Donazione indiretta e simulata: regime probatorio nell’azione di riduzione e di divisione ereditaria
17 Dicembre 2024
Massima La donazione indiretta é un contratto con causa onerosa, posto in essere per raggiungere una finalità ulteriore e diversa consistente nell'arricchimento, per mero spirito di liberalità, del contraente che riceve la prestazione di maggior valore e differisce dalla donazione simulata, in cui il contratto apparente non corrisponde alla volontà delle parti, che intendono, invece, stipulare un contratto gratuito; ne consegue che alla donazione indiretta non si applicano le limitazioni probatorie dettate dall'art. 1417 c.c. e che la prova dell'effettiva natura liberale della fattispecie negoziale può essere data anche a mezzo presunzioni, pur nel caso in cui non si alleghi a fondamento della pretesa la qualità di legittimario. Il caso L'ordinanza in esame giunge all'esito di un giudizio che ha visto soccombere, in primo grado, alcuni eredi, figli di primo letto del de cuius, i quali, assumendo lesa la loro quota di legittima, avevano convenuto in giudizio la seconda moglie del dante causa e la figlia nata dal secondo matrimonio, per chiedere la riduzione della donazione indiretta che quest'ultima aveva ricevuto dal padre comune; atto di liberalità indiretta avente ad oggetto un immobile e che si sarebbe realizzato mediante versamento diretto, da parte del padre, del prezzo al venditore del bene, con concomitante intestazione alla figlia. Il Tribunale, invece, accoglieva l'ulteriore domanda di divisione ereditaria dei beni caduti in successione - pure chiesta nel corpo dell'atto introduttivo del giudizio - tuttavia senza considerare il bene indirettamente donato con la citata disposizione negoziale. La Corte distrettuale adita, nel confermare la pronuncia di primo grado e rigettare il gravame, sottolineava le diversità strutturali tra l'azione di riduzione e collazione - quanto a soggetti ed effetti -, rammentando che solo nella prima il legittimario è da considerarsi «terzo» ai fini della prova della simulazione (art. 1417 c.c.), diversamente dalla posizione del coerede che chiede la divisione della massa ereditaria, nella quale confluiscono anche le donazioni effettuate in vita dal dante causa. Proponevano, quindi, ricorso per cassazione. La questione Con i primi due motivi di ricorso, unitariamente valutati poiché sostanzialmente connessi, oltre all'omessa valutazione delle prove da cui sarebbe emersa la lesione della legittima, si contesta al giudice di secondo grado di non aver considerato la donazione indiretta anche ai fini della collazione; istituto che impone ai donatari (coeredi in quanto figli o coniuge del de cuius) di dover conferire alla massa quanto ricevuto in vita a titolo di liberalità, in mancanza di espressa dispensa indicata nel contratto. Più nel dettaglio, i ricorrenti censuravano il ragionamento seguito dai giudici di merito secondo cui il rigetto della domanda di riduzione della donazione indiretta - allegata quale atto di lesione della quota dei legittimari - aveva comportato anche l'automatica esclusione del medesimo atto di liberalità (comunque allegato in citazione) pure in relazione alla formazione del relictum in sede di divisione. Secondo i ricorrenti, i precedenti giudici avrebbero dovuto, invece, considerare l'atto donativo ai fini della collazione, stante l'automatica operatività dell'istituto in sede divisionale. Conclusione a cui giungevano i giudici di merito supportata dal diverso e più favorevole regime probatorio previsto per l'azione di simulazione, la quale consente al legittimario che agisce in riduzione di dimostrare la fictio iuris anche a mezzo testimoni senza limiti o presunzioni (ex art. 1417 c.c.); prerogativa, invece, di cui sarebbe privo il coerede che miri ad avvalersi della collazione. In altri termini, il giudice di secondo grado, nel distinguere l'azione di riduzione dalla collazione e ribadirne l'ammissibilità della loro cumulabilità, ha ritenuto di disattendere la prima tenuto conto del regime probatorio richiesto per la dimostrazione della donazione simulata, la quale consente al legittimario di avvalersi di presunzioni e prove testimoniali senza limiti; nel caso concreto, essendo stata esclusa la prova della donazione simulata allegata a fondamento dell'azione di riduzione, tale atto di liberalità non poteva ritenersi dimostrato anche in relazione alla domanda di divisione, essendo, in tale ultimo caso, l'onere maggiormente gravoso, non applicandosi le agevolazioni probatorie previste dall'art. 1417 c.c. La soluzione giuridica I motivi di ricorso sono stati ritenuti fondati