Rimedi risarcitori ex art. 35-ter ord. pen.

Maria Raffaella Falcone
12 Settembre 2016

Come noto, con la sentenza Torreggiani, il nostro Paese è stato condannato dalla Corte Edu dell'uomo a causa del sistemico sovraffollamento del suo sistema carcerario. In tale occasione, la Corte di Strasburgo, ricorrendo alla formula della sentenza-pilota, non si era limitata ad accogliere il ricorso di alcuni detenuti ristretti in spazi assai esigui, cioè pari a 3 mq, ma aveva altresì richiesto al Governo italiano l'adozione di misure di carattere generale consistenti, da un lato, nel risolvere il grave problema del sovraffollamento carcerario, dall'altro, nell'invito ad adottare un rimedio, o un insieme di rimedi, tali da fornire una tutela tanto di tipo preventivo quanto – ed è ciò che interessa in questa sede – di tipo compensativo a garanzia del rispetto dei diritti dei detenuti previsti dalla Cedu.
Inquadramento

Come noto, con la sentenza Torreggiani ed altri c. Italia, n. 43517/09, 8 gennaio 2013, il nostro Paese è stato condannato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo a causa del sistemico sovraffollamento del suo sistema carcerario. In tale occasione, la Corte di Strasburgo, ricorrendo alla formula della sentenza-pilota, non si era limitata ad accogliere il ricorso di alcuni detenuti ristretti in spazi assai esigui, cioè pari a 3 mq, ma aveva altresì richiesto al Governo italiano l'adozione di misure di carattere generale consistenti, da un lato, nel risolvere il grave problema del sovraffollamento carcerario, dall'altro, nell'invito ad adottare un rimedio, o un insieme di rimedi, tali da fornire una tutela tanto di tipo preventivo quanto – ed è ciò che interessa in questa sede – di tipo compensativo a garanzia del rispetto dei diritti dei detenuti previsti dalla Cedu. Tali rimedi, per i giudici di Strasburgo, avrebbero dovuto coesistere in modo complementare.

In adempimento a tale richiesta, il Legislatore italiano, optando per rimedi di natura giurisdizionale, ha adottato l'art. 1 del decreto legge 26 giugno 2014, n. 92, convertito dalla legge 11 agosto 2014, n. 117, recante modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, inserendo dopo l'art. 35-bis,rubricato Reclamo giurisdizionale, che costituisce il c.d. rimedio preventivo, l'art. 35-ter rubricato Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati.

La norma prevede che chiunque ritenga di aver subito un trattamento detentivo non conforme alle previsioni dell'art. 3 Cedu, come interpretato dalla relativa Corte, possa adire, a seconda dei casi, il magistrato di sorveglianza o il giudice civile per ottenere a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare, oppure la liquidazione di una somma di denaro.

Presupposti e condizioni dell'azione risarcitoria

Attualità del pregiudizio. Proprio il rinvio all'art. 69, comma 6, lett. b) l. 354/1975, frutto di una mediocre qualità redazionale della disposizione, ha indotto rilevanti incertezze interpretative sui presupposti di ammissibilità del reclamo dinanzi al magistrato di sorveglianza. Ci si chiede, infatti, se il requisito dell'attualità del pregiudizio sofferto dal detenuto a causa di condizioni detentive contrarie all'art.3 Cedu. debba sussistere, o meno, al momento della presentazione del reclamoIn proposito sussistono due tesi contrapposte.

  • Secondo una prima interpretazione, sostenuta anche dal parere odg. 1095 aggiunto del 30 luglio 2014 del C.S.M. il pregiudizio di cui all'art. 69 comma 6, lett. b) costituirebbe il presupposto dell'azione risarcitoria solo se attuale. Il riferimento all'attualità comporta che giudice di sorveglianza è competente a conoscere soltanto le situazioni di pregiudizio sussistente, cioè, sia al momento della proposizione del ricorso da parte del detenuto interessato che della relativa decisione l'attualità del pregiudizio.
  • Una seconda interpretazione, invece, ritiene che il richiamo sia operato unicamente al pregiudizio, senza aggettivazione e che, pertanto, si possa procedere anche per violazioni sofferte durante detenzioni il cui pregiudizio non sia più attuale al momento della domanda. Tale interpretazione è sostenuta anche dalla locuzione coloro che hanno subito… usata al terzo comma. In quest'ultimo senso è la giurisprudenza della Corte di cassazione divenuta recentemente maggioritaria. Invero, il richiamo alla disposizione dell'art. 35-bis l. 354/1975 deve intendersi unicamente all'accertamento delle condizioni di detenzione inumane o degradanti (pregiudizio) integranti la violazione dell'art. 3 della Convenzione.

