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Terra dei fuochi: la Corte EDU condanna l’Italia per violazione del diritto alla vita

28 Febbraio 2025

La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, con un'importante pronuncia quanto alla affermazione della responsabilità dello Stato in relazione alla violazione del diritto alla vita, condanna l'Italia in relazione alle conseguenze patite dalla popolazione della c.d. “Terra dei fuochi”.

Massima

Lo Stato facente parte della Convenzione che omette di attivarsi, con misure preventive e repressive, a fronte di una grave e perdurante situazione di inquinamento ambientale, sebbene essendone a conoscenza anche a livello di evidenze scientifiche documentate, incorre nella violazione dell'art. 2 CEDU (Diritto alla vita).

Il caso

La vicenda sottoposta all'attenzione della Corte europea attiene ai ricorsi presentati da numerosi soggetti abitanti nella c.d. Terra dei Fuochi e alcune associazioni.

La Terra dei Fuochi costituisce un'area situata tra le province di Napoli e Caserta, in Campania, divenuta celebre a causa dell'inquinamento ambientale dovuto al traffico illecito e allo smaltimento irregolare di rifiuti tossici e pericolosi. Il toponimo deriva dai roghi di rifiuti, che da decenni vengono appiccati al fine di smaltire illegalmente materiali di scarto, frequentemente di provenienza industriale. L'area è comprensiva di novanta Comuni, con una popolazione di circa 2,9 milioni di abitanti.

Nel corso del tempo è emerso che la criminalità organizzata aveva gestito il traffico illecito di rifiuti provenienti dalla raccolta locale e da impianti produttivi del Nord Italia, interrando o incendiando tali rifiuti in spregio a qualsiasi tipo di regolamentazione per oltre trent'anni, con gravi ripercussioni sulla salute della popolazione.

Tale serie di condotte criminali ha poi determinato notevoli danni ambientali, con il suolo e le falde acquifere gravemente contaminati da sostanze tossiche, tra cui diossine, metalli pesanti e rifiuti chimici, rendendo molte zone inidonee per l'agricoltura e l'allevamento. Tale contesto è stato oggetto di denuncia da parte di organizzazioni ambientaliste, professionisti del settore medico e ricercatori, i quali hanno documentato e reso evidenti i rischi per la salute pubblica. Le risultanze di siffatti lavori scientifici sono pervenute nelle sedi istituzionali più importanti, anche a livello parlamentare.

Nella parte in fatto della decisione si ripercorre, infatti, in ordine cronologico, la sequenza delle tappe e dei documenti che consentono di delineare progressivamente un quadro di prassi illecite consolidate e di inerzie statali a danno dei residenti nell'area della “Terra dei Fuochi”. In particolare, viene esaminata la documentazione relativa ai lavori delle sette commissioni parlamentari d'inchiesta istituite nel periodo compreso tra il 1995 e il 2018, dalle quali emerge, tra l'altro, come il problema dello smaltimento illecito dei rifiuti fosse noto sin dal 1988 e come le prime indagini fossero state avviate già negli anni '90. Nel corso degli anni successivi, organismi istituzionali e associazioni avevano presentato rapporti ufficiali in cui venivano descritte le modalità di raccolta, occultamento, interramento e combustione dei rifiuti, nonché i ritardi e l'inadeguatezza delle misure adottate dai governi succedutisi, unitamente alle evidenti lacune del quadro normativo, sia in ambito amministrativo che penale.

La Corte si cimenta altresì in un'analisi dettagliata degli studi epidemiologici, i quali hanno evidenziato in maniera progressiva l'incremento dell'incidenza di patologie correlate alla tipologia di sostanze tossiche disperse nell'ambiente, includendo numerose malattie tumorali e malformazioni. Infine, si rende conto delle condanne riportate dall'Italia dinanzi alla Corte di giustizia dell'Unione europea, a seguito delle procedure di infrazione per violazione delle disposizioni emanate dalle direttive in materia di rifiuti.

