Argomenti di provaFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 116
21 Marzo 2016
Inquadramento
L'espressione argomenti di prova è utilizzata principalmente dall' art. 116 c.p.c. per distinguerli rispetto alla prova vera e propria. Tale disposizione, nel sancire il principio più generale del libero convincimento (secondo il quale, salvo i casi previsti dalla legge, il giudice è libero di apprezzare il materiale probatorio per formare il proprio convincimento in ordine alla decisione della causa), afferma che il giudice può trarre argomenti di prova dalle risposte delle parti nel corso dell'interrogatorio libero, dal loro ingiustificato rifiuto a sottoporsi all'ispezione, e più in generale dal loro contegno processuale.La dottrina processualistica tradizionale ha ipotizzato una vera e propria gerarchia tripartita delle prove che, fondandosi sul rilievo che le stesse hanno per il convincimento del giudice, vede al vertice le c.d. prove legali, al secondo posto le prove liberamente valutabili ed al gradino più basso, appunto, gli argomenti di prova (vd. la bussola VALUTAZIONE DELLE PROVE). In astratto la distinzione fra le prove vere e proprie e gli argomenti di prova è sufficientemente netta. Le prove sono gli strumenti attraverso i quali – su sollecitazione delle parti o, eccezionalmente, d'ufficio – il giudice forma il suo convincimento in ordine ai fatti prospettati dalle parti nel processo. A loro volta si distinguono in dirette, quando sono idonee a far conoscere direttamente i fatti principali da provarsi ed indirette quando riguardano fatti secondari (i c.d. indizi) attraverso i quali è possibile risalire, mediante una operazione logica, alla dimostrazione dei fatti principali costituenti il thema probandum (al riguardo si parla di presunzioni). L'argomento di prova non riguarda direttamente i fatti controversi ma le altre prove (diverse da quelle legali) comunque acquisite al processo, confermandone l'attendibilità o la verosimiglianza, oppure infirmandola o ancora, nei casi più gravi, escludendola. Dal punto di vista concettuale, quindi, l'argomento di prova non dovrebbe mai fondare da solo il convincimento del giudice, né dovrebbe utilizzarsi come base di un ragionamento presuntivo (pena una inammissibile praesumptio de praesumpto), con l'ulteriore corollario della mancanza di autosufficienza a fini decisori dell'argomento di prova. Ma in concreto le cose non sono così semplici e la giurisprudenza da tempo ha finito con l'avvicinare l'argomento di prova alla prova indiziaria, e quindi alla presunzione, ritenendo che quando sia grave e non contraddetto da altri elementi probatori possa, anche da solo, costituire il fondamento della decisione del giudice. In forza della clausola generale per cui il giudice può desumere argomenti di prova dal contegno processuale delle parti ( c.p.c. ), deve ritenersi che anche per questa categoria viga il principio di atipicità in materia di prova civile. In altri termini, anche al di là dei casi in cui espressamente il legislatore qualifica un certo comportamento o atto processuale quale argomento di prova, il giudice può sempre ricavare tale risultato probatorio dal comportamento delle parti.Tale risultato non può tuttavia essere raggiunto in contrasto con una prova legale: in tale ipotesi infatti è la legge a conferire un determinato risultato probatorio senza che il giudice abbia un margine per esprimere un convincimento diverso da quello che la legge ricollega a quel mezzo probatorio. Del pari, deve ritenersi che, anche per l'argomento di prova, valga almeno in linea di principio il limite di cui all' art. 2729, comma 2 c.c., secondo cui le presunzioni non sono ammesse quando la legge vieta la prova per testimoni.Infine, deve correttamente distinguersi la valenza dell'argomento di prova rispetto al principio di non contestazione. Elemento comune ad entrambi è il fondamento puramente processuale, mentre l'argomento di prova opera come mezzo di rafforzamento o indebolimento delle prove altrimenti offerte dalle parti nell'alveo del generale libero convincimento del giudice. Nel caso del principio di non contestazione, l'effetto opera in primo luogo sul piano assertivo ed all'interno del contraddittorio, per conseguirne – a monte – una selezione dei fatti che, in quanto contestati non genericamente, si ritengono dover essere provati ovvero, in quanto genericamente o per nulla contraddetti, possono per ciò stesso ritenersi provati (c.d. relevatio ab onere probandi).
