Proprietà esclusiva di un bene «presumibilmente condominale»: a chi spetta l’onere della prova?
25 Novembre 2024
Con atto di citazione un condomino citava innanzi al Tribunale competente il condominio, gli eredi dell'originario proprietario nonché tutti i condomini, affinchè venisse accertato e dichiarato che la striscia del terreno posta nella parte antistante il portico del suo immobile adibito a locale commerciale, sito al piano terra del medesimo condominio, era di sua proprietà esclusiva in quanto pertinenza dell'immobile e, in subordine, chiedeva che venisse accertato e dichiarato che l'area era di sua proprietà per averla usucapita ai sensi dell'art. 1159 c.c. o dell'art. 1158 c.c. Il condominio si costituiva in giudizio, contestando l'avverso assunto e proponendo domanda riconvenzionale volta ad accertare la piena ed esclusiva proprietà condominiale della medesima striscia di terreno e chiedendo di essere autorizzata alla chiamata in causa del terzo; rimanevano contumaci gli eredi del proprietario originario e gli altri condomini. Si costituiva in giudizio il terzo eccependo la sua estraneità al contenzioso. Il Tribunale rigettava le domande proposte dall'attrice e accoglieva quella riconvenzionale del condomino convenuto dichiarando che la striscia di terreno contesa era di proprietà di quest'ultimo. Avverso tale sentenza veniva proposto appello innanzi alla Corte territorialmente competente, la quale rigettava i gravame. In seguito, l'appellante adiva la Suprema Corte, sullo scorta di cinque motivi; resisteva il condominio con controricorso. Il consigliere delegato formulava proposta di definizione del giudizio ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c. ritualmente comunicato alle parti. Dopo tale comunicazione, il ricorrente, a mezzo del difensore munito di nuova procura speciale chiedeva la decisione del ricorso. Col primo motivo del ricorso, si denunciava la violazione dell'art. 948 c.c. per aver la Corte d'appello ritenuto che la striscia di terreno contesa fosse di proprietà condominiale mancando i titoli contrari in favore dell'appellante e una riserva in favore del costruttore che aveva alienato le singole unità immobiliari, come risultante dalla mancata menzione del bene nella dichiarazione di successione redatta dai figli e negli atti di compravendita prodotti. Con il secondo motivo di ricorso si deduceva la violazione dell'art. 1117, comma 1, c.c. per avere il giudice del gravame affermato che non era stata fornita alcuna prova idonea a superare la presunzione di condominialità desumibile soltanto attraverso un titolo di acquisto originario ovvero l'obiettiva destinazione, data dall'unico originario proprietario, che la porzione di terreno risultava prospiciente all'edificio condominiale, che il suo attraversamento consentiva di raggiungere dalla strada l'area condominiale e che il regolamento condominiale, pur non contemplando il bene conteso, non costituiva titolo di proprietà. Con il terzo motivo si lamentava la violazione dell'art. 1362 c.c. sostenendo che la Corte d'appello motivando la sua decisione aveva omesso di valutare il regolamento contrattuale condominiale e la planimetria ad esso allegata e non aveva considerato, che ai fini della superabilità della presunzione di proprietà comune, avrebbe dovuto interpretare la volontà contrattuale delle parti secondo i criteri di cui all'art. 1362 c.c. e verificare il loro comportamento accertando la sussistenza di elementi univoci contrastanti con la reale esistenza di un diritto di comunione. Con il quarto motivo si denunciava la nullità della sentenza impugnata sul vincolo pertinenziale per difetto assoluto di motivazione con riguardo all'art. 132 n. 4, c.p.c., e all'art. 112 c.p.c. Con il quinto ed ultimo motivo si lamentava la nullità della sentenza di appello in merito al mancato riconoscimento del suo acquisto a titolo di usucapione dell'area controversa per difetto assoluto motivazione. La proposta di definizione del giudizio formulata ai sensi della art. 380-bis c.p.c., recitava l'inammissibilità e/o manifesta infondatezza del ricorso avverso la pronuncia di rigetto della domanda principale di accertamento dell'esistenza di un vincolo pertinenziale tra un'area scoperta e la proprietà individuale del ricorrente e di usucapione della stessa e di accoglimento di quella riconvenzionale di accertamento della proprietà comune di detto spazio. Il primo, secondo, terzo, quarto e quinto motivo sono inammissibile o comunque manifestamente