Nell'anno 2013 è stato inoltre promulgato il c.d. “Decreto Terra dei Fuochi” (d.l. n. 136/2013), recante misure finalizzate a mappare i terreni contaminati, prevedere misure ed interventi di carattere sanitario e controlli antimafia sugli appalti relativi allo smaltimento dei rifiuti, oltre all'introduzione del reato di combustione illecita di rifiuti (art. 256-bis d.lgs. n. 152/2006). Tale provvedimento legislativo viene considerato nell'ambito delle contromisure adottate dallo Stato italiano a fronte della situazione patita dal territorio interessato.

La questione

I ricorsi presentati (un totale di quattro tra il 2014 e il 2015, riuniti nel medesimo procedimento) sono articolati sulla base della ritenuta violazione degli articoli 2, 8 e 13 CEDU.

Si contesta, in via preliminare, la violazione dell'articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU), il quale garantisce il diritto alla vita e impone allo Stato l'obbligo di tutelare i cittadini da minacce gravi e imminenti alla loro incolumità. Secondo i ricorrenti, le autorità italiane non hanno affrontato con la necessaria diligenza il problema dell'inquinamento nella “Terra dei Fuochi”, esponendo così la popolazione a un rischio mortale.

Si evidenzia altresì la violazione dell'articolo 8 della CEDU, che sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare. I ricorrenti sostengono che il degrado ambientale e l'inquinamento hanno compromesso in modo sostanziale la qualità della vita dei cittadini, arrecando danni alla loro salute e al loro benessere, e che lo Stato italiano non abbia quindi garantito un ambiente salubre e vivibile.

Infine, si contesta la violazione dell'articolo 13 della CEDU, il quale prevede il diritto a un ricorso effettivo. I ricorrenti lamentano l'assenza di strumenti giuridici adeguati a disposizione dei cittadini per ottenere giustizia e protezione dallo Stato, sottolineando come le denunce e le istanze di intervento siano spesso rimaste senza risposta idonea.

La Corte è stata quindi chiamata a pronunciarsi in relazione ad una delle norme più rilevanti dell'intero sistema convenzionale, relativa alla tutela del diritto alla vita, posto come uno degli obblighi fondamentali in capo alle organizzazioni statali, nel contesto di una sistematica violazione delle norme ambientali e di una scientificamente comprovata incidenza di malattie sulla popolazione interessata.

Segnatamente, il caso di specie si presenta peculiare rispetto a precedenti vicende “ambientali” della cui valutazione era stata investita la Corte in relazione alla violazione dell'art. 2 CEDU, in quanto non riguarda singoli fattori inquinanti ovvero le attività che li originano, né un'area geografica limitata. Rilevano, invece, diverse fonti inquinanti, distribuite in maniera estesa e complessa, nonché diverse modalità di esposizione umana (c.d. multifattorialità). Inoltre, a differenza della maggior parte dei casi affrontati in passato, non si tratta di attività inquinanti a base lecita (come ad esempio quelle industriali autorizzate), ma di attività illecite svolte del tutto abusivamente da consorterie criminali organizzate.

A ciò si aggiunga che il nodo interpretativo attiene anche alla individuazione del nesso di causalità tra le violazioni ambientali evidenziate e le patologie rappresentate dai ricorrenti: lo stesso Governo italiano, costituitosi dinnanzi alla Corte, non contesta la pericolosità per la salute dei rifiuti seppelliti e combusti nella “Terra dei Fuochi”, bensì la possibilità di dimostrare l'incidenza causale rispetto ai danni patiti dagli abitanti, nonché il collegamento con la lamentata inerzia dello Stato.

Le soluzioni giuridiche

Quanto all'analisi del merito, è stato anzitutto ritenuta l'applicabilità dell'art. 2 CEDU al caso di specie, in considerazione del fatto che l'attività di inquinamento illegale avesse integrato un rischio “reale” – inteso come “serio, autentico e sufficientemente accertabile” – nonché “imminente” – vale a dire prossimo ai soggetti colpiti, in senso fisico e temporale – per la vita umana, attesa la diffusione e durata del fenomeno.