L'interrogatorio libero può, ai sensi dell' art. 117 c.p.c. , essere disposto dal giudice in qualunque stato e grado del processo per interrogare senza particolari formalità le parti, in contraddittorio tra loro, sui fatti di causa.
Pur essendo la norma di portata assai generale, è evidente che l'importanza e l'utilità dell'istituto si coglie, in particolare, nelle fasi iniziali del processo, al fine di:
Il comma 9 del riformulato art. 183 c.p.c. ribadisce quella che già deve ritenersi una facoltà più generale del giudice in forza del già citato art. 117: «con l'ordinanza che ammette le prove il giudice può in ogni caso disporre, qualora lo ritenga utile, il libero interrogatorio delle parti».c.p.c. che «la confessione spontanea può essere contenuta in qualsiasi atto processuale firmato dalla parte personalmente, salvo il caso dell'art. 117». In tal modo il codice vuole distinguere nettamente l'interrogatorio formale, quale mezzo istruttorio rivolto a provocare la confessione della controparte, dall'interrogatorio non formale, o libero; ma anche in questo caso, ferma la distinzione concettuale fra i due, la giurisprudenza ha finito col tempo per avvicinare almeno in parte le conseguenze probatorie che possono derivare dalle risposte date dalle parti nel corso dell'interrogatorio formale e di quello libero.
La questione che si pone, in particolare, è quella del valore probatorio che è possibile riconnettere alle risposte date dalle parti nel corso dell'interrogatorio libero.
In via di prima approssimazione si può certo sostenere che tali risposte non potranno mai avere – anche alla luce del citato art. 229 c.p.c. – il valore di piena prova legale che si connette alla confessione giudiziale, ex art. 2733 co. 2 c.c.
La «zona grigia» nella quale tali risposte si vanno a collocare è allora quella degli argomenti di prova che, come detto, in linea di principio non hanno il valore di prova piena, ma si ricollegano al restante materiale probatorio processuale per formare il libero convincimento del giudice.
Come già avvertito, peraltro, la giurisprudenza ha riconosciuto via via l'autosufficienza di questo particolare argomento di prova, per la particolare gravità e persuasività che possono avere le ammissioni spontanee della parte nel corso dell'interrogatorio non formale: non il valore di confessione quindi, testualmente esclusa dall' art. 229 c.p.c. , ma il non meno rilevante valore di argomento di prova di per sé solo in grado di sorreggere il convincimento e la decisione del giudice. Si è così evidenziato che le dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio non formale, pur se prive di alcun valore confessorio, in quanto detto mezzo è diretto semplicemente a chiarire i termini della controversia, ben possono costituire il fondamento del convincimento del giudice di merito, al quale è riservata la valutazione, non censurabile in sede di legittimità, se congruamente e ragionevolmente motivata, della loro concludenza e attendibilità ( Cass. civ., 29 dicembre 2014, n. 27407).
Tale conclusione viene ulteriormente ribadita nel rito del lavoro, improntato sull'oralità e quindi su una partecipazione non passiva delle parti: «la natura giuridica non confessoria dell'interrogatorio libero non incide sulla sua libera valutazione da parte del giudice, che può legittimamente trarre dalle dichiarazioni rese dalla parte in tale sede un convincimento contrario all'interesse della medesima ed utilizzare tali dichiarazioni quale unica fonte di prova» ( Cass. civ., 1 ottobre 2014, n. 20736).
