilità di adire altre vie conciliative, può offrire al lavoratore licenziato, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, un importo pari ad una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare. L'accettazione dell'assegno da parte del lavoratore comporta l'estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnativa del licenziamento, anche qualora il lavoratore l'abbia già proposta.

L'appetibilità dell'offerta conciliativa per il lavoratore è rappresentata dal fatto che, a fronte della predeterminazione delle somme oggetto dell'offerta sulla base dell'anzianità di servizio, in misura analoga a quanto previsto dal nuovo regime dei contratti cd a tutele crescenti per le indennità risarcitorie quantificabili in sede giudiziale, le somme corrisposte in sede conciliativa godono di totale esenzione fiscale e contributiva. Tale somma è, tuttavia, corrispettivo della rinuncia all'impugnativa del licenziamento e non di ulteriori pretese fondate sul contratto di lavoro, in relazione ai quali la norma prevede la possibilità di corresponsione, a saldo e stralcio, di altri importi che, tuttavia, sono assoggettati al regime fiscale e contributivo ordinario, a seconda del titolo conciliativo.

La conciliazione stragiudiziale obbligatoria

Anche a seguito della generalizzata trasformazione della conciliazione stragiudiziale da obbligatoria in facoltativa permangono nel nostro ordinamento talune fattispecie di obbligatorietà della previa conciliazione stragiudiziale. Così nelle controversie relative ai cd. contratti certificati di cui all'art. 80, comma 4, del d.lgs. 276/2003 e in quelle aventi ad oggetto l'impugnativa del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo ad opera di un datore di lavoro che presenti i requisiti dimensionali di cui all'art. 18 l. 300/1970.

In evidenza

A seguito dell'entrata in vigore del Collegato lavoro (l. 183/2010), il tentativo di conciliazione stragiudiziale non è più obbligatorio, fatta eccezione per le materie dei contratti certificati e dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo intimati dai datori di lavoro che presentino i requisiti dimensionali di applicazione dell'art. 18 l. 300/1970.

L'istituto della certificazione del contratto di lavoro trova fondamento negli artt. 75-84 del d.lgs. 276/2003, e riveste un'evidente funzione deflattiva del contenzioso giurisdizionale, perseguita attraverso un'attività di verifica e convalida istituzionale, ad opera di apposite commissioni, della qualificazione che le parti del contratto di lavoro danno allo stesso. L'avvenuta certificazione esclude la possibilità di introdurre un giudizio avente ad oggetto la qualificazione del contratto e l'interpretazione delle relative clausole, fatta eccezione per i casi di erronea qualificazione del contratto, difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione e vizi del consenso.

In questi casi, nella medesima ottica di deflazione giurisdizionale, il legislatore ha previsto la permanenza dell'obbligatorietà del previo tentativo di conciliazione, alla stregua di condizione di procedibilità, da esperirsi dinanzi alla stessa commissione che ha provveduto alla certificazione del contratto, con le modalità di cui agli artt. 410 e ss. c.p.c..

L'art. 1, comma 40, della l. 92/2012 ha, inoltre, introdotto un quadro normativo differenziato relativamente ai licenziamenti intimati per giustificato motivo oggettivo a partire dal 18 luglio 2012, data di entrata in vigore della stessa. Nei casi di licenziamenti individuali, plurimi o collettivi, dipendenti da riorganizzazione e ristrutturazione aziendale, cessazione dell'attività, inidoneità del lavoratore allo svolgimento delle mansioni, irrogati da datori di lavoro che occupino, in ciascuna sede o nell'ambito comunale, più di 15 dipendenti, ovvero più di 60 dipendenti in ambito nazionale, sarà necessario attivare la procedura prevista dalla legge dinanzi alla commissione di conciliazione istituita presso la Direzione provinciale del lavoro a pena di improcedibilità del ricorso giurisdizionale.

Il procedimento ha inizio mediante l'invio di comunicazione scritta da parte del datore di lavoro alla Direzione territorialmente competente la quale convocherà le parti dinanzi alla commissione provinciale nel termine di 7 giorni dalla ricezione della comunicazione. In assenza di convocazione il datore di lavoro avrà facoltà di licenziare il lavoratore.

Il procedimento deve concludersi nel termine di 20 giorni dall'invio della comunicazione, salvo diverso accordo tra le parti. Sia in caso di esito positivo che negativo si provvederà alla redazione di un verbale di conciliazione, nel quale andranno formalizzate le proposte conciliative oggetto di rifiuto, eventualmente valorizzabile nella determinazione dell'indennità risarcitoria da corrispondersi al lavoratore in caso di esito a lui favorevole del giudizio di impugnativa.

In caso di mancata conciliazione il datore di lavoro potrà provvedere al licenziamento del lavoratore, che avrà effetto dalla data di comunicazione dell'avvio del procedimento alla Direzione territoriale.