infondati. La Suprema Corte riteneva i primi tre motivi esaminabili unitariamente in quanto connessi e li considerava priva di fondamento. Si affermava che, secondo quanto già più volte statuito dalla Cassazione, per affermare la condominialità di un bene occorre gradatamente verificare dapprima che la res, per le sue caratteristiche strutturali risulti destinata oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari e poi che sussista un titolo contrario alla «presunzione di condominialità», facendo riferimento esclusivo al primo atto di trasferimento di una unità immobiliare dell'originario proprietario ad altro soggetto. La situazione di condominio, regolato dagli artt. 1117 e ss. c.c., si attua, infatti, sin dal momento in cui si opera il frazionamento della proprietà di un edificio a seguito del trasferimento della prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione dall'originario unico proprietario ad altro soggetto, la cui trascrizione comprensiva pro quota, senza bisogno di specifica indicazione, anche delle parti comuni, ne consente l'opponibilità ai terzi dalla data dell'eseguita formalità. In presenza di tale presunzione legale, il condominio è, dunque, dispensato dalla prova del suo diritto spettando, invece, al condomino che rivendichi la proprietà esclusiva di uno dei beni di cui al suddetto elenco dare la prova delle sue asserzioni. La Cassazione riteneva che la Corte d'appello avesse adeguamente interpretato i titoli prodotti in causa, ivi compreso il regolamento contrattuale, risultando dirimente il compiuto accertamento in ordine al fatto che l'originario proprietario non si fosse riservato la proprietà del bene (Cass. n. 3852/2020; Cass. n. 21440/2022). Il quarto e quinto motivo venivano trattati congiuntamente in quanto afferenti entrambi alla dedotta nullità della sentenza, per non essersi questa pronunciata sulla natura pertinenziale del bene conteso e per avere contraddittoriamente rigettato le prove offerte a dimostrazione dell'intervenuta usucapione del bene e poi affermato che questo modo di acquisto fosse rimasto indimostrato: entrambi i motivi venivano ritenuti infondati. Quanto alla prima questione risultava dalla sentenza impugnata che il ricorrente, con il settimo motivo, aveva impugnato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva rigettato la domanda di usucapione e il riconoscimento del vincolo pertinenziale tra i locali di sua proprietà e l'area di contestazione in ragione del mancato assolvimento dell'onere probatorio, per non essere state ammesse le prove orali dedotte. Se è vero che la pronuncia non si soffermava affatto sulla questione delle petinenzialità dell'are contesa, è anche vero che non poteva ravvisarsi la nullità atteso che la Corte d'appello, dopo avere affermato la condominialità del bene e respinto la censura riguardante il dedotto acquisto della proprietà della stessa, da parte del ricorrente per intervenuta usucapione, aveva dichiarato assorbite le ulteriori domande proposte. Quanto alla seconda questione, si osservava, preliminarmente, come, dopo la riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. disposta dall'art. 54 d.l. n. 83/2012, convertito dalla l. n. 134/2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà ed insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del minimo costituzionale richiesto dall'art. 111, comma 6, Cost.; nel caso di specie la Corte territoriale aveva ampiamente argomentato sulle ragioni per le quali aveva ritenuto di respingere la domanda di usucapione (Cass. n. 8487/2020). Alla luce delle argomentazioni complessivamente svolte, il ricorso veniva rigettato e poiché il ricorso era stato deciso in conformità alla proposta formulata ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., andavano applicati, come previsto dal terzo comma ultima parte dello stesso art. 380-bis c.p.c., il terzo e quarto comma dell'art. 96 c.p.c., con conseguente condanna del ricorrente al pagamento, sempre in favore del controricorrente, di una somma equitativamente determinata, nonché al pagamento di un'ulteriore somma, nei limiti di legge in favore della Cassa delle ammende. In conclusione, la Suprema Corte rigettava il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità; condannava, altresì, il ricorrente ai sensi dell'art. 96, commi 3 e 4, c.p.c. al pagamento in favore del controricorrente di un'ulteriore somma, nonché al pagamento di un importo in favore della Cassa delle ammende. (fonte: dirittoegiustizia.it) |