La domanda di ammissione al passivo è l'atto con cui il creditore, che è già “concorsuale”, manifesta la volontà di divenire “concorrente”, ed ha natura di vera e propria domanda giudiziale.Coerentemente a tale natura, la legge fallimentare detta precise disposizioni in tema di forma e contenuto della domanda di ammissione, dei suoi effetti sostanziali e processuali, nonché con riguardo alle relative modalità di trasmissione, nel contesto della c.d. “digitalizzazione” delle procedure concorsuali, cui ha dato corso l'intervento riformatore di cui alla L. n. 221/2012).
Inquadramento
La domanda di ammissione al passivo è l'atto con cui il creditore, che è già “concorsuale”, manifesta la volontà di divenire “concorrente”, ed ha natura di vera e propria domanda giudiziale.
Coerentemente a tale natura, la legge fallimentare detta precise disposizioni in tema di forma e contenuto della domanda di ammissione, dei suoi effetti sostanziali e processuali, nonché con riguardo alle relative modalità di trasmissione, nel contesto della c.d. “digitalizzazione” delle procedure concorsuali, cui ha dato corso l'intervento riformatore di cui alla L. n. 221/2012).
Natura giuridica e forma della domanda
La domanda di ammissione al passivo è l'atto con cui il creditore, che è già “concorsuale”, manifesta la volontà di divenire “concorrente”, ovvero di vedere riconosciuta la propria pretesa e partecipare così alla ripartizione del patrimonio del fallito, ed ha natura di vera e propria domanda giudiziale, introduttiva di una attività cognitiva idonea a produrre il giudicato formale e sostanziale sui crediti insinuati (Cass. 9 luglio 2005, n. 14471; Trib. Milano 3 maggio 2012).
In relazione alla forma, l'art. 93, comma 2, l. fall. (come sostituito dall'art. 17 della L. n. 212/2012) dispone che il ricorso “è formato ai sensi degli articoli 21, comma 2, ovvero 22, comma 3, del decreto legislativo 7 marzo 2005 n. 82 e successive modificazioni”. Ciò significa, in sostanza, che le domande di ammissione al passivo dovranno essere predisposte dal ricorrente secondo due diverse, ed alternative, modalità digitali:
in forma di documento informatico sottoscritto con firma elettronica digitale o altro tipo di firma elettronica avanzata, ovvero
in forma di copia informatica di documento analogico: in altri termini l'interessato può redigere la domanda su supporto cartaceo, sottoscriverla in maniera tradizionale, e trasformarla in riproduzione digitale mediante scansione ottica del documento, per poi spedirla via PEC al curatore. In questi casi le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali su supporto analogico hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità all'originale non è espressamente disconosciuta, e sostituiscono ad ogni effetto di legge gli originali formati in origine su supporto analogico (art. 22, commi 3 e 4, D. Lgs. n. 82/2005). Il curatore ha quindi sempre facoltà di contestare la conformità della copia digitale rispetto all'originale cartaceo del documento, sollevando la relativa eccezione nella prima sede utile, e quindi nell'ambito del progetto di stato passivo, oppure – nel caso di osservazioni allo stato passivo e di documenti alle stesse allegate – all'udienza di verifica. In tali casi il creditore interessato sarà quindi onerato di produrre l'originale del documento in cancelleria o in sede di verifica, previo eventuale rinvio disposto dal Giudice Delegato (Trib. Velletri, circ. 5 marzo 2013; Trib. Marsala, circ. 6 febbraio 2013, in questo portale; Vella, Brevi note sui nuovi adempimenti telematici nelle procedure concorsuali, in ilcaso.it, 2013, 6).
In considerazione di quanto sopra, non pare invece consentito predisporre il ricorso in forma di documento informatico senza sottoscrizione elettronica o munito di firma elettronica semplice, e tanto meno secondo le tradizionali modalità del documento in formato cartaceo: in tale evenienza il curatore deve infatti considerare la domanda così confezionata irricevibile, ed invitare il ricorrente a ritirare presso il suo studio i documenti alla stessa allegati ed a ripresentare la domanda secondo le forme di legge (così Trib. Milano, comunicazione di servizio n. 4/2012 del 27 dicembre 2012, Trib. Novara, circ. 17 aprile 2013, entrambe in questo portale, e Trib. Trieste, circ. 10 gennaio 2013).
