I (poco graditi) termini perentori dell’arbitrato
20 Febbraio 2025
Massima In tema di arbitrato libero, così come nell'ambito dell'arbitrato rituale, gli arbitri incorrono nella violazione del principio del contraddittorio qualora abbiano stabilito la natura perentoria dei termini da loro fissati alle parti per le allegazioni e istanze istruttorie e, in relazione a tale determinazione, abbiano dichiarato decaduta una parte per il tardivo esercizio delle facoltà di proporre quesiti e istanze istruttorie, senza che la convenzione d'arbitrato o un atto scritto separato o il regolamento processuale dagli arbitri stessi predisposto preveda la possibilità di fissare termini perentori per lo svolgimento delle attività difensive e senza una specifica avvertenza circa il carattere perentorio dei termini al momento della loro assegnazione. Il caso Viene avviato un procedimento arbitrale basato su di una clausola compromissoria contenuta in un contratto di appalto. Il lodo condanna il committente a pagare una determinata somma all’appaltatore. Il committente impugna il lodo davanti alla Corte di appello di Firenze e, tra i vari motivi d’impugnazione, contesta che non gli sarebbe stato consentito di produrre la prova del pagamento di una fattura, con la conseguenza di aver pagato due volte la stessa prestazione dell’appaltatore. La Corte di appello ritiene tuttavia tardiva la produzione in giudizio della prova di pagamento. Il committente si rivolge allora alla Corte di cassazione. La questione La questione trattata dalla Corte di cassazione è se sia consentito agli arbitri indicare che i termini per le produzioni documentali sono perentori, cosicché il superamento dei termini implica la decadenza dal diritto di produrre i documenti nel giudizio arbitrale. Le soluzioni giuridiche La Corte di cassazione statuisce che gli arbitri non hanno il diritto di stabilire che i termini del procedimento che si svolge dinanzi a loro abbiano natura perentoria, a meno che non chiariscano espressamente la natura perentoria dei termini. Osservazioni Per comprendere meglio i termini del problema discusso davanti alla Corte di cassazione bisogna, come sempre, partire dal dato normativo. L'art. 816-bis, comma 1, c.p.c. prevede che « le parti possono stabilire nella convenzione d'arbitrato, o con atto scritto separato, purché anteriore all'inizio del giudizio arbitrale, le norme che gli arbitri debbono osservare nel procedimento e la lingua dell'arbitrato» . La regola è quella dell'autonomia contrattuale. Spetta alle parti fissare le regole procedurali. Va detto che la maggior parte delle clausole compromissorie è sintetica e non si sofferma sugli aspetti procedurali. L'art. 816, comma 1, c.p.c. continua specificando che «in mancanza di tali norme gli arbitri hanno facoltà di regolare lo svolgimento del giudizio e determinare la lingua dell'arbitrato nel modo che ritengono più opportuno» . Gli arbitri suppliscono alle lacune delle parti. Difatti, se le parti non hanno stabilito come debba svolgersi il procedimento, chi altro può stabilirlo, se non gli arbitri? Le regole di svolgimento del giudizio vengono fissate di solito nel verbale di costituzione del Tribunale arbitrale. Va detto che il verbale è comunque di solito sintetico e si limita a fissare i termini per le memorie che le parti dovranno presentare. Di norma si prevedono quattro memorie (due per parte): un atto introduttivo dell'attore, una comparsa di risposta del convenuto, due memorie di replica. Per le memorie di replica può essere stabilita la stessa data oppure possono essere previste due date sfalsate (prima una data per l'attore, poi una data per il convenuto). L'unico limite invalicabile per gli arbitri è quello del rispetto del contraddittorio. La disposizione continua, infatti, stabilendo che gli arbitri «debbono in ogni caso attuare il principio del contraddittorio, concedendo alle parti ragionevoli ed equivalenti possibilità di deroga» (art. 816, comma 1 c.p.c.). Si tratta evidentemente di una clausola generale. Cosa è il «contraddittorio»? Si tratta della possibilità di “contraddire”, ossia di replicare alle difese avversarie. Occorre che questo diritto di difesa sia uguale per ambedue le parti. E occorre anche che i termini concessi siano ragionevoli. Nel caso affrontato dalla Corte di cassazione, oggetto di questo breve commento, la clausola compromissoria non conteneva alcuna indicazione sulla perentorietà dei termini né gli arbitri avevano qualificato come perentori i termini assegnati alle parti. Ciò nonostante, poiché una fattura era stata prodotta oltre il termine previsto, gli arbitri avevano dichiarato decaduta la parte dal diritto di produrre il documento e non ne avevano tenuto conto nel lodo. Secondo la Corte di cassazione, in tema sia di arbitrato libero che di arbitrato rituale, gli arbitri incorrono nella violazione del principio del contraddittorio qualora abbiano stabilito la natura perentoria del termine da loro fissato alle parti per le allegazioni e le istanze istruttorie e, in relazione a tale determinazione, abbiano dichiarato decaduta una parte, senza che la convenzione d'arbitrato o il regolamento processuale predisposto dagli arbitri stessi prevedesse la possibilità di fissare termini perentori per lo svolgimento delle attività difensive e senza una specifica avvertenza circa il carattere perentorio dei termini al momento della loro assegnazione. Gli arbitri incorrono in violazione del principio del contraddittorio per mancata conoscenza dei punti di vista di tutte le parti del procedimento ove abbiano stabilito la natura perentoria dei termini da loro fissati alle parti per le allegazioni e istanze istruttorie e, in relazione a tale determinazione, abbiano dichiarato decaduta una parte per il tardivo esercizio della facoltà di proporre quesiti e istanze istruttorie, qualora la possibilità di declinare tale perentorietà non fosse prevista dalla convenzione di arbitrato o dal regolamento processuale dai