dalla Corte di cassazione, la quale ha annullato la pronuncia di secondo grado e ha rinviato il giudizio dinanzi alla Corte di appello in diversa composizione per le valutazioni conformi ai principi di seguito indicati. Secondo la Suprema Corte, infatti, la circostanza che la Corte di appello abbia riscontrato che gli attori si erano limitati ad allegare la donazione indiretta in relazione alla domanda di collazione - che opera in via automatica una volta che risulti proposta la domanda di divisione - non consentiva di escludere dalla massa ereditaria la richiesta di accertamento della citata donazione indiretta sul solo presupposto della infondatezza della domanda di riduzione. I giudici di legittimità, dopo aver ribadito che l'azione di riduzione sia stata correttamente respinta dai giudici di merito poiché la donazione indiretta era stata allegata in citazione in vista della divisione (non, invece, come presupposto della lesione della quota dei legittimari), potendo essere, di conseguenza, valutata mediante l'applicazione dell'istituto della collazione, hanno rammentato l'orientamento consolidato dalla Corte che pacificamente ammette la cumulabilità dell'azione di riduzione della donazione che si assume lesiva della quota di riserva dell'erede legittimario con quella di divisione ereditaria (e automatica collazione della medesima donazione, sia essa diretta, indiretta o simulata). Nel sottolineare la distinzione ontologica tra le due azioni, viene specificato che con l'azione di riduzione il legittimario si prefigge esclusivamente di recuperare, in natura, il valore corrispondente alla lesione subita, incidendo nella sfera giuridica dei donatari nei limiti di quanto occorra per reintegrare la quota di legittima lesa, il cui valore si ricava esclusivamente dal rapporto legittima-disponibile. Diversamente, la collazione ha la funzione di incrementare il relictum oggetto di divisione, con l'effetto che ogni coerede concorre, in ragione della propria quota, sul valore della donazione effettuata in vita dal de cuius; istituto che opera automaticamente e pone il bene donato in comunione fra i coeredi (il coniuge o discendenti del de cuius, donatario compreso ai sensi dell'art. 737 c.c.) i quali vi partecipano in proporzione della propria quota ereditaria, essendo assente il riferimento alla distinzione fra quota legittima e quota disponibile, presente, invece, solo nell'azione di riduzione. Alla distinzione strutturale delle due azioni, l'ordinanza in commento si incentra nel sottolineare anche la diversità, in termini applicativi, delle conseguenze che le stesse comportano nella sfera giuridica del legittimario/coerede che si assume leso nella sua quota di riserva, giustificandone il concorso. Sostiene la Suprema Corte, infatti, che, mancando il rapporto legittima-disponibile, con il meccanismo automatico della collazione in sede divisionale può giungersi anche al risultato pratico della eliminazione delle eventuali lesioni di legittima mediante attribuzione - all'erede legittimario che si assume leso - del valore in base alla propria quota di coerede. Nondimeno, evidenzia che la sola azione di riduzione assicura al coerede legittimario leso il ripristino della sua quota di riserva mediante l'assegnazione dei beni in natura, essendo in questo caso esclusa l'imputazione del valore della donazione a tutti gli altri coeredi e, di conseguenza, anche il rischio che la lesione non venga interamente riparata. Coerentemente, secondo la Cassazione, le due azioni possono essere proposte cumulativamente, così che l'azione di divisione - nella quale opera il meccanismo della collazione - interviene «in un secondo tempo», ovvero dopo la riduzione, mediante reintegrazione, della lesione in natura, e ciò al fine di redistribuire l'eventuale valore residuo della liberalità ridotta dalla quota di riserva, imputando a tutti i coeredi, di fatto, il restante valore della donazione medesima, coincidente con la quota disponibile. Distinti gli effetti delle due azioni, il Supremo Collegio ha attenzionato il diverso regime probatorio che incombe sull'attore, dovendosi rammentare le diversificazioni del caso in ragione della situazione giuridica «di partenza» che si assume al momento della proposizione della domanda. Quanto all'azione di riduzione, ha condiviso il ragionamento seguito dalla Corte di appello, sottolineando come il legittimario sia ammesso a provare tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della riserva, ricorrendo anche a presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, essendo necessario e sufficiente che alla spendita della qualità