Usucapione delle parti comuni

Paolo Nasini
15 Settembre 2017

Il condomino che deduce di avere usucapito la cosa comune deve provare di averla sottratta all'uso comune per il periodo utile all' usucapione e cioè deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, costituita da atti univocamente rivolti contro i compossessori, e tale da rendere riconoscibile a costoro l'intenzione di non possedere più come semplice compossessore, non bastando al riguardo la prova del mero non uso da parte degli altri condomini, stante l'imprescrittibilità del diritto in comproprietà.
Inquadramento

L'art. 1117 c.c. stabilisce una presunzione di comproprietà, in mancanza di risultanze contrarie in base al titolo, in capo ai proprietari delle singole unità immobiliari in proprietà esclusiva, dei beni indicati ai capoversi 1), 2) e 3).

Il condomino, quindi, ha diritto di godere dei beni comuni e tale diritto, salvo che il titolo non disponga diversamente, è proporzionale al valore dell'unità immobiliare che gli appartiene.

Inoltre, per il combinato disposto degli artt. 1139 e 1102 c.c. ciascun condomino può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa.

Peraltro, il condomino/comunista non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il suo possesso.

Poiché l'utilizzo e, quindi, il possesso del bene è manifestazione del diritto del comproprietario, occorre chiedersi se e in presenza di quali presupposti il compossessore e, più specificamente, il condomino, possa usucapire la proprietà esclusiva del bene comune.

Usucapione: caratteri generali

L'usucapione è un modo di acquisto della proprietà a titolo originario della proprietà o di altri diritti reali di godimento che si caratterizza per il possesso continuato del bene per il periodo di tempo stabilito dalla legge.

Quindi, elementi costitutivi dell'istituto sono il possesso, ovvero l'esercizio di un potere di fatto corrispondente al diritto di proprietà o altro diritto reale di godimento, con l'animus possidendi, ovvero l'intento di tenere la cosa come propria, da un lato, e il decorso del tempo, dall'altro.

Il possesso deve essere palese e non violento, continuo, non interrotto da un terzo o per eventi naturali.

Il termine ad usucapionem inizia a decorrere dal primo giorno successivo all'inizio del possesso: per l'accertamento del tempo necessario ad usucapionem occorre rammentare, peraltro, che il possessore può giovarsi delle norme in termini di accessione e successione nel possesso, ai sensi dell'art. 1146 c.c.

Trattandosi, nella fattispecie in esame, di beni immobili, viene in gioco l'usucapione ordinaria ventennale e l'usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c.

Il possesso nella comunione e usucapione

Qualora il bene sia di proprietà di terzi, colui il quale non è titolare di alcun diritto reale sul bene in esame e cominci a possedere il bene a titolo di proprietà, con un possesso avente i requisiti sopra indicati, può, una volta decorso il termine ad usucapionem, acquisire la titolarità del diritto di proprietà.

Nel caso in cui il soggetto interessato sia un mero detentore del bene in oggetto ovvero abbia il possesso corrispondente all'esercizio di un diritto reale su cosa altrui non può usucapire la proprietà della cosa stessa se il titolo del suo possesso o della detenzione non è mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui stesso fatta contro il diritto del proprietario. Il tempo necessario per l'usucapione, quindi, decorre dalla data in cui il titolo del possesso o la detenzione sono stati mutati.

Nel caso della comunione, però, la situazione è più complessa.

Si ha comunione quando la proprietà o altro diritto reale spetta in titolarità a più persone.

Controversa la ricostruzione giuridica dell'istituto in oggetto che fa emergere un apparentemente insanabile contrasto: assolutezza ed esclusività del diritto di proprietà, da un lato, e la molteplicità di titolari e, quindi, frammentazione con conseguente reciproca limitazione del godimento, dall'altro.

Secondo una teoria dottrinaria, il diritto di proprietà spetta non ai singoli in quanto tali, ma all'ente comunione al quale solo competono i poteri dispositivi e gestori della cosa, ente al quale, i fautori della predetta teoria riconoscono una soggettività giuridica distinta da quella de singoli partecipanti.

E' stata poi proposta la tesi della c.d. proprietà collettiva: il godimento della cosa, cioè, spetterebbe alla comunità dei comproprietari.

Secondo, l'orientamento dottrinale e giurisprudenziale dominante la comunione si caratterizza per il fatto che il diritto di ciascun comunista ha per oggetto la cosa comune intesa nella sua interezza, pur se entro i limiti dei concorrenti diritti altrui (Cass. civ., sez. II, 6 ottobre 2005, n. 19460).

