Nell'impostazione finalistica del nostro sistema normativo di matrice laburistica, favorire la composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro ha da sempre rappresentato un obiettivo dichiarato del legislatore, il quale, a più riprese e con varie disposizioni, è intervenuto per agevolare e stimolare il ricorso a soluzioni conciliative delle controversie, potenziali o già in essere, in ottica deflattiva del contenzioso e con la previsione di tutele e condizioni particolari a garanzia della salvaguardia degli interessi dei lavoratori e della piena consapevolezza della natura, tipologia ed importanza dei diritti oggetto di definizione in sede stragiudiziale. In questa breve analisi di sintesi, dunque, tratteggeremo, per sommi capi, i principali profili di caratterizzazione della materia.
Inquadramento
Prendendo le mosse dal profilo di ancoraggio normativo dell'istituto in menzione, il riferimento primario va operato al dettato dell'art. 2113 c.c., in combinato disposto con le previsioni degli 1965 del Codice civile e 185, 410, 411, 412 ter e quater del Codice di procedura civile.
Va, infatti, preliminarmente richiamato il dato per cui, nel nostro tessuto legislativo, la transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro; la rinuncia è, invece, la dichiarazione unilaterale di volontà con cui il lavoratore decide di non esercitare un suo diritto.
Ebbene, il legislatore nostrano, in ambito giuslavoristico, detta, in prima battuta, la regola ostativa, per cui le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 c.p.c., non sono valide.
L'impugnazione, nondimeno, può essere proposta dal lavoratore con qualsiasi atto scritto anche stragiudiziale idoneo a renderne nota la volontà, ma nel termine massimo di sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima, a pena di decadenza.
Le disposizioni in menzione non si applicano, tuttavia, alla conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185,410,411,412 ter e 412 quater del Codice di procedura civile e, dunque, alle conciliazioni intervenute in sede giudiziale, quelle esperite dinanzi alle commissioni di conciliazione istituite presso la Direzione provinciale del lavoro (ITL) e quella intervenute presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative, ovvero dinnanzi al collegio di conciliazione e arbitrato irrituale.
La res litigiosa
La soluzione stragiudiziale delle controversie è strumento che, solitamente, appare rimesso al sostanziale appannaggio privatistico e che “affonda le proprie radici” nell'istituto della transazione, ovvero il contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro.
La res litigiosa, dunque, costituisce elemento essenziale del contratto di transazione e va opportunamente ancorata non alla sussistenza di un qualsiasi conflitto di carattere economico, ma all'esistenza, anche meramente potenziale, di un conflitto giuridico, che è cosa ben diversa. Se, infatti, si ritenesse di poter sovrapporre e far coincidere il concetto tecnico di lite con quello di semplice contrapposizione economica, si correrebbe il rischio di considerare quale transazione ogni componimento contrattuale di matrice negoziale, circostanza che appare da escludere in nuce.
Per la validità della transazione è, dunque, necessaria la sussistenza della res litigiosa, ma a tal fine non occorre che le rispettive tesi delle parti abbiano assunto la determinatezza propria della pretesa, essendo sufficiente l'esistenza di un dissenso potenziale, anche se ancora da definire nei più precisi termini di una lite e non esteriorizzata in una rigorosa formulazione.
L'elemento strutturale cogente del maccanismo transattivo, nondimeno, va ancorato alla previsione delle reciproche concessioni delle parti, che rappresentano il sacrificio di carattere reciproco che i contenenti sono disposti ad accettare in relazione al contenuto della propria pretesa nei confronti dell'altra, al fine di porre fine alla lite o di prevenirla.
Affinché la transazione sia valida occorre, in ogni caso, che il suo oggetto sia lecito, determinato o determinabile, in uno alla necessaria consapevolezza dei diritti e della sussistenza di una reale volontà abdicativa. Enunciazioni generiche assimilabili alle clausole di stile non sono sufficienti a comprovare alcuna volontà dispositiva dell'interessato.
La volontà abdicativa è da escludersi, inoltre, quando il lavoratore rinuncia a diritti esistenti, ma ancora ignoti al titolare e quindi non consapevolmente oggetto di disposizione (non è possibile rinunciare a ciò che non si conosce), mentre non costituisce ostacolo al riconoscimento di una transazione il fatto che le parti abbiano definito transattivamente solo una parte del contenzioso, riservandosi un successivo accordo sulla residua materia controversa.
