Il danno morale e l’aspetto dinamico relazionale del danno biologico: riflessioni critiche e ricadute sulla TUN
12 Marzo 2025
Premessa Per il Giurista il danno morale (trattandosi di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale) ha sempre mantenuto in toto - anche nel danno non patrimoniale - la propria autonomia ontologica e non può quindi essere confuso né con il danno biologico statico né con l'aspetto dinamico relazionale del medesimo, prescindendo pertanto dalla valutazione medico legale. La differenza sostanziale dei due tipi di sofferenza giustifica la scelta operata dalla TUN: il danno morale “pesca” nella seconda apposita tabella (oltre quella prevista per il mero danno biologico statico) mentre per il danno dinamico relazionale si deve applicare la previsione contenuta nell'art. 138 cod. ass. L'evoluzione del “pensiero” tecnico medico legale ha evidenziato alcune criticità insite nel concetto di danno biologico relative all'assenza di connessione diretta tra disfunzionalità e ricaduta della stessa, non solo sugli aspetti dinamico relazionali, ma anche sulla effettiva gravità del “bene salute“, che costituisce presupposto liquidativo anche per il danno morale. Soprattutto nella TUN, data la scomparsa di un “automatismo liquidativo” IP/DM. Disallineamento che consiglierebbe, ora, un supporto tecnico medicolegale (doppio binario valutativo) per riequilibrare il sistema e favorirne l'applicazione anche nelle fasi extragiudiziarie. Il processo di riaffermazione dell'autonomia ontologica del danno morale Una ricognizione giurisprudenziale del danno morale non può non partire dal 2008 dalle note sentenze di San Martino, con la quale le Sezioni Unite della Corte di cassazione proponevano una quantificazione unitaria del danno non patrimoniale. Con tale arresto veniva in primo luogo superata la tradizionale concezione del cd. danno morale soggettivo di carattere transeunte, rilevandosi che l'effetto penoso, cagionata dal reato, ben può protrarsi anche per un più lungo periodo ed essere anche permanente (Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975). Nell'ambito così di una quantificazione omnicomprensiva del danno non patrimoniale, veniva poi precisata la natura asseritamente descrittiva della formula "danno morale”, che non individua: «una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento (…) In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza, Corte Cost. 11 luglio 2003, n. 233. Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno» (Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008 n. 26972). Come conseguenza dell'abbattimento delle tradizionali categorie, in cui si componeva il danno non patrimoniale, si è assistito ad un primo momento di reale confusione dogmatica, arrivandosi addirittura ad affermare l'inesistenza della stessa differenza ontologica tra il danno morale e quello biologico (cfr. Cass. civ., sez. III, 30 aprile 2009, n. 10123), con un inevitabile assorbimento del primo nel secondo (Cass. civ., sez. III, 24 ottobre 2011, n. 21999; Cass. civ., sez. III, 13 luglio 2011, n. 15373) e censura, per indebita duplicazione, del congiunto risarcimento delle due voci. Immediata è stata però la reazione della stessa Corte di cassazione, che ha richiamato il giudice di merito all'imprescindibile necessità di una rigorosa valutazione dell'effettivo pregiudizio sul valore-uomo determinato dal fatto illecito (al fine di valutare l'effettiva identità e/o la diversità del danno), al di là di un semplicistico approccio nominalistico (cfr. Cass. civ., sez. III, 14 settembre 2010, n. 19517; Cass. civ., sez. III, 24 marzo 2011, n. 6750; Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2011, n. 11609; Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2011, n. 11609). Si è così affermato che: «al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato erroneamente sottostimato, rileva non il nome assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall'attore (biologico, morale, esistenziale), ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice. Si ha, pertanto, duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia liquidato due volte, sebbene con l'uso di nomi diversi»: Cass. civ., sez. III, 13 maggio 2011, n. 10527). Ed invero, essendo il danno non patrimoniale una categoria unitaria ed omogenea, le distinzioni tradizionali (come quella tra danno morale e danno biologico) possono continuare ad essere utilizzate: «al solo fine di indicare in modo sintetico quali tipi di pregiudizio il giudice abbia preso in esame al fine della liquidazione, e mai al fine di risarcire due volte il medesimo pregiudizio, sol perché chiamato con nomi diversi» (Cass. civ., sez. III, 19 febbraio 2013 n. 4043). Più precisamente, veniva fornita una più attenta interpretazione della richiamata decisione delle Sezioni Unite, rilevando che: «ritenuto che le espressioni danno esistenziale, danno biologico e danno morale non esprimono distinte categorie di danno, né, tantomeno, può considerarsi che l'una sia sottocategoria dell'altra, trattandosi, piuttosto, di locuzioni meramente descrittive di un'unica categoria di danno che è quella del danno non patrimoniale, identificabile nel danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica, è da ritenere, altresì, in conformità alle cc.dd. sentenze di San Martino, che, in tema di danno