Pertanto, a differenza della tutela accordata con il reclamo giurisdizionale introdotto con l'art. 35-bis l. 354/1975, destinato a risolvere situazioni di pregiudizio grave ed attuale attraverso una tutela inibitoria e preventiva, il rimedio risarcitorio può essere proposto no n soltanto da colui che sta subendo un pregiudizio, ma anche da parte di colui che assuma di averlo subito in passato e non si trovi in condizioni di detenzione inumani e degradanti al momento della domanda..

Orientamenti a confronto

L'attualità del pregiudizio non è condizione necessaria ai fini dell'ammissibilità della domanda riparatoria rivolta al magistrato di sorveglianza, in quanto il richiamo contenuto nell'art. 35-ter l. 354/1975 al pregiudizio di cui all'art. 69, comma 6, lett. b), l. 354/1975, ai fini della riduzione della pena, non si riferisce al presupposto della necessaria attualità del pregiudizio medesimo

(Cass.pen., Sez. I, 11 giugno 2015, n. 43772; Cass.pen., Sez. I, 16 luglio 2015, n. 46966; Cass.pen., Sez. I, 16 luglio 2015, n. 873; Cass.pen., Sez. I, 16 luglio 2015, n. 876; Cass. pen., Sez. VII, 18 novembre 2015, ord. n. 19132, inedita).

necessaria la sussistenza del requisito dell'attualità del pregiudizio derivante da condizioni detentive inumane o degradanti ai fini dell'ammissibilità della domanda al momento della proposizione della stessa.

(Cass. pen., Sez. I, 11 giugno, n. 43727; Cass. pen. Sez. VII, 18 novembre 2015, n. 5290; Cass. pen., Sez. VII, ord. 1 luglio 2015, n. 3291)

Condizioni di detenzione tali da violare l'art. 3 Cedu, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Come sopra detto, le posizioni giuridiche sostanziali cui l'art. 35-ter ord. pen. offre tutela compensativa non sono individuate dalla normativa nazionale ma dalla Cedu.

La norma prevede, infatti, che laddove il pregiudizio di cui all'art. 69, comma 6, lettera b) della l. 354/1975 consista in condizioni tali da violare l'art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo e si sia protratto per un periodo di tempo non inferiore a quindici giorni (Per l'approfondimento di tale presupposto sostanziale di attivazione del reclamo compensativo si rinvia FALCONE, Rimedio compensativo e sovraffollamento carcerario).

Riparto di competenza tra magistratura di sorveglianza e tribunale civile

Due sono le tipologie di rimedi risarcitori tracciate dall'art. 35-ter ord. pen.

La tipologia è azionabile davanti al magistrato di sorveglianza territorialmente competente in relazione all'istituto penitenziario in cui si è ristretti al momento della domanda. Coloro i quali assumano essere stati ristretti in condizioni di detenzione tali da violare l'art. 3 della Convenzione Edu possono presentare istanza al magistrato di sorveglianza finalizzata ad ottenere un risarcimento del pregiudizio patito, previsto principalmente in forma specifica e consistente nella riduzione della pena detentiva ancora da espiare nella misura di un giorno per ogni dieci di pena già eseguita; qualora tale tipo di risarcimento non sia possibile perché il periodo di pena ancora da espiare sia tale da non consentire la detrazione dell'intera misura percentuale prima indicata, il magistrato di sorveglianza liquida altresì al richiedente, in relazione al residuo periodo , una somma di denaro pari a € 8,00 per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio. Altrettanto accade laddove il periodo di detenzione in violazione dell'art. 3 Cedu sia stato inferiore ai quindici giorni.

La seconda tipologia è azionabile davanti al giudice civile da coloro che hanno subito il suddetto pregiudizio a causa di una misura cautelare in carcere non computabile nella pena da espiare, nonché da coloro che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere, i quali possono proporre personalmente o tramite difensore munito di procura speciale, azione avanti il tribunale del capoluogo del distretto in cui hanno la residenza, entro sei mesi dalla cessazione della pena detentiva o della custodia cautelare. Il tribunale, con procedimento camerale previsto dall'art. 737 e seguenti c.p.c., decide in composizione monocratica con decreto non reclamabile, liquidando un risarcimento pari a € 8,00 per ogni giorno in cui si è accertato il pregiudizio.