La legge, comunque, non richiede particolari requisiti di forma per la validità della transazione, anche se è necessaria la forma scritta per provare l'accordo transattivo.
In evidenza: Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 4 aprile 2024 n. 8898
la transazione, negozio anch'esso idoneo alla risoluzione delle controversie di lavoro qualora abbiano ad oggetto diritti disponibili, non richiede formalità ad substantiam.
La transazione, però, può anche avere efficacia novativa, ogni qual volta emerga una situazione di incompatibilità tra il rapporto di lavoro per cui si controverte e quello avente causa nell'accordo transattivo.
La caratteristica principale consiste nell'essere, analogamente alla transazione propria, un negozio di secondo grado che, però, non è qualificabile come un negozio ausiliario, ma come negozio principale, essendo il contratto di transazione novativa l'unica fonte dei diritti e degli obblighi intercorrenti tra le parti.
L'efficacia novativa della transazione presuppone, in ogni caso, una situazione di oggettiva incompatibilità tra il rapporto preesistente e quello originato dall'accordo transattivo (il c.d. aliquid novi), in virtù della quale le obbligazioni reciprocamente assunte dalle parti devono ritenersi oggettivamente diverse da quelle preesistenti.
Ne deriva, dunque, come la transazione novativa si configura allorché venga creato un nuovo rapporto contrattuale che si sostituisce integralmente al precedente, determinandone l'estinzione.
Ed in tal senso diviene determinante accertare se le parti, nel comporre l'originario rapporto litigioso, abbiano inteso o no addivenire alla creazione di un nuovo rapporto diretto a costituire, in sostituzione di quelle precedente, nuove e autonome situazioni giuridiche, per appurare il carattere novativo o conservativo della transazione.
Di regola, la presenza dell'elemento oggettivo dell'incompatibilità tra il vecchio e il nuovo rapporto è sufficiente per riscontrare una transazione novativa, qualora l'intento delle parti di sostituire il rapporto controverso con il nuovo risulti, oggettivamente, dal contenuto stesso del regolamento di interessi fissato in sede transattiva.
La Suprema Corte, nondimeno, ha evidenziato come sussiste l'ipotesi di transazione novativa quando dall'esame dell'intenzione delle parti e delle clausole contrattuali risulti che la transazione sia incompatibile con alcune obbligazioni oggetto del precedente rapporto, cioè che dalla transazione sorga una obbligazione oggettivamente diversa da quella preesistente sicché l'obbligazione posteriore sostituisce la precedente
Per determinare il carattere novativo o conservativo della transazione, dunque, occorre accertare se le parti, nel comporre l'originario rapporto litigioso, abbiano intenso o meno addivenire alla conclusione di un nuovo rapporto, diretto a costituire, in ragione di quello precedente, nuove ed autonome situazioni
Tale accertamento va effettuato in base ad elementi interpretativi desunti dalla volontà delle parti e dal tenore delle clausole contrattuali, valutando specificamente la compatibilità della transazione con le obbligazioni scaturenti dal precedente rapporto.
La conciliazione in sede protetta
Come accennato nel paragrafo che precede, l'art. 2113 c.c. detta la regola di carattere generale ed ostativo per cui le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 c.p.c., non sono valide, disponendone l'esigenza di impugnativa, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima.
In evidenza: Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 7 settembre 2021 n. 24078
In tema di rapporto di lavoro, la categoria dei diritti indisponibili - cui si applica, qualora abbiano formato oggetto di rinunzie o transazioni, l'art. 2113 c.c. - comprende non soltanto i diritti di natura retributiva o risarcitoria correlati alla lesione di diritti fondamentali della persona, ma, alla luce della "ratio" sottesa alla disposizione codicistica, posta a tutela del lavoratore, quale parte più debole del rapporto di lavoro, ogni altra posizione regolata in via ordinaria attraverso norme inderogabili, salvo che vi sia espressa previsione contraria.
Tuttavia, il legislatore nostrano esclude da tale indicazione la conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185,410,411,412 ter e 412 quater del Codice di procedura civile, espressamente disponendo, in calce al testo dell'art. 2113 c.c., la mancata applicazione delle previsioni dell'articolo per tali forme di conciliazione sottoscritta nelle c.d. “sedi protette”, ovvero luoghi considerati idonei a garantire l'autenticità e la genuinità del consenso del lavoratore.