Va altresì ricordato un orientamento che ritiene che laddove le dichiarazioni rese dalla parte nel corso dell'interrogatorio libero siano del tutto spontanee, ossia non provocate da una domanda diretta del giudice, allora le stesse possono attraverso la sottoscrizione del relativo verbale acquisire il valore di confessione giudiziale vera e propria: c.p.c. , secondo cui la confessione spontanea può essere contenuta in qualsiasi atto processuale firmato dalla parte personalmente, salvo il caso dell'art. 117, va interpretato – avuto riguardo al precedente art. 228, che contrappone alla confessione giudiziale spontanea quella «provocata mediante interrogatorio formale» – nel senso che non può essere considerata giudiziale spontanea (e quindi non forma piena prova ai sensi dell'a rt. 2733, comma 2 , c.c. ) la dichiarazione avente contenuto confessorio, se provocata dalle domande del giudice in sede di interrogatorio non formale, e cioè con modalità diverse da quelle previste per l'interrogatorio formale dall'art. 230 c.p.c. ; peraltro, non è da escludere la configurabilità di una confessione giudiziale spontanea anche in sede di interrogatorio non formale, qualora risulti dal verbale che la dichiarazione della parte non sia stata provocata da una domanda del giudice, bensì resa autonomamente, ed il verbale rechi la sottoscrizione personale della parte, necessaria ai fini della prova della consapevolezza e volontà della dichiarazione, in sostanza, del requisito della spontaneità» (Cass. civ., 16 maggio 2006, n. 11403; in precedenza Cass. civ., 7 gennaio 1983, n. 122).
Proprio perché si tratta di materia nella quale vige il principio del libero convincimento del giudice e perché, come detto, in senso stretto l'argomento di prova è mezzo di interpretazione o rafforzamento di altre prove sui fatti controversi, si deve comunque dare conto di un perdurante orientamento volto a sminuire l'incidenza probatoria dell'interrogatorio libero o nel senso di attribuire allo stesso un valore meramente indiziario la cui mancata valorizzazione in sede decisoria non è sindacabile in sede di legittimità ( Cass. civ., 26 febbraio 2009, n. 4667), o nel senso di interpretarlo unicamente per corroborare o disattendere altre prove senza che, in mancanza di altri riscontri, lo stesso possa acquisire efficacia probatoria autonoma ( Cass. civ., 28 febbraio 2008, n. 5290).
Va ancora aggiunto che quanto si è appena osservato riguarda, evidentemente, le dichiarazioni contra se della parte, mentre nessun valore probatorio hanno le dichiarazioni che la parte stessa rende a proprio favore, in assenza di qualunque obbligo di veridicità nel nostro ordinamento.
L'esperimento dell'interrogatorio libero, infine, rientra nella piena discrezionalità del giudice, nel senso che l'istanza di parte vale unicamente come sollecitazione ed il suo rifiuto, da parte del giudicante, non può essere oggetto di censura in sede di legittimità ( Cass. civ., 4 giugno 1988, n. 3797). Rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad ispezione
Come noto, l'ispezione può essere disposta d'ufficio al fine di consentire al giudice di acquisire la cognizione di elementi che, per diverse ragioni, possono essere soltanto oggetto di osservazione e non anche di acquisizione mediante i normali mezzi di prova, ed è perciò affidata al potere discrezionale del giudice, da esercitarsi in via di eccezionalità ( Cass. civ., 16 aprile 1997, n. 3260).
La deroga che l'ispezione sembra consentire rispetto al principio dispositivo che governa il processo civile è ricondotta a sistema attraverso due limitazioni di ordine generale, che conferiscono all'istituto in esame carattere residuale:
Nel rinviare all'apposita voce ISPEZIONE per ogni altra considerazione, in questa sede si deve evidenziare l'eventuale risultato probatorio che deriva dall'ingiustificato rifiuto della parte o del terzo a sottoporsi all'ispezione disposta dal giudice.
Tale problematica presuppone, evidentemente, la constatazione della incoercibilità dell'ordine giudiziale. Per la parte le conseguenze sono espressamente ricondotte dall'art. 118, comma 2 al valore degli argomenti di prova (l'ingiustificato rifiuto della parte a sottoporsi all'ispezione è cioè liberamente apprezzabile come argomento di prova sfavorevole alla stessa, pur se si precisa che vi è una facoltà e non l'obbligo per il giudice di tener in considerazione il rifiuto a fini decisori: cfr. Cass. civ., 3 agosto 1966, n. 2160).