di legittimario si accompagni la richiesta di accertamento della lesione e di recupero (o reintegrazione) della quota di legittima lesa; onere probatorio - precisa la Corte - applicabile anche in relazione alle domande di riduzione di donazioni simulate. Sul punto, è da considerarsi terzo alla simulazione, ai sensi dell'art. 1415 c.c., il legittimario che agisce in riduzione per pretesa lesione di legittima, perché la riserva è un suo diritto personale, riconosciutogli dalla legge, e perciò può provare la simulazione con ogni mezzo, ai sensi dell'art. 1417 c.c. Ha specificato, per converso, che l'erede che agisce per il riconoscimento della simulazione di una donazione non è terzo ai fini dei limiti alla prova testimoniale stabiliti dall'art. 1417 c.c.; infatti, chiedendo lo scioglimento della comunione, previa collazione delle donazioni (anche dissimulate o indirette) per ricostituire il patrimonio ereditario, l'erede succede universum ius al de cuius, subentrando nella sua posizione. Nel caso di specie, nell'ordinanza esaminata la Cassazione ha concluso evidenziando l'errore della Corte di appello, la quale, escludendo la donazione ai fini del computo della massa ereditaria da dividere, ha violato i principi in tema di onere probatorio, non avendo correttamente rilevato (ai fini della collazione) che gli attori avevano posto a fondamento della domanda non una donazione simulata bensì indiretta. Notoriamente, tale ultimo istituto - già meglio individuato dalle Cass. SU 5 agosto 1992 n. 9282 - rientra nel genus del c.d. negozio indiretto, ovvero con quell'operazione negoziale che, pur non costituendo espressa donazione (per la quale è richiesta, peraltro, la forma dell'atto pubblico), si caratterizzi per la presenza di una causa di liberalità che emerge indirettamente, funzionale ad arricchire gratuitamente il beneficiario (art. 809 c.c.); fine che può essere ricavato indirettamente dall'esame di tutte le circostanze dedotte e provate in giudizio. Nella fattispecie concreta, gli attori hanno prospettato, infatti, che la convenuta (coerede-donataria) avesse acquistato l'immobile dal venditore attraverso il pagamento del prezzo direttamente da parte del de cuius; una tale caso, secondo costante giurisprudenza, realizza la fattispecie della c.d. «intestazione del bene a nome altrui», la quale costituisce un'ipotesi di donazione indiretta del bene medesimo e non del denaro corrisposto dal donante. La compravendita, come precisato nell'ordinanza, costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario e, quindi, integra - anche ai fini della collazione - una donazione indiretta del bene stesso e non del danaro. Tuttavia, la Corte è giunta alla conclusione che, seppur oggetto della donazione indiretta sia il bene, quest'ultimo - a differenza della donazione simulata, nella quale una delle parti del negozio simulato (il simulato alienante) era proprietario del bene al momento della conclusione del medesimo - non è mai appartenuto al donante, avvenendo il trasferimento direttamente tra l'alienante e il donatario beneficiario; conseguentemente, seppure nella donazione indiretta, come in quella simulata, l'oggetto dell'arricchimento sia il bene, ai fini della reintegrazione della quota di riserva o della collazione, il meccanismo negoziale indiretto non può non tener conto del fatto che tale bene non sia mai appartenuto al donante. Per cui, dovrà in tal caso essere escluso il recupero del bene in natura (nel caso di riduzione) o il conferimento in natura (nel caso di collazione), dovendosi procedere, rispettivamente, alla riparazione della lesione della quota di riserva o alla composizione del relictum tenendo conto del valore dell'investimento finanziato con la donazione indiretta e, quindi, con le modalità tipiche del diritto di credito. Individuato l'oggetto del donatum nell'intestazione di beni in nome altrui ai fini della formazione della massa ereditaria, la Suprema Corte conclude rammentando che la donazione indiretta è rappresentata da un contratto con causa onerosa il quale si prefigge di raggiungere una finalità «ulteriore e diversa» rispetto a quella direttamente desumibile (compravendita, come nella specie); finalità consistente nell'arricchimento, per mero spirito di liberalità, del contraente, il quale riceve la prestazione di maggior valore(trasferimento immobiliare). Netta, quindi, risulta la differenza dalla donazione simulata, nella quale le parti non vogliono la produzione degli effetti del contratto apparente ma intendono, invece, stipulare un contratto gratuito con causa di liberalità. Conseguentemente, alla donazione indiretta