Il credito tributario (bonus facciate) e profitto del reato: inammissibile il sequestro preventivo nei confronti dell’Istituto di credito

27 Novembre 2024

La Suprema Corte, nella sentenza in commento, si è pronunciata sul tema del profitto che può derivare dall'emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e ha chiarito che i crediti fiscali non costituiscono un profitto fino a quando non vengono compensati con l'imposta dovuta o monetizzati. 

La massima

Con riferimento alla violazione dell'art. 8 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il profitto per chi emette fatture false può derivare dalla remunerazione ricevuta dal destinatario della fattura o dal risparmio sull'imposta evasa, ma i crediti fiscali non costituiscono un profitto fino a quando non vengono compensati con l'imposta dovuta o monetizzati.

Conseguentemente non può essere disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca nei confronti della Banca in quanto il profitto realizzato dalla Società cedente, per effetto delle false fatture da essa emesse, va individuato non nei crediti ceduti, bensì nella remunerazione corrispostale dalla Banca in corrispettivo della relativa cessione.

Il caso

Il caso sottoposto alla Corte di cassazione (Cass. pen., sez. VI, 13 novembre 2024, n. 41798) origina dal ricorso presentato dal difensore di un Istituto di Credito contro l'ordinanza emessa dal Tribunale in sede di riesame che aveva confermato il sequestro sui crediti per interventi edilizi agevolati, a norma del d.l. 10 maggio 2020, n. 34, convertito dalla l. 17 luglio 2020, n. 77 (c.d. bonus facciate) d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74; la contestazione riguardava l'asserita violazione dell'art. 8 d.lgs. n. 74/2000, da parte dei rappresentanti di diritto e di fatto della società cedente, nonché dei tecnici compiacenti e dei falsi committenti dei lavori.

Il gravame si basava sull'assenza della motivazione sul periculum in mora con riferimento alla specifica posizione della banca, soggetto non soltanto estraneo al reato, ma altresì da esso danneggiato e violazione dell'art. 321, c.p.p., per difetto del requisito della pertinenza delle cose sequestrate rispetto alla fattispecie di reato per cui si procede.

La questione

Al fine di un migliore inquadramento della tematica pare opportuno esaminare il delitto previsto dall'art. 8 d.lgs. n. 74/2000.

Il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi o l'IVA, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

L'emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta si considera come un solo reato.

Anteriormente alle modifiche apportate dal d.l. 13 agosto 2011, n. 138, per tale reato era comminata la pena della reclusione da sei mesi a due anni, quando l'importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti emessi, risultava inferiore a 154.937,07 euro; conseguentemente all'abrogazione di tale attenuante, a prescindere dall'importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti falsi emessi, la pena diviene quella della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.

Il presupposto soggettivo previsto dall'art. 8 d.lgs. n. 74/2000, fa riferimento al fatto che il soggetto agente consente a terzi l'evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto con il proprio comportamento.

La valutazione riguardo la sussistenza del dolo specifico è affidata al giudice di merito cui è demandato il compito di accertare se la condotta dell'imputato corrisponda agli elementi costitutivi del reato.

Oggetto del reato sono le fatture o altri documenti emessi per operazioni inesistenti, che rimandino ad operazioni di cessione di beni o prestazioni di servizi, rilevanti ai fini della determinazione dell'imponibile, come ad esempio scontrini fiscali, ricevute fiscali, schede carburanti.

La condotta tipica del reato consiste nella emissione o nel rilascio di fatture o di altri documenti per operazioni false, non rispondenti, quindi alla verità, a nulla rilevando la loro effettiva utilizzazione da parte del soggetto ricevente.

Il dolo specifico di evasione indiretta consiste nel fine di consentire a terzi l'evasione di imposta sui redditi o sul valore aggiunto, in quanto chi emette le fatture o rilascia i documenti per operazioni in tutto o in parte inesistenti, indicando i corrispettivi o l'IVA in misura superiore a quella reale, chiaramente, non avrà alcun tipo di vantaggio configurandosi, in realtà, una posizione fiscale alquanto sfavorevole (P. Ceroli, Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, in questo Portale).

È possibile anche il caso in cui l'ipotesi di evasione vi sia solo ai fini delle imposte sui redditi e non anche ai fini dell'IVA, se chi emette la fattura riceve in pagamento, dall'altra parte, l'IVA, che poi verserà, iscrivendo, inoltre, la fattura in contabilità. Tale comportamento potrebbe essere giustificato dal fatto che, l'aver indicato in contabilità un incasso non realizzato, possa nascondere occulti accordi economici tra le parti, oppure la volontà dell'emittente di far emergere delle vendite che celano precedenti evasioni o operazioni sommerse.

L'art. 8, comma 2, d.lgs. n. 74/2000 prevede infine un'ipotesi di speciale cumulo giuridico, laddove, ai fini dell'applicazione prevista nel primo comma, l'emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta, realizza un unico reato.

La soluzione giuridica

Nell'esaminare il ricorso proposto contro l'ordinanza che aveva confermato il sequestro preventivo, la Corte di cassazione si sofferma, in primo luogo, sul requisito del periculum in mora.

Il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca deve contenere la concisa motivazione anche del periculum in mora, spiegando le ragioni che rendono necessaria l'anticipazione dell'effetto ablativo della confisca rispetto alla definizione del giudizio, perché, nelle more del giudizio, il bene potrebbe essere modificato, disperso, deteriorato, utilizzato od alienato.