Se invece è il terzo a sottrarsi all'ispezione, lo stesso può unicamente essere destinatario di una sanzione pecuniaria. In altri termini, l'ordine è incoercibile ed in caso di rifiuto del terzo non vi possono essere conseguenze sul piano probatorio per le parti processuali; tuttavia, il codice si propone di scongiurare in modo indiretto eventuali rifiuti non giustificati (ad esempio non dovuti a ragionevoli e tutelabili esigenze di riservatezza), prevedendo una sorta di induzione indiretta fondata sulla possibilità di applicazione di una pena pecuniaria variabile fra 250 e 1500 Euro (così elevata dalla l. 18 giugno 2009, n. 69 ), peraltro praticamente desueta nella prassi processuale. Nel rinviare per ogni altro approfondimento alla bussola INTERROGATORIO FORMALE, si deve qui evidenziare come l' c.p.c. – discostandosi dalla scelta compiuta dal previgente codice del 1865 all'art. 218 – non equipari la mancata risposta della parte all'interrogatorio ad una vera e propria ficta confessio. Si afferma, invece, che se la parte non si presenta o rifiuta di rispondere senza un giustificato motivo allora il giudice, valutato ogni altro elemento di prova, può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell'interrogatorio stesso.
La norma pone la conseguenza probatoria della mancata risposta non sul piano della confessione giudiziale – che come noto ha valore di prova legale – bensì sul piano degli argomenti di prova che, quantunque seri, possono essere liberamente apprezzati e valorizzati in relazione ad un più ampio contesto probatorio e processuale.
Si ritiene, pertanto, che il giudice resti discrezionalmente libero di trarre conseguenze probatorie sfavorevoli per la parte che non si è presentata o non ha risposto senza motivazione adeguata, senza che tale valutazione sia censurabile in sede di legittimità ( Cass. civ., 19 settembre 2014, n. 19833 )
Piuttosto, va ricordato che la più recente giurisprudenza ha equiparato le risposte reticenti alla mancata risposta, consentendo perciò anche nel primo caso di trarre conseguenze probatorie sfavorevoli per la parte sottoposta all'interrogatorio formale: cfr. Cass. civ., 31 marzo 2010, n. 7783, secondo cui «anche le dichiarazioni evasive e non attendibili rese in sede di interrogatorio formale nel processo civile sono equiparabili alla «mancata risposta» di cui all' art. 232 c.p.c. ». Le dichiarazioni delle parti al CTU
c.p.c. che «le dichiarazioni delle parti, riportate dal consulente nella relazione, possono essere valutate dal giudice a norma dell'art. 116, comma 2».
Vi è qui un caso espresso in cui si riconduce il contegno della parte davanti al CTU al novero degli argomenti di prova, che può spiegarsi in forza della tradizionale considerazione per cui la CTU non è un mezzo di prova né tantomeno di ricerca delle prove, bensì uno strumento di valutazione tecnica e scientifica di prove già altrimenti raccolte. Tale principio generale è stato rimesso seriamente in discussione dalla distinzione di origine giurisprudenziale fra consulenza tecnica deducente e percipiente (nella seconda, in cui il fatto non può essere percepito se non attraverso il possesso di conoscenze tecnico-scientifiche, si assiste ad un trasferimento della CTU sul piano della prova posto che dimostrare quel fatto non è possibile se non attraverso un bagaglio di conoscenze specialistico che non è nella disponibilità delle parti e del giudice). Tuttavia, l' art. 200 c.p.c. mantiene una sua evidente coerenza:
Peraltro, neppure può opinarsi l'assoluta irrilevanza probatoria nella misura in cui le dichiarazioni rese dalle parti al consulente tecnico d'ufficio siano da questi riportate nell'elaborato depositato nel processo: si tratta pur sempre di dichiarazioni che, se sfavorevoli alla parte, possono essere dal giudice liberamente apprezzate nella formazione del proprio convincimento sui fatti di causa.