L'art. 93 l. fall. prescrive espressamente che la domanda deve essere presentata in forma di ricorso, forma che non ammette equipollenti, in considerazione della specialità del rito della verifica, che esclude la possibilità di fare applicazione del principio di conversione degli atti nulli di cui all'art. 159, ultimo comma, c.p.c. Ne consegue pertanto che l'insinuazione presentata con atto di citazione andrebbe dichiarata inammissibile (App. Milano 1 ottobre 1985, in Fall., 1986, 236; Cass. 10 giugno 1981, n. 3753; Bozza, Sub artt. 92/97, in Il nuovo diritto fallimentare. Commentario dir. da Jorio, Bologna, 2006, 447). Occorre peraltro dare atto che, secondo altro orientamento, che trova seguito dopo la riforma presso la maggioranza dei Tribunali fallimentari, la domanda di ammissione contenuta in un atto di citazione notificato al curatore dovrebbe invece considerarsi ammissibile, benché irrituale, e ciò in applicazione del principio secondo cui l'adozione di una forma diversa è consentita se non inficia il regolare svolgimento del contraddittorio (Trib. Sulmona 19 marzo 2003, in Fall., 2004, 205).
Come stabilisce – sia pure impropriamente - l'art. 93, comma 2, l. fall., in applicazione del principio sancito dall'art. 125 c.p.c., la domanda di ammissione al passivo deve (e non “può”) essere sottoscritta dal creditore personalmente o da un suo rappresentante, dal momento che solo tale sottoscrizione è idonea ad attribuire la paternità dell'atto, attestandone la provenienza (Bozza, op. cit., 449). Sicché, in mancanza di detta sottoscrizione, la domanda non può essere accolta (Trib. Milano 13 aprile 2007, in Fall., 2007, 1485).
Ai fini della presentazione della domanda non è invece necessaria l'assistenza tecnica di un difensore, il ricorso alla quale è lasciato dal legislatore alla discrezionale valutazione dell'istante. Considerato peraltro che le questioni giuridiche sottese alla predisposizione della domanda di insinuazione presentano sovente elevata difficoltà, appare senz'altro da condividere il rilievo di chi reputa comunque opportuno, in generale, il ricorso al patrocinio di un professionista, in coerenza con la natura contenziosa oggi propria del procedimento di accertamento del passivo, e con il principio sancito dall'art. 82, comma 3, c.p.c., secondo il quale “le parti non possono stare in giudizio se non con il ministero o con l'assistenza di un difensore” (Lamanna, Il nuovo procedimento di accertamento del passivo, Milano, 2006, 107). Qualora l'istante abbia scelto di avvalersi dell'assistenza di un difensore, questi dovrà essere munito di regolare procura, la cui copia informatica dovrà essere allegata alla domanda e trasmessa via PEC, insieme a questa ed alla documentazione, al curatore. La procura deve intendersi estesa a tutti gli atti procedurali relativi al diritto di credito dell'istante nella procedura concorsuale, di talché il procuratore è altresì legittimato a proporre opposizione allo stato passivo.
Modalità di presentazione della domanda
La “digitalizzazione” delle procedure concorsuali, cui ha dato corso l'intervento riformatore del 2012, ha inciso anche sulle modalità di presentazione della domanda di ammissione allo stato passivo. L'art. 93 l. fall. (come modificato dall'art. 17 della l. n. 221/2012) prevede infatti che il ricorso contenente tale domanda debba essere “trasmesso all'indirizzo di posta elettronica certificata del curatore indicato nell'avviso di cui all'articolo 92, unitamente ai documenti di cui al successivo sesto comma”.