non possono essere estese le limitazioni probatorie dettate dall'art. 1417 c.c., e che la prova dell'effettiva natura liberale (in tutto o in parte) può essere data anche a mezzo presunzioni, pur nel caso in cui non si alleghi, a fondamento della pretesa, la qualità di legittimario. Osservazioni La pronuncia conferma un orientamento formatosi in seno alla Corte, caratterizzato per la sua innovatività, dovuta anche dalla peculiarità della fattispecie. L'aspetto particolare risiede nell'aver approfondito la possibilità dell'erede-legittimario di agire per ottenere la riduzione di una donazione indiretta oltre che la divisione della comunione ereditaria composta anche da un atto di liberalità così realizzato, diversificando il regime probatorio tra donazione indiretta e simulata; inoltre, sotto il profilo probatorio, viene tracciata una distinzione tra il regime più gravoso che sopporta l'erede-legittimario che si duole o della lesione della propria quota di legittima o che chieda la divisione della comunione ereditaria allegando l'esistenza di una donazione simulata, rispetto al regime maggiormente favorevole per l'ipotesi in cui la liberalità avvenga mediante intestazione di beni in nome altrui. La particolarità e innovatività della pronuncia non riguarda l'ipotesi comune e maggiormente approfondita relativa alla posizione del legittimario «pretermesso», atteso che, in tale ultimo caso, la giurisprudenza di legittimità, costantemente, ha affermato che il legittimario totalmente pretermesso dall'eredità, che impugna per simulazione un atto compiuto dal de cuius a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, agisce in qualità di terzo (e non in veste di erede subentrante nella posizione del de cuius); condizione che acquista solo in conseguenza del positivo esercizio dell'azione di riduzione. In tal caso, essendo terzo rispetto al contratto simulato, può provare, ai sensi dell'art. 1417 c.c., l'esistenza di una simulazione relativa o di una donazione dissimulata da una compravendita fittizia con ogni mezzo e senza le limitazioni tipiche della prova del contratto, dunque anche mediante prove documentali, testimoniali e presunzioni, purché gravi, precise e concordanti. Il caso in esame, tuttavia, aggiunge un ulteriore tassello di novità rispetto al passato - seppur già condiviso da alcune pronunce-, precisando che laddove il legittimario leso da una donazione simulata sia anche coerede (e, dunque, non pretermesso) possa dimostrare la simulazione senza limiti probatori; situazione, quindi, che ora risulta differenziabile solo in relazione alla domanda proposta da un erede che chieda la collazione della donazione simulata in sede divisionale. E infatti, solo per tale ultimo caso, secondo la pronuncia in esame, l'erede che intenda ottenere l'ingresso nella comunione (mediante collazione) di un bene che si assuma parte della massa poiché oggetto di donazione simulata debba ritenersi gravato da tutti i limiti probatori previsti per la prova del contratto (v. art. 2721 e s. c.c.), non risultando terzo rispetto al contratto simulato; l'accettazione dell'eredità, quindi, lo rende, per successione, parte anche dell'accordo simulatorio, che gli impedisce di provare la simulazione se non con la c.d. controdichiarazione. Venendo, invece, alla donazione indiretta - che, invero, costituiva oggetto del giudizio su cui la Corte di cassazione si è pronunciata -, l'ordinanza ha puntualizzato la natura del negozio indiretto caratterizzato dall'intestazione di beni in nome altrui, precisando, però, come, ai fini della collazione, l'oggetto di tale donazione indiretta non sia il bene trasferito bensì il denaro impiegato per acquistarlo. Come osservato in passato da autorevole dottrina - prima dell'intervento delle Sezioni Unite (Cass. SU 5 agosto 1992 n. 9282 ) - argomentando dall'art. 1923 c. 2 c.c. - in virtù del quale è assoggettato alla disciplina dell'imputazione, della collazione e della riduzione solo quanto è uscito dal patrimonio dell'assicurato -, si deduce il principio generale che oggetto della liberalità indiretta è il denaro; a mente di tale norma , che disciplina l'assicurazione sulla vita in favore del terzo, il donante è tenuto a corrispondere i premi all'assicuratore, ma il beneficiario si arricchisce della maggior somma pagata dall'assicuratore. Diversamente, le Sezioni Unite avevano ritenuto che, nel caso di intestazione al discendente di un bene immobile da parte dell'ascendente - il quale abbia provveduto direttamente al pagamento del prezzo al venditore - oggetto della collazione, in sede ereditaria, sarebbe stato l'immobile e non una somma