Lealtà processuale (principio di)Fonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 88
28 Dicembre 2016
Inquadramento
Il dovere di lealtà e probità enunciato dall'
art. 88 c.p.c.
costituisce un
criterio informatore della condotta processuale
delle parti processuali e dei loro difensori nell'ambito del giudizio civile.
La sua violazione ad opera della parte vittoriosa consente al giudice, in virtù del combinato disposto tra la norma succitata e l'
art. 92, primo comma, c.p.c.
ed in
deroga al principio di soccombenza
di cui all'
, di compensare le spese giudiziali o anche di condannare la parte vittoriosa al pagamento delle medesime (così anche
Cass. civ., sez. I, 26 febbraio 2016 n. 3818
).
E' evidente che tale dovere grava anche sulla
parte soccombente
ma la condotta sleale e scorretta di questa trova sanzione nella quantificazione delle spese processuali secondo la regola della soccombenza o nell'applicazione dell'
art. 96 c.p.c.
, anche ad iniziativa del giudice, in virtù del terzo comma di tale norma, potendo assurgere ad indice della temerarietà della resistenza in giudizio.
Fatta questa precisazione può tuttora ritenersi valida in linea di massima la tradizionale distinzione, proposta da autorevole dottrina (Mandrioli) negli anni settanta del secolo scorso, secondo cui lo scrutinio imposto dalla norma in tema di lite temeraria concerne il “se” dell'attività processuale del soccombente, mentre l'art. 92 sanziona, a prescindere dalla soccombenza, il “come” dello stare in giudizio delle parti, ovverosia l'eventuale slealtà nel modo tecnico con la quale la parte compie i singoli atti del processo.
Per l'
avvocato
la violazione del dovere in esame assume, sempre in linea generale,
rilievo disciplinare
atteso che, ai sensi del secondo comma dell'art. 88, il giudice è tenuto, senza alcun margine di discrezionalità, a darne notizia all'autorità titolare del potere disciplinare ai sensi.
Del resto il dovere in esame trova il suo
pendant
in alcune disposizioni del
codice deontologico forense
, quali: l'art. 9 che tra i doveri, ai quali l'avvocato si deve attenere nello svolgimento della propria attività include quelli di lealtà e correttezza; l'art. 65, che vieta all'avvocato di minacciare la controparte di azioni o iniziative sproporzionate o vessatorie; l'art. 66 che prevede che egli non debba “aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte, quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita”.
Anche l'art. 44, che vieta al difensore di impugnare una transazione raggiunta anche con il suo contributo, è stato interpretato come diretto ad assicurare l'osservanza del dovere di correttezza e lealtà (si veda al riguardo la decisione del Consiglio Nazionale Forense, 28 dicembre 2005 n. 238).
Nella giurisprudenza di merito più recente (
Trib. Trieste 10 agosto 2015
, in
www.dejuregiffrè.it
) si è però affermato che il
comportamento dell'avvocato
che introduca intenzionalmente nel processo prove false non contrasta solo con il dovere di lealtà e probità e con alcune delle norme deontologiche sopra citate ma costituisce per lo stesso anche
fonte di responsabilità ai sensi dell'
art. 2043 c.c.
sulla base della premessa che le prescrizioni deontologiche sono norme giuridiche vincolanti.
In simili arresti giurisprudenziali è possibile cogliere il consolidamento di una prospettiva che contraddice la tendenza, che si era palesata
nel primo periodo successivo all'approvazione, del codice ad interpretare l'
art. 88 c.p.c.
come una
mera direttiva morale
senza alcun valore giuridico.
Trattandosi di
clausola generale,
l'individuazione delle ipotesi che integrano la sua violazione è necessariamente rimessa all'
elaborazione giurisprudenziale
. Sulla base di tale premessa, la giurisprudenza ha chiarito che “il giudizio relativo alla violazione del dovere di lealtà e probità di cui all'
art. 88 c.p.c.
, in relazione alla genericità della formula usata dal legislatore, è rimesso al discrezionale apprezzamento del giudice di merito, e se congruamente motivato in relazione alla logica e alla realtà processuale, non è sindacabile in sede di legittimità” (
Cons. Stato, 13 dicembre 2006, n. 7371
).
Proprio l'approccio casistico ha fatto emergere un orientamento giurisprudenziale che ha reinterpretato il dovere di lealtà e probità in
senso funzionale
, ovvero come mezzo per garantire
celerità ed efficienza
al processo, ricollegandolo all'
art. 111 Cost.