Pertanto, trattasi di una situazione giuridica nella quale ciascun partecipante è titolare di una quota ideale di proprietà sull'intero bene, che non è, però, relativa ad una porzione specifica dello stesso.

Il meccanismo giuridico è dato dal bilanciamento tra i diritti dei singoli comunisti in quanto il diritto di ciascuno è limitato e a sua volta limita il diritto degli altri: la quota di partecipazione di ciascun membro, quindi, sta ad indicare la misura del potere sulla cosa, cioè delle facoltà e degli obblighi sulla stessa.

La comproprietà non è equiparabile ad un diritto reale di godimento su cosa altrui, in quanto ciascun comunista è titolare del diritto di proprietà sull'intero bene ai sensi dell'art. 832 c.c., e i limiti al godimento sono solo quelli conseguenti al rispetto della quota in comproprietà degli altri comunisti (c.d. teoria della proprietà plurima integrale).

Le caratteristiche della comunione non possono non influire quindi, sul modo in cui si può esercitare il possesso sul bene e, quindi, sui presupposti perché si possa ritenere applicabile l'istituto dell'usucapione.

Per comprendere appieno il problema occorre avere riguardo all'art. 1102 c.c., che, come si è già accennato, in forza del combinato disposto con l'art. 1139 c.c., trova applicazione anche nell'ambito del condominio.

La norma in questione, infatti, consente a ciascun partecipante alla comunione di poter utilizzare e servirsi della cosa comune anche apportando a proprie spese modifiche necessarie per il miglior godimento della stessa, purché, però, non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne parimenti uso.

Quindi, l'uso della cosa è consentito nella sua interezza a ciascun partecipante, secondo la regola del c.d. uso collettivo o promiscuo, salvo diverso accordo tra i comunisti stessi, i quali per contro possono, con le maggioranze prescritte, deliberare l'uso indiretto del bene quando non sia possibile garantire l'uso diretto promiscuo o con sistema di turni temporali o frazionamento degli spazi (Cass. civ., sez. II, 5 novembre 2002, n. 15460).

E' importante sottolineare, in pieno accordo con quanto sopra detto in ordine alle caratteristiche strutturali della comunione, che, essendo il comunista comunque titolare del diritto sull'intero bene, ancorché limitato dalla presenza di altri contitolari, la facoltà di uso non è strettamente proporzionata alla quota, ma è una facoltà integrale sebbene non esclusiva.

Lasciando in disparte in questa sede il limite del divieto di alterare la destinazione della cosa comune, è rilevante l'altro «paletto» ovvero il divieto, per il comproprietario, di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il suo diritto.

La nozione di pari uso della cosa comune, agli effetti dell'art. 1102 c.c., non va intesa nei termini di assoluta identità dell'utilizzazione del bene da parte di ciascun comproprietario, in quanto l'identità nel tempo e nello spazio di tale uso comporterebbe un sostanziale divieto per ogni partecipante di servirsi del bene a proprio esclusivo o particolare vantaggio, pure laddove non risulti alterato il rapporto di equilibrio tra i condomini nel godimento dell'oggetto della comunione (Cass. civ., sez. II, 14 aprile 2015, n. 7466).

Ecco allora che le caratteristiche della comunione e la titolarità di un diritto di proprietà sull'intero bene, ancorché non assoluto, impedisce di poter richiamare, ai fini dell'usucapione, il concetto dell'interversio possessionis.

Infatti, come la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di sottolineare, in tema di comunione, anche in mancanza di un atto formale di interversione del possesso, può essere usucapita la quota di un comproprietario da parte degli altri, sempre che l'esercizio della signoria di fatto sull'intera proprietà comune non sia dovuto alla mera astensione del titolare della quota ma risulti inconciliabile con la possibilità di godimento di quest'ultimo ed evidenzi, al contrario, in modo del tutto univoco, la volontà di possedere uti dominus e non uti condominus (Cass. civ., sez. II, 20 maggio 2008, n. 12775).

Peraltro, non è sufficiente, al fine di cui sopra, il solo compimento di atti di gestione consentiti al singolo compartecipante o anche di atti familiarmente tollerati dagli altri, o ancora di atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo ad un'estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore. (Cass. civ., sez. II, 11 agosto 2005, n. 16841).