È di tutta evidenza come la struttura di tale procedimento, avuto particolare riguardo alla provenienza dell'impulso, e la stessa nozione di obbligatorietà divergano profondamente da quelle del tentativo di conciliazione di cui all'art. 410 e ss. c.p.c.. Se, difatti, anteriormente alla riforma di cui alla l. 183/2010, l'obbligatorietà del previo tentativo di conciliazione andava concepita alla stregua di condizione di procedibilità del successivo ricorso giurisdizionale, l'obbligatorietà del tentativo di conciliazione di cui all'art. 1, comma 40, l. 92/2012 va inteso quale condizione di legittimità del licenziamento irrogato. In assenza di previo esperimento del tentativo, difatti, non soltanto non vi è alcuna preclusione all'impugnativa giurisdizionale da parte del lavoratore, ma il provvedimento espulsivo allo stesso intimato sarà da considerarsi invalido sotto il profilo procedurale, in ragione dell'omissione di tale fondamentale adempimento. Troverà, in particolare, applicazione l'art. 18, comma 6, della l. 300/1970, come modificato dall'art. 1, comma 41, della l. 92/2012, che prevede un'indennità risarcitoria in favore del lavoratore, in caso di illegittimità del licenziamento per ragioni procedurali, ricompresa tra le 6 e le 12 mensilità della retribuzione globale di fatto.

La conciliazione giudiziale

Nel caso di mancato esperimento o di fallimento del tentativo di conciliazione stragiudiziale e di proposizione di ricorso giurisdizionale, residua la possibilità di conciliare nel corso del giudizio, ed a tal fine il codice di rito prevede, all'art. 420 c.p.c., l'esperimento del tentativo di conciliazione quale adempimento indefettibile della prima udienza di discussione, assieme all'interrogatorio libero delle parti.

La scarna disciplina dedicata dall'art. 420 c.p.c. al tentativo di conciliazione giudiziale nel rito del lavoro va integrata con la disciplina dettata dal codice di rito, applicabile in virtù del meccanismo di eterointegrazione degli istituti processuali non diversamente regolati dagli artt. 409 e ss. c.p.c..

In particolare, occorrerà fare riferimento, quanto ai poteri di rappresentanza, all'art. 185 c.p.c., all'art. 185-bis c.p.c. per le modalità ed il valore endoprocessuale della proposta conciliativa, all'art. 91 c.p.c. per le conseguenze del rifiuto della proposta conciliativa sulla regolamentazione delle spese di lite, ed all'art. 88 disp. att. c.p.c. per le modalità di redazione del verbale conciliativo.

Il disposto dell'art. 420 c.p.c. ricalca, quanto ai poteri di rappresentanza conferiti a soggetto diverso dalle parti processuale, quello dell'art. 185 c.p.c..

Si prevede, in particolare, la facoltà delle parti di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale, il quale deve essere a conoscenza dei fatti di causa, munito di poteri, anche conciliativi e transattivi, attribuiti con atto pubblico o scrittura privata autenticata. Precisa l'art. 185 c.p.c. che se la procura è conferita con scrittura privata, questa può essere autenticata anche dal difensore della parte.

Ferma restando la cumulabilità della posizione di difensore con quella di procuratore speciale munito di mandato a transigere e conciliare, ci si chiede se la procura generale o speciale alle liti, che espressamente preveda il potere di conciliare o transigere, sia sufficiente a conferire al procuratore il potere di disporre della lite ovvero se, in ragione del combinato disposto degli artt. 185 e 420 c.p.c., sia indispensabile il conferimento di procura speciale ad hoc, eventualmente autenticata dallo stesso difensore.

Secondo l'orientamento prevalente in giurisprudenza, la procura alle liti abilita il procuratore, per la discrezionalità tecnica che gli spetta nell'impostazione della lite a scegliere, in relazione agli sviluppi della causa, la condotta processuale da lui ritenuta più rispondente agli interessi del proprio rappresentato ma non gli conferisce il potere di compiere atti che importino disposizione del diritto in contesa, quale la conciliazione, transazione o rinuncia all'azione, per la quale occorre un mandato speciale (Cass. civ., sez. III, 17 marzo 2006, n. 5905). Il mandato speciale a compiere atti che comportino disposizione del diritto in contesa può, tuttavia, essere inserito nel contesto letterale della stessa procura alle liti, debitamente autenticata dal difensore (Cass. civ., sez. III, 15 luglio 2005, n. 15016), con la conseguenza che, laddove la procura alle liti preveda espressamente il potere di conciliare, transigere e rinunciare, non sarà richiesto il rilascio al difensore di ulteriore procura speciale ai sensi degli artt. 185 e 420 c.p.c..

In evidenza

Il mandato alle liti, generale o speciale, abilita il procuratore a scegliere la condotta processuale ritenuta più idonea ma non conferisce il potere di compiere atti di disposizione del diritto in contesa, quale transazione e conciliazione, a meno che ciò non sia espressamente previsto nel contesto letterale del mandato o che al difensore non venga conferita procura speciale ex artt. 185-420 c.p.c. ad hoc.