Tale rischio era – ad avviso della Corte – sufficientemente noto alle autorità italiane almeno dai primi anni '90, inoltre i rischi cancerogeni erano già stati sollevati dalla prima commissione parlamentare di inchiesta nel 1996, i cui risultati erano stati poi confermati e consolidati negli studi epidemiologici del 2004 e nel 2005. Siffatti elementi sono stati considerati sufficienti a fondare la consapevolezza – già allora – di un pericolo per la vita serio, autentico, dimostrabile e imminente, da cui scaturivano gli obblighi positivi previsti dall'art. 2 CEDU, senza che fosse necessario dimostrare il nesso di causalità individuale tra l'esposizione all'inquinamento e le singole patologie dei ricorrenti.

La Corte richiama sul punto l'applicabilità del c.d. principio di precauzione, il quale prevede il dovere di ricercare, identificare e valutare i rischi derivanti dall'inquinamento riscontrato, pur in presenza di incertezza riguardo ai singoli nessi causali: contrariamente ragionando, lo Stato potrebbe indugiare nella propria inerzia, beneficiandone sul piano operativo ed economico sottraendosi alle proprie responsabilità.

Nella decisione vengono delineati chiaramente gli obblighi positivi discendenti dall'applicazione dell'art. 2 CEDU, in ordine a ciascuno dei quali viene riscontrato l'inadempimento da parte dello Stato italiano.

La Corte ravvisa la pressoché totale assenza di misure dirisk assesment volte a identificare le aree inquinate ed a verificare i livelli di inquinamento nell'aria, nell'acqua e nel suolo, almeno nei primi venti anni in cui il problema era peraltro già ampiamente noto.

Lo stato italiano è stato trovato carente anche con riguardo alle iniziative di risk management, in quanto è stata evidenziata la ritardata attuazione dei divieti di utilizzazione dei territori oggetto dell'inquinamento, oltre alle lacune dei piani di bonifica, ritenuti non idonei o non completati. È stata censurata altresì la mancata tempestività nell'avvio dell'accertamento e mappatura degli effetti sulla salute umana dell'esposizione ai rifiuti tossici.

La sentenza si sofferma poi sull'analisi del quadro normativo in tema di reati ambientali, evidenziando la inadeguatezza della risposta sanzionatoria, ritenuta troppo blanda rispetto alla gravità delle condotte contestate ed al valore dei profitti conseguiti dalle organizzazioni criminali.

In tale contesto, le previsioni esaminate di “Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti” (inizialmente contenuta nell'art. 53-bis del d.lgs. n. 22/1997, poi riprodotta nell'art. 260 del d.lgs. n. 152/2006 ed infine riportata nel 2015 nell'art. 452-quaterdecies c.p. con sanzioni decisamente più elevate) e di “Combustione illecita di rifiuti” (di cui all'art. 256-bis d.lgs. n. 152/2006, introdotto nel 2015) vengono considerate misure di dubbia efficacia. Segnatamente, la Corte solleva perplessità sulla validità del sistema normativo penale-ambientale almeno fino alla riforma dei reati ambientali nel 2015, in quanto sino a quel momento la risposta legislativa sembra essere stata non solo non inefficace, ma anche lenta e frammentaria, con la creazione di singoli reati gravi nel corso del tempo, ma senza alcun riordino organico della disciplina.

Anche la azione giudiziaria è stata ritenuta carente: in numerosi casi i procedimenti si sono conclusi con la dichiarazione di prescrizione, mentre le condanne emesse nell'ambito di processi conclusisi con la dichiarazione di responsabilità in ordine ai delitti di disastro ambientale, avvelenamento delle acque e traffico illecito di rifiuti, sono ritenute di numero esiguo e comunque non tali da far intendere che lo Stato abbia adottato le misure necessarie per proteggere i cittadini.

Da ultimo la Corte censura una gravissima carenza informativa nei confronti della popolazione del territorio interessato. In particolare viene criticata l'apposizione del segreto di Stato per quindici anni sulle informazioni rivelate da un collaboratore di giustizia nel 1997 nell'ambito delle attività della seconda Commissione parlamentare d'inchiesta. Inoltre, anche negli anni successivi, lo Stato italiano aveva omesso di avviare una campagna informativa completa e capillare sulla natura e l'intensità del rischio connesso alla situazione ambientale ormai già ben nota.