Ugualmente, non è sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall'uso della cosa comune (Cass. civ., sez. II, 25 marzo 2009, n. 7221).

D'altronde, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare in modo più specifico e puntuale che in tema di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune (ad esempio, un fondo agricolo) da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all'esercizio del possesso ad usucapionem e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell'altro compossessore, risultando necessario, a fini della usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res communis da parte dell'interessato attraverso un'attività durevole, apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l'onere della relativa prova su colui che invochi l'avvenuta usucapione del bene (Cass. civ., sez. II, 20 settembre 2007, n. 19478, Cass. civ., sez. II, 27 luglio 2009, n. 17462).

In particolare, il condomino che deduce di avere usucapito la cosa comune deve provare di averla sottratta all'uso comune per il periodo utile all' usucapione e cioè deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, costituita da atti univocamente rivolti contro i compossessori, e tale da rendere riconoscibile a costoro l'intenzione di non possedere più come semplice compossessore, non bastando al riguardo la prova del mero non uso da parte degli altri condomini, stante l'imprescrittibilità del diritto in comproprietà (Cass. civ., sez. II, 2 marzo 1998, n. 2261).

Ecco allora che laddove un comunista si limiti ad utilizzare egli solo la cosa comune nella assoluta inerzia e non curanza degli altri condomini, ma senza manifestare, con comportamenti inequivoci e portati a conoscenza degli altri partecipanti, il proprio animus excludendi alios, non può configurarsi un possesso idoneo all'usucapione.

Per contro, l'indifferenza degli altri comunisti che, pur potendo non richiedono all'utilizzatore di poter parimenti fare uso del bene in via diretta o indiretta, impedisce di riconoscere un comportamento illegittimo in capo al compossessore che utilizza in via esclusiva il bene con conseguente inconfigurabilità del diritto in capo ai primi di un diritto al pagamento di una indennità da indebita, parziale, occupazione.

In evidenza

In tema di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all'esercizio del possesso ad usucapionem e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell'altro compossessore, risultando necessario, a fini della usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res communis da parte dell'interessato attraverso un'attività durevole, apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l'onere della relativa prova su colui che invochi l'avvenuta usucapione del bene.

Il condominio e l'usucapione

Le considerazioni sopra riportate, in considerazione dell'applicabilità dell'art. 1102 c.c., come detto, anche al Condominio, valgono, in linea di principio, anche con riferimento a tale fattispecie.

D'altronde, le peculiarità dell'istituto condominiale rispetto alla comunione pura e semplice impongono delle precisazioni applicative rilevanti.

L'istituto del condominio negli edifici, si caratterizza per la presenza, accanto alle proprietà individuali di singoli piani o parti dell'edificio, di una c.d. comunione forzosa ed incidentale che interessa tutti i proprietari delle unità immobiliari in titolarità esclusiva e che riguarda quegli elementi strutturali o parti o spazi o, ancora, impianti, dell'edificio necessari o comunque funzionali al miglior godimento delle proprietà individuali.

Affinché possa operare, ai sensi dell'art. 1117 c.c., il cosiddetto diritto di condominio, è necessario che sussista una relazione di accessorietà fra i beni, gli impianti o i servizi comuni e l'edificio in comunione, nonché un collegamento funzionale fra primi e le unità immobiliari di proprietà esclusiva. Pertanto, qualora, per le sue caratteristiche funzionali e strutturali, il bene serva al godimento delle parti singole dell'edificio comune, si presume - indipendentemente dal fatto che la cosa sia, o possa essere, utilizzata da tutti i condomini o soltanto da alcuni di essi - la contitolarità necessaria di tutti i condomini su di esso. Detta presunzione può essere vinta da un titolo contrario, la cui esistenza deve essere dedotta e dimostrata dal condomino che vanti la proprietà esclusiva del bene, potendosi a tal fine utilizzare il titolo - salvo che si tratti di acquisto a titolo originario - solo se da esso si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione (Cass. civ., sez. II, 21 dicembre 2007, n. 27145).

Come più sopra accennato, l'art. 1117 c.c. indica i beni e, più in generale, i criteri per individuare i beni che, in mancanza di titolo contrario, devono considerarsi di proprietà comune: si badi che, ancorché in giurisprudenza si faccia riferimento alla «presunzione» la norma precisa che salvo che il contrario non risulti dal titolo, i beni ivi indicati sono oggetto di proprietà comune.