Alcuni casi controversi riguardano coloro che al momento della presentazione dell'istanza davanti al magistrato di sorveglianza siano detenuti medio tempore ed al momento della decisione siano stati scarcerati ovvero soggetti che, tuttora in esecuzione di pena, siano stati ammessi ad una delle misure alternative alla detenzione, quali detenzione domiciliare, esecuzione domiciliare ex l.199/2010, affidamento in prova al servizio sociale o terapeutico (art. 94, d.P.R. 309/1990, al differimento dell'esecuzione della pena, alla sospensione della pena (art. 90 d.P.R. 309/1990) o alla liberazione condizionale. Appare evidente, da un'attenta lettura delle disposizioni normative, che la liquidazione può essere riconosciuta soltanto in via residuale laddove la pena detentiva residua non sia suscettibile di essere ridotta integralmente. Peraltro, la previsione della competenza del giudice civile a conoscere della questione e liquidare il risarcimento del danno nella misura prevista al comma 2 dell'articolo 35-ter ord. pen. per coloro che hanno subito il pregiudizio di cui al comma 1, è riservata a coloro che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere. In questi casi, a rigore, poiché il criterio di liquidazione della somma di denaro previsto dall'art. 35-ter, comma 2, l.354/1975 è subordinato alla mancata e parziale capienza della pena ancora da espiare, il magistrato di sorveglianza non potrebbe direttamente procedere alla liquidazione della somma di denaro L'eventuale pronuncia sarebbe contraria al riparto di competenza, con un'illegittima attribuzione di una competenza diretta in materia risarcitoria al magistrato di sorveglianza, che non può trovare spazio nell'attuale riparto delle competenze tra giudice civile e magistrato di sorveglianza, come affermato dalla Corte di cassazione, Sez. I, 15 gennaio 2013, n. 4772 (in senso conforme, tribunale di sorveglianza di Sassari, ord. n. 685/16 del 16 giugno 2016; tribunale di sorveglianza di Bari, ord. n. 1032/16 del 19 aprile 2016).

In evidenza

Con sentenza Corte cost. n. 204/2016 depositata in data 21 luglio 2016, la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione al rimedio compensativo in favore degli ergastolani (che abbiano già maturato il limite di pena per accedere ai benefici penitenziari). Con questa recentissima sentenza interpretativa di rigetto ha proposto la interpretazione adeguatrice nel caso sottoposto allo scrutinio di legittimità secondo la quale possa disporsi unicamente il risarcimento economico da parte del magistrato di sorveglianza, e quindi la liquidazione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno quando la riduzione della pena, prevista in via principale, sia del tutto inutile. Deve tuttavia rilevarsi che la liquidazione economica come principale mezzo risarcitorio interviene nel caso di specie sempre nei confronti di persona che al momento della decisione si trova detenuto in carcere ed è sottoposto alla competenza del magistrato di sorveglianza. Appare pertanto ancora controverso che l'interpretazione suggerita dalla Corte costituzionale abbia riconosciuto la competenza del magistrato di sorveglianza a liquidare anche le istanze risarcitorie presentate da coloro che al momento della decisione si trovino in stato di libertà o ammesse a misure alternative alla detenzione.

Procedura davanti alla magistratura di sorveglianza

Per le domande che rientrano nella cognizione del magistrato di sorveglianza si ritiene che il modello procedimentale sia quello previsto per il reclamo giurisdizionale di cui all'art. 35-bis l. 354/1975.

Ciò in quanto il comma 1 dell'art. 35-ter l. 354/1975 rinvia all'art. 69, comma 6, lett. b),l. 354/1975secondo cui il magistrato di sorveglianza applica il procedimento di cui all'art. 35-bis l. 354/1975, per decidere sui reclami dei detenuti ed internati relativi ai pregiudizi all'esercizio di diritti, che derivino dalla inosservanza da parte dell'amministrazione penitenziaria dell'ordinamento penitenziario.

Il reclamo giurisdizionale introdotto con l'art. 35-bis l. 354/1975, si svolge secondo le disposizioni di cui agli artt. 666 e 678 c.p.p. Nonostante il richiamo all'art. 678 c.p.p., lo schema procedimentale del reclamo giurisdizionale introdotto con l'art. 35-bis l. 354/1975si distingue dal procedimento di sorveglianza in senso stretto; quest'ultimo è caratterizzato dalla procedibilità d'ufficio, mentre quello in esame prende avvio dall'istanza dell'interessato che, sebbene non sia necessaria una forma specifica, deve indicare almeno oggetto e titolo giuridico del domandare (petitum e causa petendi).