di denaro pari al prezzo. Appare chiaro, quindi, che la pronuncia in esame si pone in termini di novità rispetto al passato. La Corte, infatti, distingue l'oggetto di tale tipo di donazione indiretta a seconda che la stessa sia invocata sic et simpliciter da quella in cui la stessa debba entrare nel meccanismo automatico della collazione in sede di divisione ereditaria. Nel primo caso, resta fedele all'orientamento espresso dalle Sezioni Unite, considerando il bene trasferito come il reale oggetto della donazione indiretta, sempre che il denaro fornito dal donante sia immediatamente corrisposto al venditore o sia consegnato all'acquirente con un vincolo di destinazione, ove si dimostri che la somma sia stata consegnata al beneficiario al fine di acquistare il bene e da questi immediatamente utilizzata. Nel secondo caso, invece, nell'ambito divisionale, ai fini della collazione l'ordinanza in commento considera come oggetto di comunione il denaro impiegato dal de cuius per l'acquisto del bene; ragionamento che muove la sua logica in ragione del fatto, con tale operazione, il bene non è mai entrato nella titolarità del donante, venendo trasferito direttamente in favore del donatario al momento della conclusione del contratto. Tale conclusione pare seguire non solo un ulteriore ed autorevole indirizzo dottrinale, il quale, argomentando dall'art. 1923 c. 2 c.c, per cui non vi sarebbe corrispondenza tra il bene acquistato e quanto uscito dal patrimonio del donante (questi estraneo al titolo in base al quale il donatario riceve indirettamente il bene in cui si sostanzia il suo arricchimento). Anche successiva giurisprudenza - alla quale si uniforma l'ordinanza in commento - ha ritenuto che la retrocessione del bene derivante dalle azioni di riduzione e di restituzione, infatti, non può operare nel caso delle donazioni indirette poiché lo stesso bene non è mai stato oggetto del patrimonio del donante, ma acquistato dal donatario nella sua sfera giuridico-patrimoniale, o direttamente o per la deviazione a suo favore degli effetti negoziali messi in opera dal «donante-indiretto». La dottrina in commento parte dal presupposto che l'azione di riduzione nei confronti di una donazione diretta, eliminando il titolo contrattuale, faccia ritornare retroattivamente nel patrimonio del de cuius - sia pure con inefficacia relativa - il bene conseguito dal donatario, realizzando, in questo modo, una perfetta coincidenza tra depauperamento del donante e arricchimento del donatario; coincidenza che, invece, non si verifica nella riduzione delle donazioni indirette poiché il titolo di acquisto consiste in un negozio a titolo oneroso stipulato tra il beneficiario e un terzo. Così, la successiva giurisprudenza (cfr. Cass. 12 maggio 2010 n. 11496), nella medesima linea dalla pronuncia in commento, la quale ha specificato che alla riduzione delle liberalità indirette non si può applicare il principio della quota legittima in natura, connaturale invece all'azione nell'ipotesi di donazione ordinaria d'immobile (art. 560 c.c.); con la conseguenza che l'acquisizione riguarda il controvalore, mediante il metodo dell'imputazione, come nella collazione (art. 724 c.c.), atteso che la riduzione delle donazioni indirette non mette in discussione la titolarità dei beni donati, né incide sul piano della circolazione dei beni. L'ordinanza esaminata, quindi, pur confermando che l'oggetto della liberalità indiretta è l'immobile e non il denaro fornito dal beneficiante, ha precisato che il diritto del legittimario leso, in tali ipotesi, perde la natura reale e quindi recuperatoria del bene stesso per tradursi in un diritto di credito. In definitiva, in sede di divisione, secondo l'orientamento in parola, la comunione verrà integrata non in natura, ovvero con il conferimento dell'immobile oggetto di intestazione al beneficiario coerede, ma mediante conferimento, da parte di quest'ultimo, del valore utilizzato da comune dante causa per l'acquisto del bene medesimo mediante negozio indiretto. Alla luce di tale ricostruzione, l'innovativa conclusione secondo cui per la prova della finalità ulteriore che le parti hanno indirettamente voluto raggiungere (ovvero la liberalità) rispetto al negozio-mezzo utilizzato non si applicano le limitazioni probatorie dettate dall'art. 1417 c.c., con la conseguenza che la prova dell'effettiva natura liberale della fattispecie negoziale può essere data anche a mezzo presunzioni, pur nel caso in cui si alleghi a fondamento della pretesa la qualità di coerede e non solo di legittimario. DOTTRINA
GIURISPRUDENZA
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