Riepilogando, la salvaguardia del diritto alla vita previsto dall'art. 2 CEDU sarebbe stata disattesa mediante le seguenti omissioni: (a) mancata valutazione completa del fenomeno dell'inquinamento in questione; (b) mancato intervento al fine di gestire i rischi emersi; (c) insufficiente risposta giudiziaria, anche a fronte di un quadro legislativo inadeguato; (d) inadempimento dell'obbligo di fornire informazioni tempestive sui rischi per la salute della popolazione interessata.

La Corte Europea ha evidenziato come la sistematicità dei fenomeni inquinanti, coniugata alle lacune e ai ritardi dello Stato, configuri un “fallimento sistematico” nell'affrontare adeguatamente il problema ambientale. Conseguentemente, ha avviato la procedura della sentenza pilota, disponendo che il Governo italiano adotti, entro due anni dalla divenuta esecutività della sentenza, una serie di misure correttive – tra cui un approccio strategico coordinato, un meccanismo indipendente di monitoraggio e la creazione di una piattaforma informativa – e sospendendo l'esame dei ricorsi analoghi.

Infine, la Corte ha ritenuto insufficiente la mera constatazione della violazione ai sensi dell'art. 41 CEDU come forma di riparazione, rinviando la valutazione dei danni non patrimoniali subiti dai ricorrenti a un momento successivo, decorso il termine concesso per l'attuazione delle misure e in relazione alle valutazioni del Comitato dei Ministri.

Osservazioni

La sentenza in commento risulta senz'altro importante quanto alla affermazione della responsabilità dello Stato in relazione alla violazione del diritto alla vita, fornendo una serie di parametri valutativi e segnando un precedente rilevante.

Nell'ottica del penalista, occorre però evidenziare che tutto quanto argomentato dalla Corte al fine di motivare la sussistenza della responsabilità statale non può in alcun modo essere trasposto sul piano della individuazione ed accertamento di responsabilità da reato in capo al singolo imputato.

Un conto, infatti, è riconoscere le lacune nell'azione dello Stato in funzione del principio di precauzione, da ritenersi operativo anche in presenza di un mero sospetto di pericolo serio per la salute umana; altro è utilizzare scorciatoie argomentative al fine di garantire “in ogni caso” una risposta sanzionatoria penale nei confronti degli individui sottoposti a processo penale.

Il rilievo mosso dalla Corte in relazione alla scarsa incisività dell'azione giudiziaria non deve in alcun modo costituire il presupposto di un accertamento “facilitato” sul piano strettamente penalistico. Siffatta deriva, apparentemente giustificata dalla finalità di dare una risposta sul piano processual-penalistico a fenomeni di inquinamento ambientale pericolosi per la popolazione (come del resto auspicato dalla stessa Corte in sentenza), determinerebbe uno scostamento inaccettabile dai principi di legalità e tassatività propri del diritto penale.

I timori testé evidenziati non appaiono del tutto fuori luogo in quanto la recente storia di rilevanti processi in materia penale-ambientale ha visto a più riprese il tentativo di valorizzare – certamente sul piano della formulazione delle contestazioni, con meno frequenza nelle pronunce giurisprudenziali – elementi di per sé inconsistenti nell'accertamento del nesso causale diretto (come le risultanze epidemiologiche o la valorizzazione di mere correlazioni potenziali) quali architravi di imputazioni per reati di evento, oggetto di forzature ermeneutiche, quali il disastro “innominato” ai sensi dell'art. 434 c.p. o l'avvelenamento di acque previsto dall'art. 439 c.p.

L'attuale sistema normativo non è idoneo a fornire una copertura sul piano penale nel senso inteso dalla pronuncia in commento, in quanto tutte le fattispecie sono basate sull'accertamento del nesso di causalità tra la condotta e l'evento lesivo dell'ambiente e della salute o della vita umana.

Si auspica quindi che la sentenza Cannavacciolo costituisca valido spunto per un ripensamento delle fattispecie penali-ambientali, tra cui in particolare l'art. 452-quater c.p. relativo al disastro ambientale, finalizzato all'elaborazione di figure di reato idonee, da un lato, a soddisfare le richieste espresse dalla Corte e, dall'altro lato, rispettare il principio di tassatività della norma penale.

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