alla persona, il riconoscimento del carattere omnicomprensivo del risarcimento del danno non patrimoniale non può andare a discapito del principio della integralità del risarcimento medesimo, rimanendo rimesso al giudice l'accertamento dell'effettiva identità del danno causato, a prescindere dal nome attribuitogli, e della sua reale consistenza, per procedere alla sua integrale riparazione» (Cass. civ., sez. III, 14 gennaio 2014 n. 531). Ed è all'interno di tale solco che ha ripreso ad essere risarcito, al di là dell'etichetta assegnata, il pregiudizio del dolore interiore, corrispondente alla classica denominazione di danno morale (Cass. civ., sez. III, 22 agosto 2013, n. 19402; Cass. civ., sez. III, 3 ottobre 2013 n. 22585; Cass. civ., sez. III, 9 giugno 2015, n. 11851). L'inevitabile approdo è stato quello della rinnovata affermazione dell'incontestata autonomia sostanziale del danno morale rispetto al differente danno biologico (Cass. civ., sez. III, 16 febbraio 2012, n. 2228; Cass. civ., sez. III, 13 dicembre 2012, n. 22909), e ciò anche a fronte della previsione normativa del danno morale. Si è rilevato infatti che: «in tema di liquidazione del danno, la fattispecie del danno morale, da intendersi come "voce" integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale, trova rinnovata espressione in recenti interventi normativi (e, segnatamente, nel d.P.R. n. 37/2009 e nel d.P.R. n. 181/2009), che distinguono, concettualmente, ancor prima che giuridicamente, tra la "voce" di danno cd. biologico, da un canto, e la "voce" di danno morale, dall'altro, con la conseguenza che di siffatta distinzione, in quanto recata da fonte abilitata a produrre diritto, il giudice del merito non può prescindere nella liquidazione del danno non patrimoniale» (Cass. civ., sez. III, 12 settembre 2011 n. 18641). Così, già dal 2012, in maniera piana ed incontestata, si tornava ad affermare che: «il danno biologico (cioè la lesione della salute), quello morale (cioè la sofferenza interiore) e quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile esistenziale, e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l'illecito abbia violato diritti fondamentali della persona) costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili; né tale conclusione contrasta col principio di unitarietà del danno non patrimoniale, sancito dalla sentenza Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, giacché quel principio impone una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti» (Cass. civ., sez. III, 20 novembre 2012, n. 20292; in termini simili: Cass. civ., sez. III, 11 ottobre 2013, n. 23147; Cass. civ., sez. III, 20 maggio 2016, n. 10414; Cass. civ., sez. III, 31 ottobre 2017, n. 25817). Si specificava infatti la differenza tra i due tipi di sofferenza coinvolgenti due diversi tipi di danno: «il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest'ultimo e va liquidato autonomamente, non solo in forza di quanto normativamente stabilito dall'art. 5, lett. c), d.P.R. n. 37/2009, ma in ragione della differenza ontologica fra le due voci di danno, che corrispondono a due momenti essenziali della sofferenza dell'individuo: il dolore interiore e la significativa alterazione della vita quotidiana» (Cass. civ., sez. III, 30 luglio 2015, n. 16197). Da allora, innumerevoli sono le pronunce della Corte di Cassazione in ordine all'autonoma risarcibilità del danno morale, caratterizzato da una propria e specifica individualità sostanziale, in concorrenza con il risarcimento del danno biologico (Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 2018 n. 901). E' stata così riconosciuta evidente la differenza tra il danno biologico e quello morale (individuabile unicamente in presenza di reato e consistente nella lesione dell'integrità della persona di cui all'art. 2 Cost.). Si è affermato infatti che:
Peraltro la Corte di Cassazione “benedicendo” le nuove tabelle del 2009 del Tribunale di Milano (nel cui valore del punto è stata inglobata anche una valutazione standard del danno morale e delle ripercussioni dinamiche) ha riconosciuto l'esistenza del danno morale come voce integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale (Cass. civ., sez. III, 12 settembre 2011, n. 18641), pur tenendo ferma la distinzione concettuale tra danno biologico e danno morale (Cass. civ., sez. III, 27 aprile 2018, n. 10156). Si può concludere pertanto che il danno morale (da intendersi quale sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale) mantiene, nonostante una quantificazione unitaria del danno non patrimoniale, una propria autonomia ontologica e non può essere confuso né nel danno biologico né nell'aspetto dinamico relazionale del medesimo. L'estraneità della valutazione medico legale: il dentro e il fuori L'affermazione della piena autonomia del danno morale, rispetto al danno biologico, comporta la definitiva sua uscita dall'orbita medico legale sia per il relativo accertamento che per la conseguente quantificazione. Ed invero il danno morale attiene unicamente alla sofferenza soggettiva causata da reato (Cass. civ., sez. III, 26 luglio 2024, n. 21037), aspetto che non può confondersi con la differente sofferenza di carattere psico/fisica conseguente alla menomazione, che si aggiunge, come ulteriore contenuto, alla lesione biologica di interesse medico legale. Il medico si