Il procedimento disciplinato dall'art. 35-bis l. 354/1975 contempla un doppio grado sul merito, con pieno contraddittorio tra le parti. Il primo comma prevede, infatti, che Salvi i casi di manifesta inammissibilità della richiesta a norma dell'art. 666, comma 2, c.p.p., il magistrato di sorveglianza fissa l'udienza e ne fa dare avviso anche all'amministrazione interessata che ha diritto di comparire ovvero di trasmettere osservazioni e richieste. Pertanto, la decisione sul reclamo-istanza deve essere adottata dal magistrato di sorveglianza all'esito dell'udienza camerale, nel contraddittorio delle parti. Detta decisione è impugnabile (comma 4) attraverso il reclamoal tribunale di sorveglianza, introdotto dalla l. 10/2014 in sede di conversione del d.l. 146/2013.

Avverso il provvedimento di inammissibilità adottato de plano dal magistrato di sorveglianza, unico mezzo di impugnazione potrà essere il ricorso per cassazione e non il reclamo al tribunale di sorveglianza nel contradditorio delle parti. Ciò per evitare la perdita di un grado di merito, che si potrebbe concretizzare convertendo la doglianza in reclamo dinanzi al tribunale di sorveglianza.

Avverso le ordinanze emesse dal tribunale di sorveglianza è ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge. I termini per proporre impugnazione sono di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell'avviso di deposito del provvedimento del magistrato di sorveglianza avanti il tribunale di sorveglianza e parimenti di quindici giorni per depositare ricorso per cassazione (solo per violazione di legge) avverso le pronunce emesse dal tribunale di sorveglianza, termine previsto dall'art. 585, comma 1, lettera a) c.p.p.

Procedura davanti al tribunale civile

L'azione in sede civile è proponibile avanti al tribunale del capoluogo del distretto in cui il danneggiato ha la residenza secondo la procedura ex art. 737 c.p.c. in cui è consentita la difesa personale, sebbene vi siano adempimenti introduttivi del giudizio.

L'azione può essere proposta da coloro che hanno subito il pregiudizio durante un periodo di custodia cautelare non seguita da condanna a pena detentiva, da soggetti che abbiano terminato il periodo di espiazione della pena detentiva o della misura di sicurezza e solo successivamente si siano determinati a chiedere il risarcimento, da soggetti ammessi ad espiare la pena in misura alternativa. Coloro che alla data di entrata in vigore del decreto legge hanno cessato di espiare la pena detentiva o non si trovano più in stato di custodia cautelare in carcere devono proporre l'azione entro il termine di decadenza di sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere. Il procedimento in esame non prevede un termine a comparire, con applicazione in via analogica del termine di 30 giorni di cui all'art. 702-bis, 3 comma, c.p.c. Particolarmente interessante la questione relativa all'onere probatorio, considerato che i principi applicabili sono quelli della vicinanza della prova e di non contestazione. Per il principio di vicinanza, l'onere della prova spetta alla parte che si trova nelle condizioni più semplici per dimostrare il fatto controverso. Per il principio di non contestazione di cui all'articolo 115 c.p.c., il giudice può ritenere provati i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita.

Il giudice può sempre esercitare una funzione istruttoria mediante i propri poteri istruttori. Occorre però ribadire che l'azione de qua rientra pur sempre nell'ambito delle controversie che si svolgono dinanzi al giudice nazionale ed è quindi assoggettata alle vigenti regole sull'onere della prova, mentre la procedura prevista dalla Convenzione non si presta sempre ad un'applicazione rigorosa del principio affermanti incubit probatio, in quanto inevitabilmente il governo convenuto è talvolta l'unico ad avere accesso alle informazioni che possono confermare o meno le affermazioni del ricorrente.

Per quanto riguarda la regolazione delle spese del procedimento, pare applicabile la disciplina di cui gli artt. 91 e ss. c.p.c., considerato che proprio ai fini dell'effettività del ricorso le spese di giustizia non devono gravare indebitamente la posizione dei ricorrenti. Il provvedimento conclusivo della procedura davanti al giudice civile è emesso sotto forma di decreto, immediatamente esecutivo e non soggetto a reclamo, ma ricorribile per cassazione.