Il ricorso contenente la domanda di ammissione al passivo deve essere trasmesso telematicamente (cioè a mezzo PEC) solo ed esclusivamente all'indirizzo di PEC indicato dal curatore nell'avviso ex art. 92 l. fall., e ciò anche nel caso in cui il creditore tale avviso non abbia ricevuto, essendo suo onere, per tale eventualità, reperire l'indirizzo di PEC della procedura interpellando direttamente il curatore o la cancelleria, oppure consultando il registro delle imprese o il sito internet del Tribunale. Siamo quindi in presenza di uno specifico onere di trasmissione “che diviene una sorta di requisito formale della domanda” (Trib. Velletri, circ. 5 marzo 2013). Ne consegue che deve senz'altro escludersi la possibilità di prendere in considerazione in sede di verifica, in quanto irricevibili, le domande:
- trasmesse al corretto indirizzo di PEC della procedura, ma sprovviste di firma digitale ai sensi del D. Lgs. n. 82/2005;
- regolarmente trasmesse alla PEC del fallimento, ma mediante posta elettronica non certificata (ovvero per telefax o a mezzo del servizio postale);
- inviate ad un indirizzo mail diverso da quello indicato nell'avviso ex art. 92 l. fall. (ad es., l'indirizzo mail dello studio del curatore);
- (predisposte in formato cartaceo o digitale ma) inviate direttamente alla cancelleria.
Le indicazioni operative fornite dalla prassi suggeriscono peraltro che, in questi casi, il curatore e la cancelleria (questa seconda per il tramite del primo) debbano anche attivarsi – in ottica di proficua collaborazione tra le parti del processo – per avvertire gli interessati, anche informalmente, della necessità di presentare il ricorso con le modalità di cui all'art. 93 l. fall., e della facoltà di ritirare, presso lo studio del curatore, i documenti già presentati (così Trib. Milano, comunicazione di servizio n. 4/2012 del 27 dicembre 2012, cit.; Trib. Novara, circ. 17 aprile 2013, cit.; Trib. Roma, circ. cit.).
Occorre d'altro canto considerare che la spedizione al curatore delle domande di insinuazione e dei relativi documenti di supporto, se deve essere obbligatoriamente effettuata mediante PEC, non esige anche che dell'indirizzo di PEC utilizzato sia titolare lo stesso soggetto ricorrente. Questi può infatti certamente avvalersi di un proprio indirizzo PEC, come normalmente accade nel caso in cui il creditore istante sia, ad esempio, un avvocato o una società che presentino la domanda in proprio, senza assistenza di legale. Ma il ricorrente potrà validamente utilizzare anche la casella di PEC di un soggetto diverso, come ad esempio quella di un professionista (ad es., il legale incaricato di assistere il ricorrente) o di un'associazione sindacale o di categoria o di un patronato (così Trib. Novara, circ. 17 aprile 2013, Trib. Roma, circ. cit., Trib. Milano, comunicazione di servizio n. 1/2013 del 25 giugno 2013, in www.tribunale.milano.it), realizzando in tal modo una sorta di “domiciliazione elettronica” (Bozza, Le novità telematiche del decreto sviluppo, in ilcaso.it, 2013, 18).
Il nuovo sistema di trasmissione delle domande di insinuazione e dei relativi documenti, così approntato dal legislatore, esige quindi che il curatore monitori quotidianamente la casella PEC delle singole procedure a lui affidate; a ciò si aggiungono obblighi, in capo alla curatela, di conservazione dei messaggi inviati e ricevuti a mezzo PEC, e ciò per tutta la durata del fallimento e per i due anni successivi alla sua chiusura (art. 31-bis comma 3, l. fall.): con la conseguenza che il curatore “diviene tecnicamente custode, con le relative responsabilità che ne conseguono, dei files delle domande e deve offrire prova, ove richiesto e rilevante ai fini del giudizio, della data ed ora della ricezione del file sull'indirizzo p.e.c.” della procedura (così Trib. Velletri, circ. 5 marzo 2013, cit.).