occupa del corpo (o della psiche) ma mai e poi mai dell'aspetto morale, aspetto squisitamente giuridico. Così l'aspetto morale non può essere attratto, come quello della sofferenza fisica o psichica, nel più generale campo biologico. Ciò risulta incontestabile dal semplice confronto della definizione normativa (alla quale il Giudice è ovviamente vincolato) del danno biologico e del danno morale («la determinazione della percentuale del danno morale (DM) viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della sofferenza e del turbamento dello stato d'animo , oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all'evento dannoso»). Peraltro la stessa giurisprudenza di legittimità, riprendendo coerentemente un proprio precedente percorso argomentativo (cfr. Cass. civ., sez. III, 10 marzo 2008, n. 6288; Cass. civ., sez. III, 15 marzo 2007, n. 5987; Cass. civ., sez. lav., 12 maggio 2006, n. 11039; Cass. civ., sez. III, 12 luglio 2006, n. n. 15760), individua un contenuto del danno morale completamente svincolato dall'aspetto medico legale. La Corte di cassazione ha così precisato che con il termine "danno morale" si allude «a una realtà che (diversamente dal danno biologico) rimane in sé insuscettibile di alcun accertamento medico-legale e si sostanzia nella rappresentazione di uno stato d'animo di sofferenza interiore del tutto autonomo e indipendente (pur potendole influenzare) dalle vicende dinamico-relazionali della vita del danneggiato» (Cass. civ., sez. III, 13 maggio 2024, n. 12943; Cass. civ., sez. III, 21 settembre 2023, n. 26985; Cass. civ., sez. III, 12 marzo 2021, n. 7126; Cass. civ., sez. III, 12 ottobre 2020, n. 21970; Cass. civ., sez. III , 4 febbraio 2020, n. 2461; Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2020, n. 25164). Il danno morale non ha quindi una base organica, essendo rappresentata da una sofferenza puramente interiore quali, ad esempio,«dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione)» (Cass. civ., sez. III, 27 luglio 2024, n. 21062; Cass. civ., sez. III, 4 febbraio 2020, n. 2464; Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28989; Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2018, n. 20795; Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2018, n. 7513) Si afferma infatti che mentre il danno biologico: «consiste in alterazioni funzionali dell'organismo suscettibili di essere documentate da rilievo medicolegali e si traduce in un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, diversamente, il danno morale è un pregiudizio non soggetto a riscontri medici, inerendo ad una sofferenza che si dispiega nel foro interno del danneggiato e che ivi si arresta. Il danno morale, infatti, consiste in uno stato d'animo di sofferenza interiore che prescinde dalle vicende dinamico relazionali della vita del danneggiato, che, tuttavia, può pure influenzare» (Cass. civ., sez. III, 9 dicembre 2024, n. 31684). E ciò è rappresentato dalla recentissima sentenza delle Sezioni Unite che ha affermato che: «nel caso del danno non patrimoniale da lesione dei diritti inviolabili della persona quel che rileva ai fini risarcitori non è la lesione in sé del diritto ma le conseguenze pregiudizievoli che ne derivano, nella doppia dimensione del danno relazionale/proiezione esterna dell'essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza» (Cass. civ., sez. un., 6 marzo 2025, n. 5992). Al fine di marcare in maniera più adeguata il discrimine, ed anche la differente “giurisdizione” del giudice e del proprio ausiliario medico legale, si può utilizzare il binomio dentro/fuori. A tale effetto si rileva che: «il danno non patrimoniale si manifesta nella doppia dimensione del danno dinamico-relazionale (proiezione esterna dell'essere) e del danno morale (interiorizzazione intimista della sofferenza)» (Cass. civ., sez. III, 26 novembre 2024, n. 30461; Cass. civ., sez. III, 1° marzo 2024, n. 5547; Cass. civ., sez. lav., 18 febbraio 2020, n. 4099; Cass. civ., sez. III, 31 gennaio 2019, n. 2788; Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2018, n. 7513; Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 2018, n. 901; Cass. civ., sez. III, 14 novembre 2017, n. 26805; Cass. civ., sez. III, 20 aprile 2016, n. 7766; Cass. civ., sez. III, 9 giugno 2015, n. 11851). In altri termini: «nella valutazione del danno alla salute, in particolare — ma non diversamente che in quella di tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un valore/interesse costituzionalmente protetto — il giudice dovrà valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale (che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con se stesso), quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell'ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce "altro da sé")» (Cass. civ., sez. III, 29 marzo 2019, n. 8755). Ogni lesione quindi ha una ripercussione all'interno (morale) ed all'esterno (relazionale). Il primo aspetto non interessa ( e non può interessare) il medico legale, che è invece è chiamato a dare un importante contributo al secondo. Ed invero a differenza di quanto detto per il vero e proprio danno morale, la c.d. personalizzazione è un campo nel quale deve e può svolgersi l'azione del medico legale, al fine di dare elasticità al risarcimento parametrandolo all'individuo specifico. Si tratta cioè di quelle sofferenze fisiche