Conclusioni simili possono sostenersi con riferimento ad eventuali parti della relazione del CTU che esorbitino dai quesiti affidati dal giudice ( Cass. civ., 25 marzo 2004, n. 5965) o con riferimento alla consulenza espletata fra le stesse parti in altro giudizio ( Cass. civ., 5 dicembre 2008, n. 28855). Prove raccolte nel processo estinto
Secondo l' art. 310, comma 3, c.p.c., in deroga al principio per cui l'estinzione del processo rende inefficaci gli atti compiuti, le prove raccolte restano comunque apprezzabili dal giudice (di un diverso giudizio fra le stesse parti) ai sensi dell' art. 116, comma 2 , c.p.c.
Ovviamente la norma non allude ai documenti: trattandosi di prove precostituite i documenti debbono essere prodotti nel nuovo giudizio ed in questo hanno il valore probatorio che gli è proprio. La norma parla di prove «raccolte» volendo cioè evitare una completa dispersione dell'attività probatoria costituenda svolta nel processo ormai estinto: si potrà quindi nel successivo giudizio effettuare la produzione dei verbali delle prove raccolte (ad esempio prove testimoniali, interrogatorio) o della relazione scritta del CTU. I verbali prodotti non valgono né come prova documentale (posto che il supporto cartaceo rappresenta lo svolgimento di un'attività processuale), né possiedono l'efficacia della prova costituenda verbalizzata, ma appunto sono elementi di ordine probatorio rapportabili agli argomenti di prova e, quindi, liberamente apprezzabili dal giudice. La preclusione istruttoria, invece, è riconducibile a quella stessa prevista per la prova documentale (e quindi normalmente il secondo termine di cui all' art. 183, comma 6 , c.p.c. ). Partecipazione della parte alla prima udienza nel processo del lavoro
Nel rito del lavoro, ispirato a principi di concentrazione processuale ed oralità delle forme, il codice si preoccupa di favorire l'effettiva partecipazione delle parti disponendo che l'ingiustificata loro omessa partecipazione personale possa essere valutata dal giudice «ai fini del giudizio», con una espressione che sembra rimandare al più generale concetto di argomento di prova. All'assenza priva di giustificazione, il legislatore più recente ha equiparato il rifiuto ingiustificato della proposta transattiva o conciliativa del giudice (art. 410, comma 1 così come modificato prima dall' art. 31 della l. 4 novembre 2010, n. 183 , quindi dall'art. 77 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 ). In tal modo si è prevista una conseguenza probatoria che rispetto al giudizio ordinario ed in relazione all'art. 185- bisc.p.c. (che non prevede sanzioni o conseguenze dirette) può essere unicamente ricavata dal più generale disposto dell'art. 116 , comma 2, c.p.c.
Comune ad entrambe le fattispecie, invece, la possibilità di valorizzare il rifiuto ingiustificato ad accettare la proposta transattiva in punto di spese processuali successive (cfr. art. 91 comma 1 c.p.c. ). Il principio di prova scritta
L' art. 2724 c.c. introduce una eccezione ai divieti di prova testimoniale quando vi sia un principio di prova scritta: si tratta di un qualunque scritto proveniente dalla persona contro cui è diretta la domanda giudiziale o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato sul quale è invocata la prova testimoniale.
Il principio di prova scritta è un concetto che implica, come reso evidente dalla terminologia impiegata, un valore probatorio inferiore alla piena prova del fatto: si tratta di una prova di verosimiglianza o, meglio, di una semiplena probatio di esclusivo rilievo processuale. La presenza del principio di prova scritta serve, cioè, a superare gli ordinari limiti di ammissibilità della prova testimoniale, ma ha un valore probatorio insufficiente se non confermato in sede di escussione della testimonianza. Da questo punto di vista, pertanto, può utilmente ricondursi alla categoria degli argomenti di prova, destinati a rafforzare od inficiare il risultato probatorio di altri mezzi istruttori. Il principio di prova scritto resta un elemento liberamente apprezzabile dal giudice pur se l'effetto processuale che ne deriva appare invece doveroso: quello di rendere ammissibile «in ogni caso» la prova testimoniale sul fatto reso verosimile dallo stesso principio di prova. Il contegno processuale delle parti
Con opportuna norma di chiusura e vera e propria «valvola di sicurezza» del sistema, l' art. 116 c.p.c. consente al giudice di desumere argomenti di prova in relazione al generale comportamento processuale tenuto dalle parti. Trattasi di disposizione che consente una valorizzazione a fini decisori del contegno e del più generale atteggiamento difensivo tenuto dalle parti nel processo, al di là della ricorrenza dei singoli casi tipici in cui l'ordinamento vi ricollega una qualche conseguenza di ordine probatorio, conferendo in tal modo agli argomenti di prova un carattere aperto ed atipico, non limitato alle fattispecie espressamente previste dal codice.