Al riguardo, il diritto di condominio sulle parti comuni dell'edificio ha il suo fondamento nel fatto che tali parti siano necessarie per l'esistenza dell'edificio stesso, ovvero che siano permanentemente destinate all'uso o al godimento comune, sicché la presunzione di comproprietà posta dall'art. 1117 c.c., che contiene un'elencazione non tassativa ma meramente esemplificativa dei beni da considerare oggetto di comunione, può essere superata se la cosa, per obbiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all'uso o al godimento di una parte dell'immobile, venendo meno, in questi casi, il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, giacché la destinazione particolare del bene prevale sull'attribuzione legale, alla stessa stregua del titolo contrario (Cass. civ., sez. II, 2 agosto 2010, n. 17993).

La natura accessoria e strumentale dei beni in questione rispetto alle proprietà individuali facenti parte del medesimo edificio condominiale o comunque comuni rispetto a più unità immobiliari, o più edifici o più condominii di unità immobiliari o di edifici (ex art. 1117-bis c.c.), rende più complesso affermare la compatibilità di un possesso ad usucapionem in via generale per tutti i beni indicati dall'art. 1117 c.c.

Se si considerano gli arresti giurisprudenziali in materia può ben rilevarsi come la Suprema Corte abbia sottolineato, in tema di uso della cosa comune secondo i criteri stabiliti nel primo comma dell'art. 1102 c.c., lo sfruttamento esclusivo del bene da parte del singolo che ne impedisca la simultanea fruizione degli altri e non è riconducibile alla facoltà di ciascun condomino di trarre dal bene comune la più intesa utilizzazione, ma ne integra un uso illegittimo in quanto il principio di solidarietà cui devono essere informati i rapporti condominiali richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, sicché va esclusa, ad esempio, la legittimità dell'installazione e utilizzazione esclusiva, da parte di un condomino titolare di un esercizio commerciale, di fioriere, tavolini, sedie e di una struttura tubolare con annesso tendone (Cass. civ., sez. II, 24 giugno 2008, n. 17208).

Parimenti illegittimo, per violazione dell'art. 1102 c.c., deve ritenersi il comportamento del condomino che utilizzi la canna fumaria dell'impianto centrale di riscaldamento per lo scarico dei fumi da una pizzeria, dopo che l'impianto stesso sia stato disattivato dal condominio, trattandosi non di uso frazionato della cosa comune, bensì della sua esclusiva appropriazione e definitiva sottrazione alle possibilità di godimento collettivo, nei termini funzionali praticati, per legittimare le quali è necessario il consenso negoziale (espresso in forma scritta ad substantiam) di tutti i condomini (Cass. civ., sez. II, 6 novembre 2008, n. 26737).

Nella specie nell'accogliere il ricorso la Suprema Corte ha sottolineato come il disposto dell'art.1102 c.c. vieta, in assenza di uno specifico accordo concluso tra tutti i titolari del diritto, che il singolo partecipante possa attrarre la cosa comune o una sua parte nell'orbita della propria disponibilità esclusiva e sottrarlo in tal modo alla possibilità di godimento degli altri contitolari (Cass. civ., sez. II, 9 marzo 2006, n. 5085; Cass. civ., sez. II, 14 ottobre 1998, n. 10175). Ed infatti allorché la cosa comune sia sottratta definitivamente alla possibilità di godimento collettivo, nei termini funzionali originariamente praticati, non si rientra più nemmeno nell'ambito dell'uso frazionato consentito (Cass. civ., sez. II, 11 aprile 2006, n. 8429), ma nell'appropriazione di parte della cosa comune.

Per contro, certamente, in tema di condominio, ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini. Ne consegue che l'installazione di una ringhiera (o parapetto) su di un lastrico solare che permetta di affacciarsi su spazi condominiali (nella specie, cortili comuni destinati a dare aria e luce agli appartamenti sottostanti che vi prospettano) costituisce esercizio del diritto di proprietà e non di quello di servitù, per cui non trovano applicazione le norme che disciplinano le vedute su fondi altrui (art. 905 c.c.), bensì quelle che consentono al condomino di servirsi delle parti comuni per il miglior godimento della cosa, senz'altro limite che l'obbligo di rispettare la destinazione, di non alterare la stabilità e il decoro architettonico dell'edificio e di non ledere i diritti degli altri condomini (Cass. civ., sez. II, 16 luglio 2004, n. 13261).