e/o psichiche, conseguenti alla lesione subita, che costituiscono un ulteriore e distinto (rispetto alla sofferenza morale) contenuto del danno non patrimoniale. Ed è evidente l'irresistibile attrazione di tale dimensione all'ambito del danno biologico, tanto che negli ultimi tempi si è assistita, nella riflessione medico-legale, all'elaborazione di scale e/o strumenti tecnici in grado di rappresentare il grado di sofferenza, monitorando per esempio la durata delle cure, il tipo di terapia farmacologica e non impiegata per lenire il dolore fisico; il tipo di presidio ortopedico-chirurgico posizionato per curare la lesione; il tipo di intervento chirurgico; il grado di impedimento e rinuncia all'estrinsecazione delle attività quotidiane. Pertanto, nel procedere all'accertamento ed alla quantificazione del danno risarcibile (oltre al danno morale vero e proprio), dovranno essere distintamente valutati -per gli aspetti non rientranti nel mero danno biologico statico- le ripercussioni dinamico-relazionale, destinate ad incidere negativamente sull'ambito esterno della vita del soggetto (Cass. Civ. 13 aprile 2018 n. 9196; Cass. Civ. 19 luglio 2018 n. 19151), procedendo ad incrementare il risarcimento in presenza di circostanze peculiari (cfr. Cass. civ., sez. III, 30 ottobre 2018, n. 27482). Evidente in questo caso l'apporto fondamentale del medico legale. Così il giudice: «dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l'aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto, modificativo in pejus , con la vita quotidiana (il danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell'accertamento e della quantificazione del danno risarcibile - alla luce dell'insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 235 del 2014) e dell'intervento del legislatore (artt. 138 e 139 cod. ass. , come modificati dalla l. n. 124 del 2017 ) - è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti» (Cass. civ., sez. III, 26 novembre 2024, n. 30461). Il metodo tabellare per la quantificazione del danno La corretta individuazione della natura del danno morale e l'estraneità dello stesso dalle ricadute dinamiche e relazionali ha ovviamente precise conseguenze in ordine alle modalità risarcitorie, e più precisamente, all'utilizzo degli strumenti risarcitori apprestati. Deve così escludersi che per il risarcimento del danno morale possa essere utilizzata la percentuale aggiuntiva (c.d. “personalizzazione”) previsto dall'art. 138 cod. ass. (pari al massimo al 30%), deputata infatti esclusivamente all'aspetto dinamico-relazione o sofferenza psico-fisica. A tale effetto si è infatti affermato che: «l'aumento personalizzato del danno biologico è circoscritto agli aspetti dinamico-relazionali della vita del soggetto in relazione alle allegazioni e alle prove specificamente addotte, del tutto a prescindere dalla considerazione e dalla risarcibilità del danno morale. In altri termini, se le tabelle del danno biologico offrono un indice standard di liquidazione, l'eventuale aumento percentuale sino al 30%, ex art. 138 d.lg. n. 209 del 2005, sarà in funzione della dimostrata peculiarità del caso concreto in relazione al vulnus arrecato alla vita di relazione del soggetto. Altra e diversa indagine andrà compiuta in relazione alla patita sofferenza interiore, senza che ciò costituisca un automatismo risarcitorio» (Cass. civ., sez. III, 20 aprile 2016, n. 7766; Cass. civ., sez. III, 31 gennaio 2019, n. 2788; Cass. civ., sez. III, 9 dicembre 2024, n. 31684; Cass. civ., sez. III, 25 gennaio 2024, n. 2433). Ciò risulta ora ben chiaro nelle modalità costruttive della Tabella Unica Nazionale, ove è prevista una tabella specifica per il danno biologico ed una per il danno morale, affidando gli aspetti personalizzanti (le ricadute relazionali) alla previsione di cui all'art. 138 cod. ass. E' un'ulteriore conferma della circostanza per la quale la facoltà equitativa del Giudice, prevista dall'art. 138 cod. ass., può essere operata solo nell'ambito del danno biologico (qualora la menomazione accertata «incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati») e non con riferimento al danno morale (ontologicamente diverso dal danno biologico e quindi estraneo alla valutazione del medico legale). Per la liquidazione di quest'ultimo andranno quindi applicati i diversi coefficienti moltiplicativi, contenuti nella c.d. tabella del danno morale, previsti dalla TUN. Come rilevato dal parere Cons. Stato, 15 ottobre 2024, n. 1282, la nuova tabella nazionale prevede infatti, accanto al riconoscimento del mero danno biologico, la concorrente quantificazione della «componente del danno morale (da intendersi qui, in assenza di definizione positiva ed in conformità alla elaborazione giurisprudenziale, in termini di sofferenza interiore ed essenzialmente idiosincratica dell'uomo in rapporto con sé stesso: cfr., tra le molte e da ultimo, Cass., sez. III, 13 maggio 2024)». Viene confermata la natura autonoma del danno morale, rispetto a quello biologico, escludendola quindi dalla valutazione medico-legale. Il risarcimento è concorrente e non alternativo a quello del biologico. In altre parole il risarcimento del danno morale (a differenza di quella prevista dall'art. 138 cod. ass.) ha carattere qualitativo (afferendo ad un danno autonomo e differente) e non quantitativo. Le tabelle milanesi, nella loro