A ben vedere non si tratta che dello
sviluppo di quell'orientamento dottrinale
(Mandrioli) che già una cinquantina di anni fa aveva osservato come il generico, e per se stesso non giuridico, dovere di rispettare le regole del gioco è elevato dall'
art. 88 c.p.c.
a criterio giuridico per l'applicazione di alcune norme processuali, allora individuate negli
artt. 92,
116
e
175 c.p.c.
E' cosi che si rinvengono precedenti che hanno individuato in esso il fondamento del principio generale
dell'onere di contestazione
(
Cass. civ., sez. I, 15 novembre 2007 n.23638
). Altri hanno ritenuto che contrastino con il medesimo dovere condotte come l'esposizione di versioni diverse e tra loro contraddittorie rispetto all'oggetto del processo (
Cass. civ., sez. I, 8 febbraio 2006, n. 2815
;
Trib. Varese, 27 ottobre 2012
) o la distruzione nel corso del giudizio di documentazione oggetto di istanza di ordine di esibizione della controparte, sul presupposto che esista un onere di conservazione di essa fino a quanto il giudice non abbia definitivamente e negativamente provveduto su detta istanza (
Cass. civ. sez. lav. 22 dicembre 2014, n. 27321
).
Un'ulteriore casistica è riportata nello specchietto che segue.
È stato invece escluso che comporti inosservanza al dovere di lealtà la
mera deduzione di tesi giuridiche
o di ricostruzioni fattuali riconosciute errate dal giudice (
Cass., 16 ottobre 1998, n. 10247
;
Cassazione civile, sez. I, 02 aprile 2015, n. 6675
).
In linea con tale impostazione, in dottrina (Scarselli) è stato chiarito che
non è sanzionabile la mera argomentazione giuridica
, e ciò non solo quando questa assuma caratteristiche del tutto normali, ma anche quando possa apparire particolare, od originale.
Parimenti non sono state ritenute contrarie al dovere in esame le condotte, collocantisi sul piano dell'opportunità processuale e come tali legittime, che possano far conseguire effetti vantaggiosi a causa di un concorrente difetto di normale diligenza della controparte (ancora, Cass., 16 ottobre 1998, cit., nonchè Cass., sez. lav., 12 aprile 1983, n. 2593).
In particolare, si è escluso che una parte possa invocare la violazione del canone di probità del suo contraddittore per non aver questi prodotto materiale probatorio
contra se
, ne´ per supplire a proprie carenze probatorie e/o supportare interpretazioni formalistiche della legge processuale, di per se´ ostative ad una decisione nel merito.
Si è pertanto affermato (
Cass. 30 marzo 2006, n. 7523
) che il dovere di diligenza della parte derivante dall'
, possa supplire alla nullità degli atti processuali in cui sia incorsa la controparte (ipotesi relativa alla errata indicazione della data dell'udienza di comparizione perché anticipata rispetto a quella di notifica che può essere immediatamente riconoscibile e ovviabile dal convenuto in base al tenore dell'atto e tenendo presenti i termini a comparire, ovvero, quando la causa sia stata iscritta a ruolo, attivandosi per conoscere la data esatta di comparizione). I parametri comportamentali
Un ulteriore ambito nel quale il dovere di lealtà processuale assume rilievo, sebbene non vi sia espressamente richiamato, è quello della
determinazione del compenso del difensore
. Infatti alcune disposizioni del d.m. 55/2014 sono dirette a favorire la celerità e l'efficienza del giudizio, consentendo al giudice, al momento della liquidazione delle spese giudiziali, di aumentare o di diminuire l'entità del compenso da liquidare al difensore della parte vittoriosa a seconda che egli, rispettivamente, abbia realizzato il primo obiettivo o invece abusato del processo.
Infatti ai sensi dell'art. 4, comma 8, del succitato regolamento, il giudice ha la possibilità di aumentare il compenso spettante al professionista forense fino ad un massimo del trenta per cento di quello altrimenti liquidabile “quando le difese della parte vittoriosa sono risultate manifestamente fondate” e il soccombente sia (stato) costituito in giudizio.