Ci si riferisce, in particolare, per espresso richiamo normativo a carattere tassativo:
a) - alla conciliazione avvenuta in sede giudiziale, dinanzi al Giudice del lavoro, in richiamo dell'art. 185 c.p.c. di previsione generale (cui fa pendant l'art. 420 c.p.c. in materia di processo del lavoro, che dispone, in prima udienza, il tentativo giudiziale di conciliazione della lite con formulazione di una proposta transattiva);
b) - alla conciliazione avvenuta dinanzi alle Commissioni di conciliazione istituite presso le sedi territoriali dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro;
c) - alla conciliazione monocratica presso l'Ispettorato Territoriale del Lavoro (ai sensi dell'art. 11, D.Lgs. n. 124/2004)
d )- alla conciliazione avvenuta presso i Collegi di Conciliazione e Arbitrato previsti e regolati dall'art. 412 quater c.p.c.;
e) - alla conciliazione avvenuta dinanzi alle Commissioni di certificazione, istituite ad esempio presso gli Enti bilaterali contrattuali;
f) - alla conciliazione avvenuta in sede sindacale, a norma della contrattazione collettiva;
g) - nonché, ora, anche alla conciliazione avvenuta in sede di negoziazione assistita possibile anche per le controversie di lavoro (ex art. 2-ter, D.L. n. 132/2014 convertito in L. n. 162/2014).
In evidenza: Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 4 aprile 2024 n. 8898
Va ribadita la validità della conciliazione giudiziale anche se abbia ad oggetto diritti indisponibili, atteso che l'articolo 2113, comma 1, del Cc che stabilisce l'invalidità delle rinunzie e transazioni aventi per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 del Cpc - disposizione che è conforme al principio generale sancito dall'articolo 1966, secondo comma, del Cc in tema di nullità delle transazioni correlate a diritti sottratti alla disponibilità delle parti, per loro natura o per espressa disposizione di legge - trova il suo limite di applicazione nella previsione di cui all'ultimo comma del citato articolo 2113 del Cc, che fa salve le conciliazioni intervenute ai sensi degli articoli 185,410 e 411 del Cpc, ossia quelle conciliazioni nelle quali la posizione del lavoratore viene ad essere adeguatamente protetta nei confronti del datore di lavoro per effetto dell'intervento in funzione garantista del terzo (autorità giudiziaria, amministrativa o sindacale) diretto al superamento della presunzione di condizionamento della libertà di espressione del consenso da parte del lavoratore, essendo la posizione di quest'ultimo adeguatamente protetta nei confronti del datore di lavoro.
Ciò non esclude che un accordo sottoscritto direttamente tra lavoratore e datore di lavoro, fuori da una delle sedi protette, non possa considerarsi valido, visto e considerato come la transazione conclusa in forma privata resta valida se ha ad oggetto diritti disponibili del lavoratore (ad esempio, il superminimo, i benefits, i permessi aggiuntivi rispetto a quelli previsti dal CCNL) e, in ogni caso, una volta che siano trascorsi 6 mesi dalla data di cessazione del rapporto o, se successiva, dalla data della rinunzia o della transazione.
La disposizione di cui all'art. 2113 c.c. trova applicazione, inoltre, non solo ai rapporti di lavoro subordinato, ma a tutti i rapporti cui si applica il rito del lavoro: dunque anche ad alcuni rapporti di lavoro autonomo come la mezzadria, i contratti agrari e ai rapporti di lavoro parasubordinato, quali l'agenzia, la rappresentanza commerciale e i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.
La conciliazione sindacale
Abbiamo visto come le sedi indicate nel comma 4 dell'art. 2113 c.c. siano ritenute idonee a sottrarre il lavoratore dalla condizione di soggezione e debolezza nei confronti del datore di lavoro, sul presupposto che il conciliatore presti assistenza effettiva al soggetto che dispone dei propri diritti.
Se, dunque, con riferimento alla conciliazione giudiziale prevista dagli artt. 185 e 420 c.p.c. nulla questio, siccome caratterizzata, strutturalmente, dal necessario intervento del giudice e dalle formalità previste dall'art. 88 disp. att. c.p.c., nonchè funzionalmente ancorata all'effetto processuale di chiusura del giudizio nel quale interviene, le principali problematiche si sono concentrate sulla conciliazione in sede sindacale.