ultima formulazione, prevedevano un incremento percentuale fisso progressivo, in correlazione al grado di invalidità (dal 26 per cento per l'invalidità al 10 per cento fino al 10 per cento a partire dal 34 per cento di invalidità, fino al 100 per cento). Diversa è stata l'opzione preferita dallo schema normativo che – mutuando dalle tabelle romane il sistema delle fasce di oscillazione dei valori incrementali, da un minimo a un massimo – ha previsto, per ogni livello di invalidità, un incremento minimo, un incremento medio ed uno massimo. A tale riguardo si deve rilevare il limite di una previsione automatica di risarcimento del danno morale, in forma di percentuale (inferiore) di quello biologico, avendo la Corte di Cassazione, più volte affermato che, dovendosi tener conto delle condizioni soggettive della persona umana e della gravità del fatto, non è concepibile che: «possa quantificarsi il valore dell'integrità morale come una quota minore proporzionale al danno alla salute, sicché vanno esclusi meccanismi semplificativi di liquidazione di tipo automatico» (Cass. civ., sez. III, 10 marzo 2010, n. 5770; in termini simili: Cass. civ., sez. III, 16 febbraio 2012, n. 2228; Cass. civ., sez. III, 11 giugno 2009, n. 13530; Cass. civ., sez. III, 13 febbraio 2013, n. 3582). A tale proposito si è comunque ritenuto che la tabella milanese, includendo nel punto base la componente prettamente soggettiva data dalla sofferenza morale conseguente alla lesione, opera non sulla percentuale di invalidità, bensì mediante un aumento equitativo della corrispondente quantificazione, nel senso di dare per presunta, secondo l'id quod plerumque accidit l'esistenza presuntiva di un tale tipo di pregiudizio (Cass. civ., sez. III, 6 marzo 2014, n. 5243). La prova del danno morale Le Sezioni Unite, nella richiamata sentenza del 2008, rilevavano che «attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, Cass. civ., sez. lav., 6 luglio 2002, n. 9834). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto» (Cass. civ., sez. un.,11 novembre 2008, n. 26972). Ed invero si afferma che: «La dimensione eminentemente soggettiva e interiore del danno morale comporta che la sua esistenza non corrisponde sempre a una fenomenologia suscettibile di percezione immediata e, quindi, di conoscenza ad opera delle parti contrapposte al danneggiato, con la conseguente necessità di una più articolata considerazione degli oneri di allegazione imposti alla parte, ai quali si accompagna la doverosa utilizzazione, da parte del giudice, della categoria delle massime di esperienza, le quali possono, da sole, fondarne il convincimento» (Cass. civ., sez. III, 24 luglio 2024, n. 20661; in termini simili: Cass. civ., sez. un., 6 marzo 2025 n. 76; Cass. civ., sez. III, 10 maggio 2018, n. 11269). La Corte di cassazione, escludendo che il danno morale possa essere considerato in re ipsa (Cass. civ., sez. III, 1 febbraio 2024, n. 3013) richiama l'importanza sia della presunzione che delle massime di comune esperienza. In ordine alla prima forma di prova precisa che: «un attendibile criterio logico-presuntivo funzionale all'accertamento del danno morale quale autonoma componente del danno alla salute è quello della corrispondenza, su una base di proporzionalità diretta, della gravità della lesione rispetto all'insorgere di una sofferenza soggettiva: quanto più grave sarà la lesione della salute, tanto più il ragionamento inferenziale consentirà di presumere l'esistenza di un correlativo danno morale, inteso quale sofferenza interiore, morfologicamente diversa dall'aspetto dinamico relazionale conseguente alla lesione stessa» (cfr. Cass. civ., sez. III, 31 dicembre 2023, n. 36574; Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2020, n. 25164). In ordine alla seconda chiarisce che: «la massima di esperienza, la quale non opera sul terreno dell'accadimento storico, ma su quello della valutazione dei fatti, è regola di giudizio basata su leggi naturali, statistiche, di scienza o di esperienza, comunemente accettate in un determinato contesto storico-ambientale, la cui utilizzazione nel ragionamento probatorio, e la cui conseguente applicazione, risultano doverose per il giudice, ravvisandosi, in difetto, illogicità della motivazione, volta che la massima di esperienza può da sola essere sufficiente a fondare il convincimento dell'organo giudicante. Deriva da quanto precede, pertanto, che nella materia del danno non patrimoniale, e segnatamente in tema di danno morale, non solo non si ravvisano ostacoli sistematici al ricorso al ragionamento probatorio fondato sulla massima di esperienza, ma tale strumento di giudizio consente di evitare che la parte si veda costretta, nell'impossibilità di provare il pregiudizio dell'essere, ovvero della condizione di afflizione fisica e psicologica in cui si è venuta a trovare in seguito alla lesione subita, ad articolare estenuanti capitoli di prova relativi al significativo mutamento di stati d'animo interiori da cui possa inferirsi la dimostrazione del pregiudizio patito» (Cass. civ., sez. lav., 12 novembre 2020, n. 25614; in termini simili Cass. civ., sez. III, 24 luglio 2024, n. 20661). Ovviamente spetta al danneggiato l'onere dell'allegazione dei fatti dai quali può emergere la sofferenza morale, al fine di far scattare poi il meccanismo probatorio della presunzione o della massima