Detto pericolo, in linea generale, prescinde dalla disponibilità della res da parte dell'autore del reato, nulla impedendo che il sequestro possa essere disposto ed eseguito anche quando il relativo oggetto sia nella disponibilità di terzi o finanche, quanto meno formalmente, sia di loro proprietà.

Ne discende allora che, nella motivazione, il giudice deve soffermarsi sulle qualità del terzo detentore soltanto se e nei limiti in cui queste possano incidere sull'esistenza del periculum.

Successivamente la Corte effettua due distinzioni.

Il sequestro può essere infatti disposto al fine d'impedire l'aggravamento o la protrazione delle conseguenze del reato o la commissione di altri illeciti (c.d. sequestro impeditivo, a norma dell'art. 321, comma 1, c.p.p.), oppure in funzione anticipatoria dell'eventuale confisca (art. 321, comma 2, c.p.p.) e, in questo secondo caso, si può parlare di confisca diretta (art. 240, c.p.) o per equivalente (art. 12-bis, d.lgs. n. 74/2000); oppure, ancora, una confisca strumentale ad entrambi gli scopi.

Ed in effetti la differenza tra i due istituti non è meramente formale.

Il sequestro impeditivo, infatti, può attingere le cose pertinenti al reato, categoria più ampia del corpo di reato (art. 253 c.p.p.), ma anche del catalogo previsto dall'art. 240, c.p., poiché comprende non solo le cose sulle quali o a mezzo delle quali il reato fu commesso o che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto, ma anche quelle legate solo indirettamente alla fattispecie criminosa, salvo che si tratti di collegamento puramente occasionale.

Nel caso, invece, di sequestro a fini di confisca, è la natura di quest'ultima che delimita il novero delle cose suscettibili di apprensione anche in fase cautelare.

Ne discende che, laddove si tratti di confisca diretta, esse saranno quelle indicate dall'art. 240 c.p., le quali presuppongono tutte un collegamento più o meno stretto con il reato e, qualora si tratti di prodotto o profitto di esso, incontrano il limite dell'appartenenza a persona estranea allo stesso.

Detto collegamento con il reato, invece, non è necessario in caso di confisca per equivalente, la quale, però, può colpire soltanto cose che siano nella disponibilità del reo, quand'anche questi formalmente non ne sia proprietario né abbia sulle stesse un diritto più limitato, reale o personale di godimento.

In merito al secondo motivo, la Suprema corte rileva che il profitto del reato consiste nel vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dall'illecito.

Il criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a titolo di profitto, dunque, è rappresentato dalla pertinenzialità della cosa rispetto al reato: occorre, cioè, una correlazione diretta del vantaggio con il reato ed una stretta affinità con l'oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita a qualsiasi vantaggio patrimoniale che possa comunque scaturire dall'illecito.

Come evidenziato in precedenza l'art. 8 d.lgs. n. 74/2000, punisce il soggetto che emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, e, quindi, il profitto del reato, per l'emittente la falsa fattura, può consistere nella remunerazione corrispostagli dal beneficiario della fattura medesima oppure nel risparmio sull'imposta dovuta, laddove comunque ottenuto.

Il credito tributario, invece, finché rimane tale e non viene portato in compensazione con l'imposta dovuta, riducendone od azzerandone l'importo, o non venga altrimenti monetizzato, non si traduce per il titolare in un vantaggio economico, e quindi in un profitto agli effetti penali.

Conseguentemente la Corte di cassazione ha annullato l'ordinanza impugnata e rinviato gli atti al Tribunale competente.

Osservazioni

Mediante la decisione oggetto del presente commento, la Suprema corte ha fatto buon governo e corretta applicazione dei principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità.

Con riferimento ai presupposti applicativi per ritenere fondato l'adozione del provvedimento cautelare reale la Corte ha evidenziato che, così come stabilito dal costante orientamento, il provvedimento che dispone sequestro preventivo finalizzato alla confisca deve contenere motivazione anche del periculum in mora, spiegando le ragioni che rendono necessaria l'anticipazione dell'effetto ablativo della confisca rispetto alla definizione del giudizio e, nel caso di beni appartenenti a terzi, il giudice deve soffermarsi sulle qualità del terzo detentore soltanto se e nei limiti in cui queste possano incidere sull'esistenza del periculum.

Con specifico riferimento all'art. 8 d.lgs. n. 74/2000 la Corte rileva che, nel caso de quo, il credito tributario legittimamente acquisito dalla banca ricorrente non costituisce profitto del reato e, pertanto, non sarebbe suscettibile di confisca diretta, in quanto appartenente a persona estranea al reato, né di confisca per equivalente, perché ormai non più nella disponibilità del reo.

Potrebbe residuare uno spazio, al più, per un sequestro impeditivo di quei crediti, potendo questi essere qualificati come prodotto del reato ex art. 8 d.lgs. n. 74/2000 o, comunque, cose ad esso pertinenti, ed essendo possibile che la loro libera disponibilità aggravi le conseguenze del reato, sub specie di riduzione delle entrate fiscali, trattandosi di diritti comunque destinati ad essere fatti valere nei confronti dell'Erario dall'ultimo dei cessionari eventualmente successivi.

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