La conciliazione giudiziale è atto processuale complesso, e può contenere, sotto il profilo sostanziale, diversi negozi giuridici, come la transazione, nel caso in cui, identificata la lite da definire o quella da prevenire, unitamente all'individuazione dell'interesse del lavoratore, le parti addivengano a reciproche concessioni (Cass. civ., sez. lav., 22 maggio 2008, n. 13217), la ricognizione del debito ex art. 1988 c.c. e la rinuncia al diritto ed all'azione.

Le recenti modifiche legislative, operate con il Collegato lavoro ex lege 183/2010 - che ha sostituito il comma 1 dell'art. 420 c.p.c.-, con la l. 69/2009 - che ha innovato l'art. 91 c.p.c. – e, da ultimo, con il d.l. 69/2013 – che ha introdotto l'art. 185-bis c.p.c. - hanno conformato modalità e valenza del tentativo di conciliazione, al fine di potenziare, con l'evidente obiettivo di deflazione del contenzioso, l'effettività dell'istituto.

Innanzitutto gli artt. 185-bis e 420 c.p.c. prevedono che la conduzione del tentativo di conciliazione, da parte del giudice, non si limiti a prendere atto delle disponibilità conciliative delle parti, spingendosi all'esplicita formulazione di una proposta transattiva o conciliativa. Sia che rifletta un'attenta lettura degli atti e rappresenti la proiezione prognostica dell'esito del giudizio, sia che partecipi di mera valenza forfettaria ed equitativa, in cause da istruire o non mature per la decisione all'udienza ex art. 420 c.p.c., l'individuazione di una concreta soluzione transattiva da parte del giudice è indubbiamente connotata da notevole capacità persuasiva delle parti e dei rispettivi procuratori che, sovente, interpretano la stessa alla stregua di anticipazione dell'esito del giudizio.

Il rischio di operare un'implicita anticipazione dell'esito del giudizio, violando il principio di imparzialità ed incorrendo in fattispecie di obbligo di astensione e correlativa facoltà di ricusazione, ai sensi degli artt. 51 e 52 c.p.c. ha storicamente indotto i giudici ad una particolare cautela in sede di formulazione di ipotesi conciliative, concorrendo al depotenziamento dell'istituto. Al fine di ovviare a tale inconveniente si è provveduto ad introdurre, a margine dell'art. 185-bis c.p.c., la previsione secondo cui «la proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice».

A potenziare ulteriormente l'istituto concorre la previsione, contenuta in seno all'art. 420, comma 1, c.p.c., secondo cui la mancata comparizione personale delle parti, o il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice senza giustificato motivo, costituiscono comportamento del giudice valutabile ai fini del giudizio.

L'implicito riferimento normativo è costituito dall'art. 116, comma 2, c.p.c., che prevede che il giudice possa, in linea generale, desumere argomenti di prova dal contegno processuale delle parti. È, tuttavia, difficile ipotizzare che dall'ingiustificato rifiuto dell'ipotesi transattiva il giudice possa trarre argomenti di prova valorizzabili al fine di desumerne la fondatezza o meno della domanda giudiziale.

Appare, viceversa, ragionevole sostenere che l'ingiustificato rifiuto della proposta possa essere utilizzato, ad esempio, ai fini della quantificazione dell'indennità risarcitoria spettante in caso di accertamento dell'ingiustificatezza del licenziamento o di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, stante il riferimento, in seno all'art. 8 della l. 604/1966 (richiamato dall'art. 32 l. 183/2010) ed all'art. 18, comma 5, della l. 300/1970, tra i parametri per la quantificazione dell'indennità, al “comportamento delle parti”, da intendersi comprensivo del contegno processuale dalle stesse serbato.

Ulteriore strumento di coazione indiretta alla conciliazione è contenuto nell'art. 91 c.p.c., che prevede che se il giudice accoglie la domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta. Trattasi di ipotesi di regolamentazione delle spese di lite eccezionalmente derogatorio al criterio generale della soccombenza, enucleato dalla medesima disposizione.

Ai sensi dell'art. 88 disp. att. c.p.c., la convenzione conclusa tra le parti per effetto della conciliazione davanti al giudice è raccolta in separato verbale, sottoscritto dalle parti stesse, dal giudice e dal cancelliere. La redazione di separato verbale, tuttavia, non è requisito di validità dell'atto, con la conseguenza che la stessa produrrà gli effetti suoi tipici anche se inserita nel verbale di udienza (Cass. civ., sez. III, 18 aprile 2003, n. 6288). All'esito della conciliazione, il giudice dovrà ordinare la cancellazione della causa dal ruolo e l'archiviazione degli atti, costituendo la stessa una fattispecie sui generis di estinzione processuale (Cass. civ., sez. lav., 4 dicembre 1986, n. 7193).

Il processo verbale di conciliazione, per espressa previsione dell'art. 420 c.p.c., costituisce titolo esecutivo ed è, pertanto, previa apposizione della formula esecutiva, immediatamente azionabile da parte dell'avente diritto. Le rinunce, in sede di transazione giudiziale, ai diritti spettanti al prestatore di lavoro, derivanti da disposizioni inderogabili di legge non potranno costituire oggetto di impugnativa, per effetto del disposto di cui all'art. 2113, ultimo comma, c.c..