di esperienza sopra riferito (Cass. civ., sez. III, 19 febbraio 2016, n. 3260; Cass. civ., sez. III, 8 aprile 2020, n. 7753). Il giudice deve comunque tenere conto, ai fini risarcitori, di tutte le conseguenze in peius derivanti dall'evento di danno, nessuna esclusa, procedendo ad una compiuta istruttoria finalizzata all'accertamento concreto e non astratto del danno, dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, valutando distintamente, in sede di quantificazione del danno non patrimoniale alla salute, le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera interiore (c.d. danno morale, sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione) rispetto agli effetti incidenti sul piano dinamico-relazionale (Cass. civ., sez. III, 28 settembre 2018, n. 23469). La Corte di cassazione a tale proposito precisa che occorre tener conto di specifici parametri quali le condizioni soggettive della persona (Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2008, n. 29191), l'intensità e la durata della sofferenza (Cass. civ., sez. III, 11 febbraio 2009, n. 3357; Cass. civ., sez. III, 19 ottobre 2015, n. 21087) la gravità del fatto (Cass. civ., sez. III, 10 marzo 2010, n. 5770; Cass. civ., sez. III, 30 maggio 2014, n. 12265). Tale ultimo parametro induce fondatamente a ritenere che, almeno nel risarcimento del danno morale, a differenza per esempio di quello del danno biologico, possa ravvisarsi anche una componente di natura sanzionatoria. Ed invero l'affermazione dell'unica funzionalità riparatoria del risarcimento, sebbene affermata in più occasioni dalla Corte di cassazione, non pare in questo ambito seriamente sostenibile, se tra i parametri di riferimento del danno morale soggettivo si indica - come accennato precedentemente - la gravità della condotta del responsabile o il grado di colpa del medesimo. Peraltro, già nella famosa sentenza della Corte Cost., 14 luglio 1986, n. 184 si affermava in maniera esplicita che: «la scelta legislativa operata con l'emanazione dell'art. 2059 c.c. (….) discende dall'opportunità di sanzionare in modo adeguato chi si è comportato in maniera vietata dalla legge (…) è impossibile negare o ritenere irrazionale che la responsabilità civile da atto illecito sia in grado di provvedere non soltanto alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato ma fra l'altro, a volte, anche ed almeno, in parte, ad ulteriormente prevenire e sanzionare l'illecito, come avviene appunto per la riparazione dei danni non patrimoniali da reato» (Corte Cost. ,14 luglio 1986, n. 184). Tale principio peraltro non è mai stato abbandonato del tutto dalla stessa giurisprudenza di legittimità, facendo infatti periodicamente capolino nel corso degli anni in alcune significative pronunce del giudice di legittimità (cfr. Cass. civ., sez. lav., 23 febbraio 2000, n. 2037; Cass. civ., sez. III, 5 maggio 2001, n. 116). A tale riguardo degna di nota è la sentenza della Cassazione civile, successiva alle sentenze del 2008 delle Sezioni Unite, per la quale: «la parte che ha subito lesioni gravi alla salute nel corso di un incidente stradale, ha diritto al risarcimento integrale del danno ingiusto non patrimoniale (nella specie dedotto come danno morale), che deve essere equitativamente valutato tenendo conto delle condizioni soggettive della vittima, della entità delle lesioni e delle altre circostanze che attengono alla valutazione della condotta dell'autore del danno, ancorché vi sia l'accertamento del pari concorso di colpa ai sensi del secondo comma dell'art. 2054 c.c.» (Cass. civ. , sez. III, 13 gennaio 2009, n. 479; In termini simili: Cass. civ., sez. III, 18 novembre 2014, n. 24473). Come anche quella successiva delle Sezioni Unite che, facendo giustizia di un orientamento negazionista in tal senso (ossia carattere monofunzionale della responsabilità civile, avente la sola funzione di «restaurare la sfera patrimoniale» del soggetto leso), ha con saldezza affermato che: «la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non è più "incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, come una volta si riteneva, giacché negli ultimi decenni sono state qua e là introdotte disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento" (…). In sintesi estrema può dirsi che accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell'istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza) è emersa una natura polifunzionale (un autore ha contato più di una decina di funzioni), che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva» (Cass. civ., sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601). Solo attraverso l'utilizzo di tali parametri il giudice può dare adeguatamente conto del processo logico attraverso il quale perviene alla liquidazione, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo. Il mancato riferimento infatti alla gravità del fatto, alle condizioni soggettive della persona, all'entità della sofferenza e del turbamento d'animo, determina la nullità della decisione in quanto la stessa si pone al di fuori del fondamento e dei limiti di cui all' art. 1226 c.c., così da rendere impossibile il controllo dell'iter logico seguito nella relativa quantificazione (Cass. civ., sez. III, 13 settembre 2018, n. 22272). La sofferenza lesione-menomazione correlata: componente esistenziale della inabilità ed invalidità biologica