In sede di indicazioni operative, tutti i Tribunali hanno pertanto sottolineato la rilevanza di tale adempimento e l'esigenza che l'archiviazione della posta elettronica relativa a ciascuna procedura sia effettuata in modo rigoroso e con modalità che consentano l'agevole ritrovamento di ciascuna comunicazione, non potendo escludersi l'impugnazione di atti anche a notevole distanza di tempo dalla loro emissione, basate, sotto il profilo della tempestività, sulla contestazione della mancata comunicazione (così Trib. Latina, circ. cit.; Trib. Roma, circ. del 18 febbraio 2013). In questa prospettiva taluni Uffici hanno precisato che, al fine di rispettare l'adempimento in parola, ciò che deve essere conservato è l'originale di ogni messaggio di PEC inviato o ricevuto, e non la copia cartacea della stampa del messaggio (Trib. Roma, circ. cit.); ed hanno quindi richiesto che l'indirizzo di PEC del fallimento presenti una funzione di archiviazione (opzionale nelle PEC standard) che permetta il salvataggio di una copia dei messaggi all'interno di un apposito archivio, accessibile da webmail, anche da parte del Giudice Delegato, impostando il salvataggio di tutte le e-mail ricevute ed inviate sulla e dalla casella di PEC della procedura (in questi termini Trib. Torino, circ. 20 febbraio 2013). Nel caso di procedure fallimentari a carico di persone fisiche, si è inoltre richiesto che il curatore – benché cessato dall'incarico - mantenga attiva la casella PEC per almeno un anno dopo la definizione delle operazioni fallimentari, posto che in tale periodo permane comunque la possibilità che il fallito presenti ricorso per esdebitazione ai sensi dell'art. 143 l. fall. (Trib. Marsala, circ. cit.).
Stando sempre alle indicazioni operative fornite dalle sezioni fallimentari, al momento della chiusura del fallimento o in caso di cessazione anticipata dall'incarico, al curatore è fatto obbligo di depositare in cancelleria un supporto (DVD, pen drive, ecc.) contenente copia di tutti i messaggi di PEC ricevuti ed inviati inerenti la procedura (Trib. Velletri, circ. 5 marzo 2013; così anche Trib. Roma, circ. cit., per il quale su detto supporto informatico dovrà altresì essere caricato un file in formato PDF, firmato digitalmente dal curatore, contenente l'attestazione che tutto il contenuto del supporto è costituito dai messaggi di PEC inviati e ricevuti dall'indirizzo di PEC della procedura).
Assume particolare rilievo, tra le funzioni di controllo del curatore, quella riguardante il momento della presentazione della domanda, ai fini dell'osservanza del termine di legge (sul quale v. infra) da cui dipende la tempestività della stessa.
In assenza di precise indicazioni da parte del legislatore, alla soluzione della questione pare soccorrere, in via di applicazione analogica, la regola dettata per le notifiche effettuate in via telematica dall'art. 149, comma 3, c.p.c., secondo la quale “la notifica si intende perfezionata nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica certificata del destinatario”: regola che riprende a sua volta la soluzione già fatta propria, per le notifiche telematiche tra avvocati, dall'art. 18 del D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, a mente del quale la notificazione “si intende perfezionata nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna breve da parte del gestore di posta elettronica certificata del destinatario”. Anche per le domande di insinuazione, per valutare la relativa tempestiva trasmissione farà quindi fede in via esclusiva, e senza possibilità di equipollenti (Trib. Catania, circ. cit.), il momento – attestato dalla marca temporale figurante nella ricevuta di avvenuta consegna - in cui il messaggio PEC recante la domanda (ed i relativi documenti) risulta essere stato reso disponibile nella casella PEC del curatore, a prescindere dal momento in cui quest'ultimo abbia dato effettiva lettura del messaggio e del suo contenuto, rilevando la sola sua oggettiva conoscibilità da parte del destinatario. A maggior ragione rimangono perciò ininfluenti il momento della spedizione della mail e della sua presa in carico da parte del gestore del dominio di posta del mittente, così come quello di presa in carico da parte del gestore della PEC del curatore destinatario.
Termine di presentazione della domanda
Il legislatore della riforma del 2006 ha fissato un unico termine, espressamente qualificato perentorio, per la presentazione delle domande di insinuazione. In tale prospettiva, l'art. 16, comma 2, n. 4, l. fall., prevede infatti che il Tribunale, con la sentenza dichiarativa di fallimento, “stabilisce il luogo, il giorno e l'ora dell'adunanza in cui si procederà all'esame dello stato passivo, entro il termine perentorio di non oltre centoventi giorni dal deposito della sentenza”, ed il successivo n. 5 stabilisce che la medesima sentenza dichiarativa di fallimento “assegna ai creditori e ai terzi, che vantano diritti reali o personali su cose in possesso del fallito, il termine perentorio di trenta giorni prima dell'adunanza di cui al numero precedente per la presentazione in cancelleria delle domande di insinuazione”.