Si discute se il comportamento valorizzabile quale argomento di prova (sul cui rilievo probatorio già si è detto) sia solo quello delle parti o anche quello dei loro difensori. Una ipotesi espressa nella quale il contegno del difensore rilevava quale argomento di prova era contenuta nel previgente art. 185 c.p.c. , laddove si precisava che «la mancata conoscenza, senza giustificato motivo, dei fatti della causa da parte del procuratore è valutata ai sensi del secondo comma dell'articolo 116», ed ancora tale conseguenza era ricollegata alla ingiustificata assenza della parte od all'ingiustificata non conoscenza dei fatti di causa da parte del procuratore nel corso della prima udienza dal previgente art. 183 c.p.c. (poi modificato dal d.l. n. 35/2005 , con decorrenza dal 1 marzo 2006, secondo quanto disposto dal medesimo provvedimento, a sua volta ulteriormente modificato dalla l. n. 263/2005 e dalla l. 23 febbraio 2006, n. 51 ). Tali disposizioni introducevano una sorta di sanzione processuale volta a rendere effettivo il tentativo di conciliazione, per sottrarsi al quale non era consentito alla parte farsi sostituire in udienza da un legale non a conoscenza dei fatti di causa o addirittura non partecipare ingiustificatamente a tale udienza.
L'abrogazione di queste ipotesi espresse, tuttavia, non esclude la possibilità di valorizzare tali comportamenti alla luce del più generale disposto dell' art. 116 c.p.c. Deve perciò ritenersi che anche dal contegno difensivo utilizzato dal difensore sia possibile trarre argomenti di prova:
«L' art. 116 c.p.c. conferisce al giudice di merito il potere discrezionale di trarre elementi di prova dal comportamento processuale delle parti (v. Cass. civ., 5 dicembre 2011, n. 26088 ; Cass. civ., 10 agosto 2006, n. 18128 , e già Cass. civ., 26 febbraio 1983, n. 1503), e il comportamento (extraprocessuale e) processuale - nel cui ambito rientra anche il sistema difensivo adottato dal rispettivo procuratore - delle parti può in realtà costituire non solo elemento di valutazione delle risultanze acquisite ma anche unica e sufficiente fonte di prova, idonea a sorreggere la decisione del giudice di merito, che con riguardo a tale valutazione è censurabile nel giudizio di Cassazione solo sotto il profilo della logicità della motivazione (v. Cass. civ., 26 giugno 2007, n. 14748 )» (Cass. civ., 29 gennaio 2013).
Più recentemente: «poiché la confessione, intesa nei termini di cui all' art. 2730 c.c. , è atto di parte, sia essa spontanea oppure provata tramite interrogatorio formale, le dichiarazioni rese dal difensore, anche in giudizio, contenenti affermazioni relative a fatti sfavorevoli al proprio rappresentato e favorevoli all'altra parte non hanno efficacia di confessione ma costituiscono elementi di libero apprezzamento da parte del giudice di merito» ( Cass. civ., 7 maggio 2014, n. 9864). Casistica
Riferimenti
G. Grasselli, L 'istruzione probatorio nel processo civile, Padova, 2015 R. GIORDANO, L'istruzione probatoria nel processo civile, Giuffrè, 2013
AA.VV., Codice di procedura civile commentato (a cura P. CENDON) Giuffrè, 2012 Potrebbe interessarti |