La logica interpretativa della Cassazione – che fa seguito ad una consolidata elaborazione del Pensiero giuridico – è certamente ineccepibile in quanto finalizzata a definire un danno della sfera “emozionale” del danneggiato che ha subito una lesione a seguito di fatto illecito, alterando il suo equilibrio esistenziale. Quindi – come giustamente affermato – si tratterebbe di un turbamento dell'animo che si può ricondurre al ricordo dell'evento dannoso ingiustamente patito oppure un turbamento dell'animo inteso come reazione emozionale acuta (paura- patema d'animo) oppure conseguente alla convivenza con condizioni che ledono la sua dignità (disistima) oppure tale da interferire con diritti differenti dal “bene salute”. Condizioni, quindi, che non dovrebbero avere alcun rapporto diretto con gli aspetti quantitativi e qualitativi delle lesioni corporali (o psichiche ) subite né tantomeno con gli aspetti qualitativi e quantitativi della disfunzionalità psico-fisica realizzatasi in relazione ad un determinato stato “menomativo”. Le ricadute esistenziali, conseguenti a fatto illecito, che determinano un sofferenza “emozionale“ sono dunque delle autonome condizioni di danno non patrimoniale, che possono o meno coesistere con la ricaduta esistenziale conseguente alla “sofferenza” realizzatasi a seguito del “vissuto dell'esperienza lesiva” e convivenza con una determinata condizione menomativa: sofferenze esistenziali - quest'ultime - che possono definirsi presuntivamente “comuni” per ogni tipologia di lesioni e decorso clinico documentato ovvero per analogo disvalore biologico accertato , alle quali possono sovrapporsi – aggravandole – quelle specifiche di natura dinamico relazionale, realizzatesi a seguito di ricaduta della lesione o dei postumi su peculiari aspetti dinamico relazionali che riguardano quello specifico danneggiato (la cosiddetta personalizzazione). Tale presupposto troverebbe conferma giurisprudenziale (Cass. civ., sez. III, 26 luglio 2024, n. 21037). Infatti Secondo la Suprema Corte «….il danno morale attiene unicamente alla sofferenza soggettiva causata da reato: aspetto che non può confondersi con la differente sofferenza di carattere psico/fisica conseguente alla menomazione, che si aggiunge, come ulteriore contenuto, alla lesione biologica di interesse medico legale». Tuttavia , se è vero che le condizioni di sofferenza possono avere differente riferimento ontologico, il problema si presenta allorché - come nella TUN - subentra la necessità pratica di fornire i presupposti probatori necessari a definirne gli aspetti liquidativi del danno morale, nel rispetto dei principi di “integralità ed equità”. In tale ottica appare significativa la sentenza Cass civ., sez. III, 1° febbraio 2024, n. 3013 che richiama l'importanza sia della presunzione che delle massime di comune esperienza, affermando che «un attendibile criterio logico-presuntivo funzionale all'accertamento del danno morale, quale autonoma componente del danno alla salute è quello della corrispondenza, su una base di proporzionalità diretta, della gravità della lesione rispetto all'insorgere di una sofferenza soggettiva: quanto più grave sarà la lesione della salute, tanto più il ragionamento inferenziale consentirà di presumere l'esistenza di un correlativo danno morale, inteso quale sofferenza interiore, morfologicamente diversa». Partendo da questo principio “metodologico“, si deve considerare che, se la componente di sofferenza emozionale “non biologica” esula dalle competenze del medico legale, la seconda (ora svincolata da automatismi liquidativi) deve comunque necessariamente avere un preliminare inquadramento tecnico del medico legale, dato che il danno morale deve rapportarsi, secondo proporzionalità diretta, alla “gravità” della lesione. In tale prospettiva , tuttavia – si dovrà obbligatoriamente tener conto che la gravità della “sofferenza esistenziale” (cioè conseguente a lesione del bene “salute”) non ha alcun rapporto automatico con l'entità della disfunzionalità accertata (cioè l'inabilità e la invalidità biologica - v. Casistica di CTU, in Principi e guida alla valutazione medicolegale della sofferenza correlata, Minerva Medica 2024), derivandone la necessità di una integrazione qualitativa/tecnica del danno biologico, idonea ad una migliore proporzionalità risarcitoria dello stesso danno morale. La questione , in prospettiva di applicare la TUN - non è solo filosofica, ma diventa esigenza sostanziale in quanto la predetta Tabella, eliminando l'automatismo liquidativo incrementativo del danno morale IP correlato, determina la necessità di una più attenta correlazione tra componente di sofferenza “emozionale“ (danno morale) e gravità della lesione del bene salute che la sola IP non giustifica posto che le verifiche probatorie tecniche hanno consentito di accertare che:
In conclusione Stabilite tali inter-connessioni nel concetto di sofferenza, appare quindi doveroso chiarire alcuni aspetti tecnici che imporrebbero la necessità di un “doppio binario“ valutativo medico legale per ogni singola realtà lesiva e menomativa accertate, che sostanzialmente possono tradursi in una componente quantitativa (Invalidità permanente) ed in una componente qualitativa (sofferenza correlata). La distinzione tra componente quantitativa e componente qualitativa del danno biologico è necessaria in quanto la configurazione medico legale del concetto di danno biologico, quale rappresentato nell'art. 138 cod. ass., esaminata in relazione alle attuali necessità di una parametrazione risarcitoria onnicomprensiva ed equilibrata del danno non patrimoniale, deve prevedere una indicazione tecnica idonea a stabilire l'effettiva ricaduta negativa dell'invalidità permanente biologica sul peggioramento delle condizioni di vita quotidiana del danneggiato: binomio non necessariamente automatico, anzi spesso dissonante tra quanto appare accertabile e quantificabile secondo barème (come invalidità permanente biologica) rispetto alla effettiva percezione di peggioramento esistenziale conseguente agli aspetti qualitativi della menomazione accertata. La variazione percentuale della invalidità permanente biologica si basa infatti su esclusivi criteri clinico-strumentali di riferimento scientifico, ma in nessun caso l'eventuale incremento o decremento del parametro “invalidità” permanente biologica (la causa) determina tassativamente una automatica e proporzionale ricaduta negativa (effetto) sugli atti della vita quotidiana. In altri termini il solo e convenzionale parametro dell'invalidità permanente biologica non chiarisce come, quando e quanto la menomazione esercita gli effetti negativi sui comuni atti della vita quotidiana del danneggiato cui è stata riconosciuta una determinata quota di invalidità permanente biologica e, di conseguenza, non chiarisce quale sia l'effettiva gravità della lesione del bene salute. Dissonanza, questa, che appare ancor più evidente ove si debbano considerare - ai fini risarcitori - anche le ripercussioni dell'invalidità biologica (parametro quantitativo) sui comuni aspetti dinamici e relazionali, derivandone una scarsa valenza probatoria dello stesso postulato medico-legale di danno biologico, ove non integrato dal coevo parametro qualitativo(vedi E. Pedoja, Macro-invalidità e macro-danno nell'astrazione tecnica del Barème medico-legale, focus in IUS Responsabilità civile, 30 ottobre 2024). In sostanza il baréme esprime solo riferimenti percentualistici di disfunzionalità biologica rispetto al 100% della validità anatomo-psichica dell'essere umano, ma non giustifica un'automatica ricaduta sul fare personale, sul fare dinamico relazionale e sul sentire del danneggiato (aspetto, quest'ultimo, di particolare rilevanza, essendo comprese nei Bareme medico legali anche le “menomazioni dell'efficienza estetica“ che non hanno – in sé - alcuna ricaduta diretta di natura anatomo- funzionale e/o psichica rispetto alla complessiva validità biologica dell'essere umano, trattandosi, in sostanza, di un puro danno al sentire ovvero di una peculiare ricaduta dinamico relazionale. Il problema si trasferisce sugli equivalenti risarcitori che integrano qualsiasi tabella di liquidazione del danno e, in particolare, sulla attuale TUN, che si basa sul parametro della Invalidità permanente, distinguendo- senza specifici automatismi - le variabile di danno morale. La mancanza di un rapporto automatico giustifica ora la necessità – da parte dell'operatore – di avere un'ulteriore indicazione tecnica che consenta di riequilibrare il parametro convenzionale, afferente alla sola disfunzionalità biologica (cioè l'invalidità permanente), rispetto ai reali effetti esistenziali conseguenti alla convivenza con la menomazione accertata (cioè la gravità della lesione del bene salute), variabili che possono essere definite con criterio “qualitativo“ in rapporto a differenti presupposti tecnici medico legali (sofferenza correlata) e sintetizzati necessariamente con un parametro “estensivo“ che tuteli il principio di integralità del risarcimento e che, contestualmente, consenta all'operatore la possibilità di un'adeguata e consona modulazione equitativa del danno. L'esigenza di definire tale componete di danno alla persona trova evidente giustificazione proprio nell'ambito delle cosiddette “lesioni di non lieve entità”, soprattutto nella casistica di esiti compresi tra il 10 ed il 34% di IP (spesso costituiti da plurime condizioni menomative), che rappresentano oltre i 2/3 dei macro-danni, ove si consideri – per tali fattispecie - la frequente aleatorietà ed il frequente disallineamento risarcitorio del binomio “macro invalidità/-macro danno” per entrambi le componenti (danno biologico e danno morale). Tali criticità sono ancor più evidenti nei casi in cui la valutazione debba essere espressa in termini di “danno differenziale“ incrementativo (come spesso accade in contesto di responsabilità Sanitaria ove talora, ad ogni determinato incremento di disfunzionalità, non coincide – con riferimento allo stato anteriore - un automatico peggioramento né della qualità di vita né della gravità della lesione del bene salute. E, viceversa, talora possono sussistere modesti incrementi di disfunzionalità biologica che – proprio in relazione allo stato anteriore – determinano apprezzabili lesioni del bene salute e significative modifiche peggiorative della preesistente qualità di vita. E in tali distinte circostanze, l'unico supporto tecnico probatorio idoneo a fornire - nel contesto applicativo della TUN - un importante orientamento liquidativo utile nel definire la reale entità del danno non patrimoniale ( in compresa la componente di danno morale ) non può che essere la “sofferenza correlata“. |