Ora, se, come si è detto, è pur possibile per il condomino esercitare un possesso in contrasto con la previsione dell'art. 1102 c.c. è discutibile che per determinate tipologie di beni condominiali possa configurarsi quell'effetto esclusivo degli altri condomini con acquisto integrale del bene nella proprietà del singolo condomino.

Si pensi, ad esempio, a tutti quegli elementi strutturali e strettamente necessari per la stessa esistenza o comunque funzionalità essenziale dell'edificio condominiale, come il tetto, i muri maestri, le travi portanti, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, la facciata.

Questi sono beni che, evidentemente, anche laddove vi sia uno sfruttamento esclusivo da parte di uno dei condomini (si pensi ad esempio all'installazione sul tetto di un numero eccessivo di antenne o parabole a solo ed esclusivo godimento del singolo condomino, o al caso dell'utilizzo smodato, da parte di un imprenditore, della facciata dell'edificio condominiale per collocarvi messaggi pubblicitari o insegne o altro): ciò che non potrebbe mai venire meno è la necessaria funzione condominiale del bene citato, mantenendo il tetto la funzione di copertura dell'edificio e la facciata la funzione di rappresentare l'aspetto architettonico dell'edificio all'esterno per il maggior godimento in termini di valore delle singole unità di proprietà individuale.

Va detto peraltro che la Suprema Corte nel definire il concetto di «titolo contrario» ex art 1117 c.c. ha avuto modo di sottolineare che in tema di condominio di edifici, il condomino che pretenda l'appartenenza esclusiva di un bene indicato nell'art. 1117 c.c., deve fornire la prova della sua asserita proprietà esclusiva derivante da titolo contrario consistente in un negozio o nell'usucapione (Cass. civ., sez. II, 09 novembre 1998, n. 11268), ma questo principio generale come sopra detto non sembra potersi attagliare a qualsivoglia bene, potenzialmente comune, posto che alcuni tra quelli indicati nella citata norma del codice civile sono caratterizzati da una strumentalità e, quindi, condominialità specifica, destinata a non venire meno nemmeno in caso di possesso esclusivo ed escludente.

Casistica

CASISTICA

Compossesso

In tema di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune (ad es. fondo agricolo) da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all'esercizio del possesso ad usucapionem e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell'altro compossessore, risultando necessario, a fini della usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res communis da parte dell'interessato attraverso un'attività durevole, apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l'onere della relativa prova su colui che invochi l'avvenuta usucapione del bene (il principio è stato affermato dalla Suprema Corte che ha confermato la sentenza d'appello denegativa dell'acquisto per usucapione da parte di un comproprietario, della quota degli altri comproprietari, con riguardo al compossesso di un terreno agricolo, oggetto di coltivazione esclusiva da parte prima del dante causa e poi degli eredi di un compossessore e di contemporanea non frequentazione dei luoghi da parte dell'altro comproprietario, in assenza di comportamenti apertamente contrastanti e incompatibili con il possesso altrui e volti ad evidenziare una in equivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus) (Cass. civ., sez. II, 20 settembre 2007, n. 19478, Cass. civ., sez. II, 27 luglio 2009, n. 17462).

Installazione di ringhiera sul lastrico solare

Ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini. Ne consegue che l'installazione di una ringhiera (o parapetto) su di un lastrico solare che permetta di affacciarsi su spazi condominiali (nella specie, cortili comuni destinati a dare aria e luce agli appartamenti sottostanti che vi prospettano) costituisce esercizio del diritto di proprietà e non di quello di servitù, per cui non trovano applicazione le norme che disciplinano le vedute su fondi altrui (art. 905 cod. civ.), bensì quelle che consentono al condomino di servirsi delle parti comuni per il miglior godimento della cosa, senz'altro limite che l'obbligo di rispettare la destinazione, di non alterare la stabilità e il decoro architettonico dell'edificio e di non ledere i diritti degli altri condomini (Cass. civ., sez. II, 16 luglio 2004, n. 13261).

Guida all'approfondimento

Mazzon, L'usucapione di beni mobili ed immobili. Requisiti per l'acquisto della proprietà e strategie di difesa, Rimini, 2013;

Bianca, La proprietà, Milano, 1999;

Mazzon, Il possesso. Usucapione, azioni di reintegrazione e di manutenzione, denuncia di nuova opera e di danno temuto, Padova, 2011.

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