Per individuare la nozione di
difesa manifestamente fondata
occorre far riferimento ad alcune pronunce di merito (
Trib. Verona, sez. III, 19 giugno 2014
;
Trib. Milano, 11 dicembre 2014
;
Trib. Verona, sez. III, 12 novembre 2015
, tutte in
www.ilcaso.it
) che hanno chiarito come essa sia integrata allorquando
“
il difensore di una parte riesca a far emergere la fondatezza nel merito dei propri assunti, e specularmente l'infondatezza degli assunti di controparte, senza dover ricorrere a prove costituende e quindi solo grazie al proprio apporto argomentativo. Alcune delle pronunce sopra citate hanno elencato, quali
esempi di difese manifestamente fondate
, l'ipotesi in cui la causa risulti di pronta soluzione sulla base di prove documentali di facile intelligibilità ovvero perché involga questioni giuridiche relativamente semplici o ancora perché non vi sia stata contestazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione.
L'art. 4, comma 7, stabilisce invece che sia “elemento di valutazione negativa in sede di liquidazione giudiziale del compenso l'adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli
”
.
Tale previsione mira a sanzionare le condotte dilatorie delle parti, a prescindere dalla loro soccombenza e
integra
quindi
il disposto dell'
art. 92 c.p.c.
Essa inoltre richiede non già che la condotta abusiva abbia effettivamente rallentato il processo ma che sia stata idonea a produrre tale risultato. Se così è, volendo esemplificare, il parametro può essere utilizzato, su
iniziativa officiosa del giudice
, nei casi in cui la parte, o meglio il suo difensore, abbia avanzato una richiesta dilatoria in un processo la cui durata, al momento della formalizzazione della richiesta, fosse prossima, pari o superiore al
termine di ragionevole durata
che è stato fissato dall'
art. 55 del D.L.
22 giugno 2012, n. 83
(cosiddetto "Decreto Sviluppo"), convertito con modificazioni, dalla
L. 7 agosto 2012, n. 134
, a prescindere dall'accoglimento dell'istanza medesima.
La
dottrina tradizionale
ha sempre escluso che la parte sia tenuta ad un dovere di verità, sulla scorta dell'osservazione che il legislatore ha codificato il solo dovere di correttezza processuale ovvero sanzionato, in capo al soccombente, la consapevolezza del torto o il difetto di diligenza nell'avvertire l'ingiustizia della propria pretesa.
La giurisprudenza, seppure risalente, è giunta alla medesima conclusione sulla scorta dell'assunto che un preteso dovere di affermazione dei fatti
secundum veritatem
potrebbe avvantaggiare l'avversario (Cass., 21 giugno 1971, n. 1931).
Tale ricostruzione è stata però messa in discussione dalla dottrina più recente (Carratta) che è pervenuta a delineare un
rapporto di
genus
a
species
, tra dovere di lealtà e probità e il dovere di verità, in base al quale l'abusivo esercizio del potere allegativo, alla base della violazione del dovere di verità e completezza, diventa una delle molteplici manifestazioni dei comportamenti sanzionabili come violazioni del dovere di lealtà e probità.
In tale prospettiva entrambi i doveri allora assolvono la
medesima funzione
«di salvaguardare il leale e corretto esercizio delle prerogative processuali riservate alla parte ed evitare che dall'esercizio scorretto, malizioso, sleale, fraudolento, sia pure processualmente valido, possa determinarsi in concreto un'indebita posizione di vantaggio nei confronti dell'avversario» (Carratta).
Si inseriscono in questa linea evolutiva alcune
recenti disposizioni normative
, come l'
art. 7, comma 3 del regolamento n.1896/2006
relativo al
procedimento europeo di ingiunzione di pagamento
, che impone alla parte ingiungente di dichiarare, nella domanda di ingiunzione, di “fornire in coscienza e in fede informazioni veritiere e di riconoscere che dichiarazioni deliberatamente false potrebbero comportare penalità adeguate in base alla legislazione dello stato membro di origine”.
La giurisprudenza di merito (
Trib. Padova, 16 gennaio 2014
,
in
www.ilcaso.it
)
ha attribuito rilievo, ai fini della regolamentazione delle spese processuali, alla violazione del dovere di verità da parte del difensore
facendone però discendere la condanna ai sensi dell'
per la parte da lui assistita (ipotesi in cui il
difensore che aveva richiesto un provvedimento di urgenza aveva taciuto la circostanza che le problematiche oggetto del ricorso sono già state affrontate in altri numerosi analoghi procedimenti cautelari tutti respinti e impugnati con reclamo)
.