Il carattere perentorio del termine per la presentazione delle domande di insinuazione risponde indubbiamente alla - condivisibile - esigenza di maggiore concentrazione nella formazione dello stato passivo, in quanto, da un lato, responsabilizza i soggetti istanti, i quali, “da un punto di vista pratico, dovranno abituarsi a considerare ‘reale', e non meramente tendenziale (…), il termine che verrà assegnato loro per la presentazione delle domande di ammissione al passivo” (Saletti, La formazione dello stato passivo: un tema in evoluzione, in Giur. it., 2006, IV, 432), e ad abbandonare la prassi dei ricorsi presentati “all'ultim'ora”. Dall'altro lato, consente al curatore, cui spetta di rassegnare “motivate conclusioni” su ogni domanda, di esaminare le istanze di ammissione in tempo utile per il deposito del progetto di stato passivo, e, più in generale, permette agli organi della procedura di conoscere anticipatamente il numero complessivo delle domande da esaminare in sede di udienza di verifica, “con ovvia maggiore certezza in ordine alla durata delle operazioni processuali di valutazione delle domande” (Perrotti, L'accertamento dello stato passivo, in Summa, 2006, fasc. luglio-agosto, 3; analogamente Zanichelli, Il procedimento di accertamento del passivo. Relazione presentata all'incontro di studio del CSM su “Il nuovo diritto concorsuale”, Roma, 20-22 aprile 2009, 4).
Al termine di 30 giorni per la presentazione tempestiva delle domande di insinuazione si applica la regola generale sancita dall'art. 155, comma 1, c.p.c. ritenuta valida anche per i termini che si computano “a ritroso” (Cass. 12 novembre 2003, n. 17021), con la conseguenza che deve essere considerato come dies a quo il giorno di partenza del computo a ritroso (nel nostro caso, quello dell'udienza di verifica), che, quindi, non deve essere calcolato, e come dies ad quem il giorno terminale (nel nostro caso, il trentesimo giorno) del computo all'indietro, che, pertanto, deve essere conteggiato (così Miccio, Le dichiarazioni tardive dei crediti, in Trattato delle procedure concorsuali, dir. da Ghia, Piccininni, Severini, III, Torino, 2010, 659; conf. Bernardi, La riforma della riforma fallimentare: appunti e riflessioni, in ilcaso.it, 2007, 4, D'Orazio, Sub artt. 92-97, in Comm. legge fall., dir. da Cavallini, I, Milano, 2010, 745).
Poiché il termine in questione è posto – come si è visto – a tutela del curatore, deve invece escludersi l'applicazione dell'art. 155, comma 4, c.p.c., a mente del quale se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo (in questo senso v. ancora Miccio, op. cit., 659; in giurisprudenza v. Cass. 26 marzo 2012, n. 4792). Qualora il termine di trenta giorni per il deposito della domanda di insinuazione scada di sabato, detto deposito, per essere tempestivo, dovrà quindi essere anticipato al venerdì.
Tale regola deve peraltro coordinarsi con quanto previsto dal quinto comma dell'art. 155 c.p.c., il quale dispone che la proroga prevista dal quarto comma si applica anche ai termini previsti per il compimento degli atti processuali svolti fuori udienza (come appunto il deposito della domanda di insinuazione) che scadono il sabato: sicché, se il termine di trenta giorni in esame cade in un giorno festivo, la scadenza del termine per il tempestivo deposito della domanda di ammissione coincide con il giorno precedente non festivo, e non già con quello successivo (Miccio, op. cit., 2010, 660; conf. Cass. 26 marzo 2012, n. 4792, cit.).
Quanto alle conseguenze dellamancata osservanza del termine perentorio di 30 giorni, previsto dal nuovo art. 16, comma 2, n. 5, l. fall., va precisato che la domanda presentata oltre detto termine non è inammissibile, né il creditore istante decade dalla possibilità di partecipare al concorso (Bozza, Sub artt. 92/97, in Il nuovo diritto fallimentare, cit., 449; Filocamo, L'accertamento dello stato passivo nella nuova legge fallimentare, in La nuova legge fallimentare “rivista e corretta”, a cura di Bonfatti e Falcone, Milano, 2008, 96), ma la domanda è considerata tardiva, come espressamente dispone, al primo comma, l'art. 101 l. fall., il quale sottopone la verifica delle domande di ammissione tardive alle medesime forme procedimentali previste per la verifica delle domande tempestive.