Un primo profilo, in particolare ha riguardato la verifica del ruolo attivo e non solo formale e burocratico del conciliatore nella composizione della controversia, ritenendosi necessario che il lavoratore sia consapevole di quanto ha stipulato, che sia consigliato sulle convenienze e che sia avvertito degli effetti dispositivi derivanti dall'atto e dell'irreversibilità degli stessi.
In evidenza: Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 6 settembre 2023 n. 25976
In materia di rinunce e transazioni ai sensi dell'art 2113 c.c. costituisce principio consolidato quello del decisivo rilievo dell'effettività dell'assistenza sindacale, nel senso che le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l'assistenza prestata dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, nonché, nel caso di transazione, a condizione che dall'atto stesso si evincano la questione controversa oggetto della lite e le "reciproche concessioni" in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell'art . 1965 c. c.
Ed in tal senso, in applicazione delle previsioni di cui al combinato disposto dell'art. 412 ter c.p.c. e del contratto collettivo di volta in volta applicabile, la necessità che la conciliazione sindacale sia sottoscritta presso una sede sindacale appare requisito non meramente formale, bensì funzionale ad assicurare al lavoratore la consapevolezza dell'atto dispositivo che sta per compiere e, quindi, ad assicurare che la conciliazione corrisponda ad una volontà non coartata, quindi genuina, del lavoratore.
Risalente e oltremodo superato è l'orientamento secondo il quale è sufficiente la presenza del conciliatore per affrancare il lavoratore dallo stato di soggezione nei confronti del datore.
Ecco che, allora, è stata ritenuta nulla la transazione in cui una sindacalista intervenuta nella veste di conciliatore al solo fine di accertare la libera determinazione del lavoratore e non anche in qualità di sindacalista incaricata dal lavoratore per la tutela dei suoi interessi (Trib. lav. Bergamo 24/1/2024, n. 59), così come è stata ritenuta non sufficiente la mera disponibilità del conciliatore a rispondere a domande o richieste, senza illustrare al lavoratore gli effetti della sottoscrizione del verbale ed il senso e la portata delle rinunce (Trib. lav. Milano 28/3/2024).
Un contrasto di orientamenti si è registrato anche con riferimento alla rilevanza dell'appartenenza o meno del lavoratore all'organizzazione sindacale di provenienza del sindacalista intervenuto a prestare assistenza in sede conciliativa.
Se, invero, in sede di legittimità è stato osservato come l'appartenenza del sindacalista all'organizzazione propria del lavoratore che sottoscrive l'accordo conciliativo diviene un indice presuntivo di effettività dell'assistenza, una interpretazione piuttosto restrittiva è stata adottata in sede di merito, laddove è stato sancito che per la validità dell'atto conciliativo sia indispensabile l'appartenenza del rappresentante sindacale alla stessa organizzazione cui il lavoratore aderisce (Trib. lav. Bari 6/4/2022).
In evidenza: Tribunale di Bari, Sezione Lavoro, 6 aprile 2022
il mandato e l'effettiva assistenza dipendono anche dalla qualità del rapporto intercorso tra lavoratore e sindacalista, e che in assenza della prova di adesione al sindacato o di un effettivo rapporto intercorso, anche “l'incarico conferito contestualmente alla sottoscrizione della conciliazione si rivela del tutto inidoneo, proprio perché reso nel contesto oggetto di censura da parte del lavoratore, con correlativa impugnazione del risultato finale.
Ma non è tutto. Un rilievo a sé stante assume anche la sede di formalizzazione della conciliazione.
Se, invero, secondo un orientamento della Cassazione la conciliazione in sede sindacale non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest'ultima essere annoverata tra le sedi protette aventi il carattere di neutralità indispensabile a garantire la libera determinazione della volontà del lavoratore, unitamente all'assistenza prestata dal rappresentante sindacale
In evidenza: Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 15 aprile 2024 n. 10065
La conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell'art. 411, comma 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest'ultima essere annoverata tra le sedi protette mancando del carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente all'assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore.
in base ad altra pronuncia della Suprema Corte, quando tale consapevolezza del lavoratore risulta comunque acquisita, ad esempio attraverso le esaurienti spiegazioni date dal conciliatore sindacale incaricato anche dal lavoratore, lo scopo voluto dal legislatore e dalle parti collettive deve dirsi raggiunto. In tal caso la stipula del verbale di conciliazione in una sede diversa da quella sindacale (nella specie, presso uno studio oculistico) non produce alcun effetto invalidante sulla transazione.