Prescrizione e decadenza

Prescrizione quinquennale. Secondo dottrina e giurisprudenza maggioritarie, la normativa in esame non ha introdotto nell'ordinamento un nuovo illecito civile, poiché, già prima del d.l. 92/2014 la violazione del diritto ad una detenzione conforme all'art. 3 Cedu costituiva un danno ingiusto risarcibile ex art. 2043 c.c. Tale orientamento trova conforto nella giurisprudenza di legittimità, (Cass.pen., 15 gennaio 2013, n. 4772, cit.), la quale aveva affermato, nel negare una competenza risarcitoria in capo alla magistratura di sorveglianza, la risarcibilità di quella lesione da parte del giudice civile. Invero, il d.l. 92/2014 ha introdotto soltanto una nuova disciplina per il risarcimento di questo specifico danno, la quale, in quanto lex specialis, viene a sostituirsi (e non ad affiancarsi) all'ordinaria disciplina del risarcimento del danno aquiliano. Disciplina che prevede una deroga evidente alla regola generale di riparto delle competenze giurisdizionali, con il riconoscimento al magistrato di sorveglianza di una significativa competenza in materia risarcitoria, in luogo del giudice civile, che trova una spiegazione sistematica, non tanto nel fatto che il magistrato di sorveglianza può considerarsi il giudice naturale del diritti dei detenuti ma, soprattutto, in considerazione della specificità del risarcimento riservato a chi sia ancora in stato detentivo, consistente nella detrazione di un numero di giorni di pena proporzionale alla durata del pregiudizio subito.

La qualificazione, dell'azione de qua come risarcitoria e non indennitaria consente di individuare, quale termine prescrizionale ex art. 2947 c.c., il compimento del quinto anno anteriore alla proposizione dell'istanza o dal primo atto interruttivo.

“Contatto sociale”: prescrizione decennale. Parte della giurisprudenza ha ravvisato la sussistenza di un rapporto contrattuale tra amministrazione e detenuto, benché quest'ultimo non presti il consenso all'esecuzione penale, neppure in modo tacito o per comportamento concludente. Però, poiché sorgono in capo all'amministrazione obblighi specifici di contenuto positivo che possono considerarsi fonti di obbligazioni ai sensi dell'art. 1173 c.c. (ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell'ordinamento giuridico) e dalla cui violazione deriva una responsabilità che non ha natura generica, troverà applicazione il termine prescrizionale ordinario decennale.

Trattandosi di un rapporto giuridico di durata, il dies a quo del decorso della prescrizione per far valere il pregiudizio nel corso di un rapporto di durata non coincide con il momento di esaurimento della condotta abusiva, ma con quello della cessazione del rapporto stesso. La violazione dell'art. 3 Cedu, costituendo un fatto ingiusto, produttivo di un danno risarcibile resta in ogni caso azionabile con gli ordinari strumenti civilistici.

In forza del principio actio nondum nata non praescribitur, contenuto nell'art. 2935 c.c., la possibilità di decorso della prescrizione da data anteriore a quella in cui la relativa pretesa è divenuta azionabile sarebbe, ad avviso di una parte della giurisprudenza della magistratura di sorveglianza, preclusa.

Indennizzo e decadenza: non operatività della prescrizione. A sostegno della natura indennitaria del rimedio risarcitorio deporrebbero, secondo parte della dottrina e della giurisprudenza, i seguenti aspetti peculiari: la competenza del magistrato di sorveglianza e non del giudice civile; l'assenza di formalità della domanda introduttiva e di richiamo alle disposizioni civilistiche in materia di assunzione e valutazione delle prove, nonché di prescrizione; assenza di qualsiasi riferimento alla “condanna” del soccombente; assenza di una disciplina delle spese. La tesi giurisprudenziale che afferma la natura indennitaria del rimedio in esame porta a ritenere esclusa l'operatività della prescrizione, in presenza di un termine di decadenza. Si afferma che poiché un diritto si prescrive quando ancora è possibile compiere l'azione prevista dall'ordinamento per impedire la decadenza dallo stesso, l'incompatibilità esistente tra i due istituti della prescrizione e della decadenza esclude che la prima possa essere invocata nel reclamo in esame. Sulla compatibilità tra prescrizione e decadenza la Corte di cassazione a Sezioni unite con la sentenza n. 16783 del2 ottobre 2012, ha affermato il principio di diritto della incompatibilità tra prescrizione e decadenza applicabile in fattispecie riguardante l'indennizzo previsto dalla l. 24 marzo 2001, n. 89, c.d. legge Pinto.

Pertanto, il soggetto dimesso dall'istituto di pena ha sei mesi di tempo dalla cessazione dello stato di detenzione per proporre il reclamo risarcitorio, trascorsi i quali può farlo valere mediante l'ordinaria azione civile.

La compensazione

In sede civile parrebbe ammissibile la possibilità di dedurre in compensazione il credito vantato dall'Amministrazione in relazione alle spese di mantenimento in carcere, in caso di eventuale accoglimento della domanda risarcitoria. L'esigibilità per le spese di mantenimento in carcere decorre dal momento della cessazione dello stato di detenzione.

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