Questa posizione ricollega il dovere di verità ad alcune
disposizioni del codice deontologico forense
, come i commi 5 e 6 dell'art.46, che prescrivono, rispettivamente, che “L'avvocato, nel procedimento, non deve rendere false dichiarazioni sull'esistenza o inesistenza di fatti di cui abbia diretta conoscenza e suscettibili di essere assunti come presupposto di un provvedimento del magistrato e che l'avvocato, “nella presentazione di istanze o richieste riguardanti lo stesso fatto deve indicare i provvedimenti già ottenuti, compresi quelli di rigetto”.
La rilevanza dei comportamenti al di fuori del processo
In passato la trasgressione del dovere di lealtà e probità è stata ritenuta rilevante solo nel
contesto processuale,
mentre le circostanze che si fossero esaurite esclusivamente in un
contesto extraprocessuale
avrebbero potuto giustificare una
compensazione delle spese
(
;
Cass. 1 dicembre 2000, n. 15353
).
Una simile prospettiva non è può dirsi più attuale dopo che in alcuni recenti interventi normativi sono state inserite norme che, al fine di favorire la definizione in via transattiva delle controversie, fanno conseguire all'atteggiamento tenuto dalle parti prima o al di fuori del processo una determinata regolamentazione delle spese processuali, costituendo, al contempo, ulteriori
deroghe al principio della soccombenza
e delle
tipizzazioni del dovere di lealtà e probità
.
Ci si riferisce all'
art. 91, primo comma, secondo periodo c.p.c.
, introdotto dalla
legge
18 giugno 2009 n. 69
, che ricollega al
rifiuto senza giustificato motivo
(per cosa debba intendersi per giustificato motivo si veda:
Trib. Verona, sez. III, 28 febbraio 2014
in
www.altalex.com
) della proposta conciliativa, proveniente dalla controparte o dallo stesso giudice (ai sensi dell'
art. 185
bis
c.p.c.
), la condanna della parte alle spese per il periodo successivo al rifiuto della proposta stessa.
Hanno la medesima
ratio
due disposizioni del
d.lgs. 28/2010
sulla mediazione finalizzata alla conciliazione: l'
art. 13 del d. lgs. 28/2010
, che ricollega analoghi effetti (oltre alla condanna alle spese anche quella al pagamento del contributo unificato) al rifiuto della proposta conciliativa del mediatore; l'art. 8, comma 4
bis
, che fa conseguire alla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione obbligatorio la
condanna al pagamento di una somma pari al contributo unificato
(la sanzione ovviamente colpisce anche la parte che sia risultata vittoriosa nel giudizio).
Si inserisce nella medesima categoria di previsioni il recentissimo
art. 4 del d.l. 12 settembre 2014, n. 132
(c.d. decreto sulla degiurisdizionalizzazione), dal quale si desume che anche il rifiuto o il silenzio a fronte dell'invito a concludere la
convenzione di negoziazione assistita
può giustificare la condanna alla rifusione delle spese. Con riguardo a quest'ultima previsione è opportuno chiarire che, sebbene in dottrina sia stato sostenuto il contrario
(Trapuzzano), la possibilità della
condanna alle spese
prescinda dalla soccombenza
giacchè che se così non fosse essa sarebbe del tutto pleonastica.
E' evidente poi che la norma da ultimo menzionata consenta anche la
compensazione delle spese di lite
e rappresenti quindi un'ipotesi ulteriore di una simile modalità di regolamentazione delle spese rispetto a quelle tipizzate dal nuovo comma 2 dell'
art. 92 c.p.c
,, come modificato dall'
art. 13 del d.l.132/2014
.
Tutte le disposizioni citate sono accomunate dalla finalità di affermare il
principio di autoresponsabilità
della parte destinataria della iniziativa conciliativa che è chiamata a valutare la perseguibilità della pretesa ulteriore rispetto all'offerta della controparte e si distinguono solo per il carattere obbligatorio o discrezionale della pronuncia sanzionatoria.
Sempre sul tema va segnalata una recente pronuncia (
Trib. Aosta, sez. lavoro, 22 febbraio 2016
, in Guida al diritto, 2016, 20, 74) che ha addirittura attribuito rilievo al dovere di lealtà nella
fase stragiudiziale precedente il giudizio
, in un caso in cui la parte vincitrice nel corso di esso aveva esposto allegazioni del tutto nuove rispetto a quelle della messa in mora. Riferimenti
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