In evidenza: Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 18 gennaio 2024 n. 1975
In tema di conciliazione sindacale, la sottoscrizione dell'accordo presso la sede di un sindacato, in conformità alle previsioni dell'art. 412-ter c.p.c. e del contratto collettivo applicabile, non costituisce un requisito formale, ma funzionale, in quanto volto ad assicurare che la volontà del lavoratore sia espressa in modo genuino e non coartato; ne consegue che la stipula in una sede diversa non produce alcun effetto invalidante sulla transazione se il datore di lavoro prova che il dipendente ha avuto, grazie all'effettiva assistenza sindacale, piena consapevolezza delle dichiarazioni negoziali sottoscritte.
In merito, invece, al profilo della “effettiva assistenza” in presenza di un rapporto fiduciario tra lavoratore e conciliatore che risulti in un documento sottoscritto dalle parti e dai rispettivi rappresentanti, si richiama
In evidenza: Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 18 gennaio 2024, n. 1975
In tema di conciliazione con il datore di lavoro, il legislatore non richiede affatto che il mandato al rappresentante sindacale sia anteriore o comunque preventivo rispetto al tempo e al luogo in cui viene stipulata la conciliazione; la contestualità del mandato rispetto alla stipula dell'atto potrebbe costituire un indizio circa la non effettività dell'assistenza sindacale, che tuttavia deve essere corroborato da altri elementi indiziari per integrare la prova presuntiva di tale vizio (articolo 2729 Cc), in grado di inficiare la validità della conciliazione; il relativo onere probatorio grava sulla lavoratrice, in quanto attrice che ha domandato la previa declaratoria di nullità della conciliazione..
Quanto al riparto degli oneri probatori, se la conciliazione è stata conclusa nella sede "protetta", allora la prova della piena consapevolezza dell'atto dispositivo può ritenersi in re ipsa o desumersi in via presuntiva. Pertanto, graverà sul lavoratore l'onere di provare che, ciononostante, egli non ha avuto effettiva assistenza sindacale. Se invece la conciliazione è stata conclusa in una sede diversa, allora l'onere della prova grava sul datore di lavoro, il quale deve dimostrare che, nonostante la sede non "protetta", il lavoratore, grazie all'effettiva assistenza sindacale, ha comunque avuto piena consapevolezza delle dichiarazioni negoziali sottoscritte.
Se, dunque, in base all'articolo 412-ter del Codice di procedura civile la conciliazione e l'arbitrato delle materie di cui all'articolo 409 del Codice di procedura civile svolte presso le sedi e con le modalità previste dalla contrattazione collettiva appaiono incontestabili, cosa succede al verbale di conciliazione in sede sindacale stipulato dal lavoratore di un settore il cui contratto collettivo nazionale nulla dispone in merito?
Ebbene, la Corte di cassazione e la prassi amministrativa sembrano ritenere valide queste conciliazioni purché il lavoratore abbia prestato il proprio consenso in assenza di vizi (errore, violenza o dolo) e purché, soprattutto, l'assistenza dell'organizzazione sindacale sia stata effettiva, così da mettere il lavoratore nella condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, e, in caso di transazione, a condizione che dall'atto si evincano la questioni controverse oggetto della lite e le reciproche concessioni in cui si risolve il contratto transattivo. È necessario, inoltre, che il soggetto sindacale abbia elementi di specifica rappresentatività.
In evidenza: Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 01 aprile 2019, n. 9006
In materia di atti abdicativi di diritti del lavoratore subordinato, le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l'assistenza prestata dai rappresentanti sindacali - della quale non ha valore equipollente quella fornita da un legale - sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, nonchè, nel caso di transazione, a condizione che dall'atto stesso si evincano la questione controversa oggetto della lite e le reciproche concessioni in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell'articolo 1965 c.c
Di diverso avviso è il Tribunale di Roma, che in passato ha avuto modo di affermare come il regime dell'inoppugnabilità previsto dall'articolo 2113 del Codice civile riguardi le sole conciliazioni sindacali che avvengono presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali più rappresentative, come previsto dall'articolo 412-ter del Codice di procedura civile.
In mancanza di una norma collettiva di questo tipo, dunque, la conciliazione è impugnabile, posto che l'assenza di una specifica disciplina collettiva non garantisce una piena tutela del lavoratore anche alla luce dei diritti che lo stesso transige o rinunzia.