medesimi predisposto. Va detto che questi principi enunciati dalla Corte di cassazione non hanno una precisa base normativa. La base potrebbe rinvenirsi nell'art. 152, comma 2 c.p.c., secondo cui « i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori». Il principio desumibile è quello della ordinarietà dei termini, nell'ottica di evitare preclusioni e di assicurare dunque il massimo scambio possibile tra le parti. Il comma 2 concerne i termini di legge, ma la prospettiva non cambia se si esamina l'art. 152, comma 1 c.p.c.: «I termini per il compimento degli atti del processo sono stabiliti dalla legge; possono essere stabiliti dal giudice anche a pena di decadenza, soltanto se la legge lo permette espressamente». La perentorietà è una conseguenza della legge. Il principio ricavabile è quello che la decisione del giudice (o dell'arbitro) di stabilire la perentorietà non può implicare una perdita dei diritti spettanti alle parti, senza il supporto della legge. Questi principi volti a ridurre il campo di applicazione dei termini perentori sono comprensibili, ma sono poco compatibili con il termine per la pronuncia del lodo. Ciò differenzia il processo civile da quello arbitrale. In quest'ultimo, difatti, si prevede che «gli arbitri debbono pronunciare il lodo nel termine di duecentoquaranta giorni dall'accettazione della nomina» (art. 820, comma 2 c.p.c.). La circostanza di dover prorogare i termini può implicare il rischio di superare il termine consentito per la pronuncia del lodo. Inoltre la richiesta di rimessione in termini per la produzione documentale si presta ad abusi delle parti. Se l'attore chiede la rimessione in termini, allora anche il convenuto potrà chiedere una rimessione in termini. Inoltre, se i termini vengono modificati per la concessione a una parte di un nuovo termine, bisognerà riscadenziare anche gli altri termini del procedimento. Ma come disciplinano i regolamenti arbitrali questo tema dei termini? Il regolamento arbitrale della Camera arbitrale di Milano contiene la seguente prescrizione: «In ogni caso è attuato il principio del contraddittorio e della parità di trattamento delle parti» (art. 2, comma 3, regolamento). Anche in questo contesto viene usata una clausola generale, che non prende posizione sulla perentorietà o meno dei termini assegnati dagli arbitri. Un ulteriore riferimento al contraddittorio si trova nell'art. 8 del Codice deontologico (allegato al regolamento arbitrale). In particolare l'art. 8 prevede che «L'arbitro deve favorire un completo e rapido svolgimento del procedimento. In particolare, deve stabilire i tempi e i modi delle udienze così da consentire la partecipazione delle parti su un piano di totale parità e di assoluto rispetto del principio del contraddittorio» . Ma la rimessione in termini di una parte non costituisce alterazione del contraddittorio rispetto ai termini originariamente pattuiti? Inoltre: come si giustifica un rapido svolgimento del procedimento con la remissione in termini? In un altro passaggio, il regolamento arbitrale della Camera arbitrale di Milano si occupa proprio dei termini, statuendo che « i termini … non sono a pena di decadenza, se la decadenza non è espressamente prevista dal regolamento o stabilita dal provvedimento che li fissa » (art. 7, comma 1, regolamento). Questa disposizione del regolamento riflette perfettamente la giurisprudenza della Corte di cassazione che stiamo esaminando. Dùel resto l'obiettivo di una Camera arbitrale è quello di giungere a lodi che non siano impugnabili, per avere il procedimento assicurato il diritto di difesa di tutti. Una declaratoria di decadenza impedisce a una delle parti le sue difese. Nel successivo art. 7, comma 2, regolamento si specifica che «il consiglio arbitrale, la segreteria generale e il tribunale arbitrale possono prorogare, prima della scadenza, i termini da essi fissati. I termini fissati a pena di decadenza possono essere prorogati soltanto per giustificati motivi ovvero con il consenso di tutte le parti» . Al fine di assicurare flessibilità al procedimento, si consente la proroga di termini. La proroga vale anche nel caso di termini previsti a pena di decadenza, anche se in questo caso bisognerà motivare le ragioni della proroga. Si può concludere nel senso che la necessità del rispetto del principio del contraddittorio rende più flessibile il processo arbitrale rispetto a quello civile. Diversi precedenti di legittimità militano in questo senso. Ad esempio la Corte di cassazione (Cass. civ., sez. II, 26 maggio 2015, n. 10809) ha affermato che, in tema di arbitrato, qualora le parti non abbiano determinato, nel compromesso o nella clausola compromissoria, le regole processuali da adottare, gli arbitri sono liberi di regolare l'articolazione del procedimento nel modo che ritengono più opportuno, anche discostandosi dalle prescrizioni dettate dal codice di rito, con l'unico limite del rispetto dell'inderogabile principio del contraddittorio posto dall'art. 101 c.p.c., il quale tuttavia va opportunamente adattato al giudizio arbitrale, nel senso che deve essere offerta alle parti, al fine di consentire loro un'adeguata attività difensiva, la possibilità di esporre i rispettivi assunti, di esaminare e analizzare le prove e le risultanze del processo anche dopo il compimento dell'istruttoria e fino al momento della chiusura della trattazione, nonché di presentare memorie e repliche e conoscere in tempo utile le istanze e richieste avverse. Può infine essere utilmente segnalato un precedente che riguarda proprio la tardiva produzione documentale. Secondo la Corte di cassazione (Cass. civ., sez. I, 6 novembre 2006, n. 23670), la produzione di documenti oltre il termine all'uopo fissato dagli arbitri non comporta alcuna violazione del principio del contraddittorio, se avviene comunque prima dell'udienza di discussione, non avendo la controparte richiesto la concessione di un nuovo termine per produrre a sua volta ulteriore documentazione. |