In evidenza: Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, sentenza 8 maggio 2019, n. 4354
Le rinunce firmate dai lavoratori in sede sindacale sono impugnabili (nel termine ordinario di sei mesi) se il contratto collettivo di riferimento non disciplina l'istituto della conciliazione .. La conciliazione sottoscritta in sede sindacale per prevenire una lite di lavoro o mettervi fine è inoppugnabile solo se il verbale è sottoscritto nel rispetto delle modalità e nelle sedi previste dalla contrattazione collettiva, con l'assistenza effettiva di organizzazioni sindacali dotate di rappresentatività e con una volontà del lavoratore che sia reale e non viziata.
I collegi di conciliazione e l'arbitrato
A mente dell'art. 410 c.p.c., chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall'articolo 409 c.p.c. (fatta eccezione per le controversie previdenziali) può promuovere, anche tramite l'associazione sindacale alla quale aderisce o conferisce mandato, un previo tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione competente (individuata secondo i criteri di cui all'articolo 413), istituita presso la Direzione provinciale del lavoro (ITL) e composta dal direttore dell'ufficio stesso o da un suo delegato o da un magistrato collocato a riposo, in qualità di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei datori di lavoro e da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello territoriale.
La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione, sottoscritta dall'istante e consegnata o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento anche alla controparte, interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.
La richiesta del tentativo di conciliazione deve precisare:
1) nome, cognome e residenza dell'istante e del convenuto; se l'istante o il convenuto sono una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato, l'istanza deve indicare la denominazione o la ditta nonché la sede;
2) il luogo dove è sorto il rapporto ovvero dove si trova l'azienda o sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto;
3) il luogo dove devono essere fatte alla parte istante le comunicazioni inerenti alla procedura;
4) l'esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa.
La mancanza di uno di tali elementi essenziali rende improcedibile la richiesta a meno che la controparte non si costituisca ugualmente. In tal caso, il ricorrente dovrà procedere ad integrare la richiesta.
Se la controparte intende accettare la procedura di conciliazione, deposita presso la commissione di conciliazione, entro venti giorni dal ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale.
Ove ciò non avvenga, ciascuna delle parti è libera di adire l'autorità giudiziaria.
In caso di accettazione del contraddittorio, invece, entro i dieci giorni successivi al deposito, la commissione fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione, che deve essere tenuto entro i successivi trenta giorni.
Dinanzi alla commissione il lavoratore può farsi assistere anche da un'organizzazione cui aderisce o conferisce mandato.
Se la conciliazione esperita ai sensi dell'articolo 410 riesce, anche limitatamente ad una parte della domanda, viene redatto separato processo verbale sottoscritto dalle parti e dai componenti della commissione di conciliazione. Il giudice, su istanza della parte interessata, lo dichiara esecutivo con decreto.
Se, invece, non si raggiunge l'accordo tra le parti, la commissione di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia, delle cui risultanze, se non accettata senza adeguata motivazione, il giudice tiene conto in sede di giudizio.
Ove il tentativo di conciliazione sia stato richiesto dalle parti, al ricorso depositato ai sensi dell'articolo 415 devono essere allegati i verbali e le memorie concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito.
Quando, invece, il tentativo di conciliazione si svolge in sede sindacale, ad esso non si applicano le disposizioni di cui all'articolo 410 ed il processo verbale di avvenuta conciliazione è depositato presso la Direzione provinciale del lavoro (ITL) a cura di una delle parti o per il tramite di un'associazione sindacale e, successivamente, accertatane l'autenticità, nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è stato redatto, affinché il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione, possa dichiaralo esecutivo con decreto.
In ogni caso il legislatore, negli artt. 412 ter e quater c.p.c., ribadisce come la conciliazione e l'arbitrato, nelle materie di cui all'articolo 409, possono essere svolti altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative, ovvero proposte innanzi al collegio di conciliazione e arbitrato irrituale, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro, in funzione di presidente, scelto di comune accordo dagli arbitri di parte tra i professori universitari di materie giuridiche e gli avvocati ammessi al patrocinio davanti alla Corte di cassazione.
L'arbitrato di cui alla norma in esame è un arbitrato irrituale, il cui atto introduttivo deve avere la forma del ricorso, ed è destinato a concludersi con l'emissione di un lodo, qualora il tentativo di conciliazione esperito dalla commissione non riesca.
Tale pronuncia arbitrale, dunque, non ha valore di sentenza ma di determinazione contrattuale. Di conseguenza, può essere sciolto solo per mutuo consenso o per le altre cause previste dalla legge e non produrrà effetti nei confronti dei terzi.
Il lodo, in ogni caso, è impugnabile ai sensi dell'articolo 808-ter, decidendo in tal senso ed in unico grado il tribunale, in funzione di giudice del lavoro, nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato.
Si distinguono, dunque, tre diverse forme di conciliazione-arbitrato: a) quella presso la Direzione Provinciale del Lavoro ex art. 412 del c.p.c.; b) quella prevista dai contratti collettivi ex art. 412 ter del c.p.c.; c) quella residuale, previsto dall'art. 412 quater c.p.c.
La negoziazione assistita
Da ultimo, un mero cenno, per esigenze di ristrettezza contenutistica, meria comunque di esser fatto con riferimento alla neonata opportunità conciliativa mediante ricorso all'istituto della negoziazione assistita anche in ambito giuslavoristico, ai fini deflattivi del contenzioso e di estensione degli strumenti di Adr (Alternative dispute resolution) per una soluzione non conflittuale delle controversie.
Dal 28 febbraio 2023, infatti, a seguito dell'operatività delle previsioni della c.d. Riforma Cartabia (Dlgs 149/2022), è stata inserita la possibilità di sottoscrizione, ad opera delle parti, di un impegno a cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole una controversia e raggiungere un accordo tramite l'assistenza dei rispettivi procuratori.
Lo schema procedurale è identico a quello civilistico già in uso dal 2014, con la fissazione del termine per l'espletamento non inferiore a un mese e non superiore a tre mesi, prorogabile per ulteriori trenta giorni previo accordo tra le parti, in uno alla previsione della possibilità di svolgimento integrale della procedura in modalità telematica mediante collegamento audiovisivo, con sottoscrizione dell'accordo nel rispetto delle disposizioni del Codice dell'amministrazione digitale (Dlgs 82/2005).
Se la procedura ha esito positivo, le parti sottoscrivono un accordo avente un valore definitivo e carattere di titolo esecutivo, che gode del requisito della inoppugnabilità, ai sensi del 4° comma dell'art. 2113 c.c. e che va trasmesso (se pur si discute ancora in termini validanti o di best practice), a cura di una delle due parti ed entro i dieci giorni successivi, a uno degli organismi di cui all'articolo 76 del Dlgs 10 settembre 2003, n. 276 (ossia a una commissione di certificazione dei contratti di lavoro).
Casistica
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 4 aprile 2024 n. 8898
la transazione, negozio anch'esso idoneo alla risoluzione delle controversie di lavoro qualora abbiano ad oggetto diritti disponibili, non richiede formalità ad substantiam
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 7 settembre 2021 n. 24078
In tema di rapporto di lavoro, la categoria dei diritti indisponibili - cui si applica, qualora abbiano formato oggetto di rinunzie o transazioni, l'art. 2113 c.c. - comprende non soltanto i diritti di natura retributiva o risarcitoria correlati alla lesione di diritti fondamentali della persona, ma, alla luce della "ratio" sottesa alla disposizione codicistica, posta a tutela del lavoratore, quale parte più debole del rapporto di lavoro, ogni altra posizione regolata in via ordinaria attraverso norme inderogabili, salvo che vi sia espressa previsione contraria.
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 4 aprile 2024 n. 8898
Va ribadita la validità della conciliazione giudiziale anche se abbia ad oggetto diritti indisponibili, atteso che l'articolo 2113, comma 1, del Cc che stabilisce l'invalidità delle rinunzie e transazioni aventi per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 del Cpc - disposizione che è conforme al principio generale sancito dall'articolo 1966, secondo comma, del Cc in tema di nullità delle transazioni correlate a diritti sottratti alla disponibilità delle parti, per loro natura o per espressa disposizione di legge - trova il suo limite di applicazione nella previsione di cui all'ultimo comma del citato articolo 2113 del Cc, che fa salve le conciliazioni intervenute ai sensi degli articoli 185,410 e 411 del Cpc, ossia quelle conciliazioni nelle quali la posizione del lavoratore viene ad essere adeguatamente protetta nei confronti del datore di lavoro per effetto dell'intervento in funzione garantista del terzo (autorità giudiziaria, amministrativa o sindacale) diretto al superamento della presunzione di condizionamento della libertà di espressione del consenso da parte del lavoratore, essendo la posizione di quest'ultimo adeguatamente protetta nei confronti del datore di lavoro.
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 6 settembre 2023 n. 25976
In materia di rinunce e transazioni ai sensi dell'art 2113 c.c. costituisce principio consolidato quello del decisivo rilievo dell'effettività dell'assistenza sindacale, nel senso che le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l'assistenza prestata dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, nonché, nel caso di transazione, a condizione che dall'atto stesso si evincano la questione controversa oggetto della lite e le "reciproche concessioni" in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell'art . 1965 c. c
Tribunale di Bari, Sezione Lavoro, 6 aprile 2022
il mandato e l'effettiva assistenza dipendono anche dalla qualità del rapporto intercorso tra lavoratore e sindacalista, e che in assenza della prova di adesione al sindacato o di un effettivo rapporto intercorso, anche “l'incarico conferito contestualmente alla sottoscrizione della conciliazione si rivela del tutto inidoneo, proprio perché reso nel contesto oggetto di censura da parte del lavoratore, con correlativa impugnazione del risultato finale.
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 15 aprile 2024 n. 10065
La conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell'art. 411, comma 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest'ultima essere annoverata tra le sedi protette mancando del carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente all'assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore.
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 18 gennaio 2024 n. 1975
In tema di conciliazione sindacale, la sottoscrizione dell'accordo presso la sede di un sindacato, in conformità alle previsioni dell'art. 412-ter c.p.c. e del contratto collettivo applicabile, non costituisce un requisito formale, ma funzionale, in quanto volto ad assicurare che la volontà del lavoratore sia espressa in modo genuino e non coartato; ne consegue che la stipula in una sede diversa non produce alcun effetto invalidante sulla transazione se il datore di lavoro prova che il dipendente ha avuto, grazie all'effettiva assistenza sindacale, piena consapevolezza delle dichiarazioni negoziali sottoscritte.
In tema di conciliazione con il datore di lavoro, il legislatore non richiede affatto che il mandato al rappresentante sindacale sia anteriore o comunque preventivo rispetto al tempo e al luogo in cui viene stipulata la conciliazione; la contestualità del mandato rispetto alla stipula dell'atto potrebbe costituire un indizio circa la non effettività dell'assistenza sindacale, che tuttavia deve essere corroborato da altri elementi indiziari per integrare la prova presuntiva di tale vizio (articolo 2729 Cc), in grado di inficiare la validità della conciliazione; il relativo onere probatorio grava sulla lavoratrice, in quanto attrice che ha domandato la previa declaratoria di nullità della conciliazione..
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 01 aprile 2019, n. 9006
In materia di atti abdicativi di diritti del lavoratore subordinato, le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l'assistenza prestata dai rappresentanti sindacali - della quale non ha valore equipollente quella fornita da un legale - sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, nonchè, nel caso di transazione, a condizione che dall'atto stesso si evincano la questione controversa oggetto della lite e le reciproche concessioni in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell'articolo 1965 c.c
Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, sentenza 8 maggio 2019, n. 4354
Le rinunce firmate dai lavoratori in sede sindacale sono impugnabili (nel termine ordinario di sei mesi) se il contratto collettivo di riferimento non disciplina l'istituto della conciliazione .. La conciliazione sottoscritta in sede sindacale per prevenire una lite di lavoro o mettervi fine è inoppugnabile solo se il verbale è sottoscritto nel rispetto delle modalità e nelle sedi previste dalla contrattazione collettiva, con l'assistenza effettiva di organizzazioni sindacali dotate di rappresentatività e con una volontà del lavoratore che sia reale e non viziata.
Riferimenti
Normativi:
Codice Civile: artt. 1965,2113;
Codice di procedura civile: artt. 185,410,412 ter, 412 quater;
art. 31, c. 13, L. 183/2010;
Dlgs 149/2022
Decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, conv. in L 10 novembre 2014, n. 162
Giurisprudenza
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 4 aprile 2024 n. 8898;
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 7 settembre 2021 n. 24078;
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 6 settembre 2023 n. 25976;
Tribunale di Bari, Sezione Lavoro, 6 aprile 2022;
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 15 aprile 2024 n. 10065;
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 18 gennaio 2024 n. 1975;
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 01 aprile 2019, n. 9006;
Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, sentenza 8 maggio 2019, n. 4354
Vuoi leggere tutti i contenuti?
Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter continuare a
leggere questo e tanti altri articoli.