Il termine perentorio di 30 giorni per la presentazione tempestiva delle domande di ammissione al passivo è soggetto alla sospensione feriale dei termini stabilita dall'art. 1, comma 1, della l. 7 ottobre 1969, n. 742.
In evidenza: sospensione feriale dei termini
In dottrina: Tedeschi, L'accertamento del passivo, in Le riforme della legge fallimentare, a cura di Didone, I, Torino, 2009, 899, Miccio, op. cit., 658, e De Simone, La formazione del passivo. La fase necessaria: la verificazione dei crediti, in www.ilcaso.it, 2011, 7.
In giurisprudenza: oltre alla prevalenza dei tribunali fallimentari (sul punto: Filocamo, La domanda di ammissione al passivo, in L'accertamento del passivo, a cura di Ferro, Bastia, Nonno, Milano, 2011, 64), anche la giurisprudenza di legittimità: Cass. 24 luglio 2012, n. 12960 (in questo portale, con nota di Lambicchi, Verifica dei crediti: sospensione feriale dei termini di fissazione dell'adunanza e di presentazione della domanda di insinuazione), richiamata da Cass. 3 dicembre 2012, n. 21596), sulla scorta sia del carattere tassativo delle esenzioni dalla sospensione feriale sancite dagli artt. 92 ord. giud. e 36-bisl. fall., sia della natura processuale (e non sostanziale) del termine in discorso (così come del termine per la fissazione dell'udienza di verifica del passivo di cui all'art. 16, comma 1, n. 4, l. fall.).
Alla regola della sospensione feriale dei termini dovrebbero fare eccezione, stando all'insegnamento delle sezioni unite della Suprema Corte, soltanto le domande di insinuazione relative a crediti di lavoro, le quali, pur dovendo essere trattate con il rito fallimentare, sono assoggettate al regime previsto dall'art. 3 l. 742/1969, che, escludendo l'applicabilità della sospensione alle controversie previste dagli artt. 409 e ss. c.p.c., fa riferimento alla natura specifica della controversia, avente ad oggetto un rapporto individuale di lavoro (così Cass. S.U. 4 novembre 2009, n. 24665).
In contrario si è però correttamente obiettato che il principio generale della sospensione feriale dei termini deve invece essere applicato in modo uniforme per tutte le domande di ammissione al passivo, e quindi anche per quelle riguardanti crediti di lavoro subordinato, risultando altrimenti sacrificata la regola, sancita dall'art. 95 l. fall., del contraddittorio incrociato nel procedimento di verifica del passivo. In questa direzione si sono invero orientate la dottrina (D'Orazio, La sospensione dei termini feriali nella verifica del passivo, tra diritto di difesa ed esigenze di celerità, in Fall., 2013, 433 ss.; Filocamo, La domanda di ammissione al passivo, cit., 86), la giurisprudenza di merito (Trib. Cagliari 2 maggio 2012), ed una recente ordinanza interlocutoria della Suprema Corte (Cass., 4 maggio 2016, n. 8792), che ha rimesso la questione al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
Il contenuto della domanda di ammissione
Il legislatore del 2006 è intervenuto sui profili contenutistici della domanda di insinuazione, ed ha individuato con maggior dettaglio – al terzo comma dell'art. 93 l. fall. - gli elementi che devono essere presenti (a pena di inammissibilità ovvero di dequalificazione del credito al rango chirografario) nel ricorso, in ciò chiaramente ispirandosi alle disposizioni del codice di rito (artt. 164 e 414 c.p.c.) che definiscono contenutisticamente l'atto di citazione nel giudizio ordinario di cognizione ed il ricorso introduttivo del processo del lavoro.
(Segue) L'“indicazione della procedura cui si intende partecipare e le generalità del creditore”
Il ricorso deve indicare chiaramente, in primo luogo, la procedura nel passivo della quale si chiede di essere ammessi, specificando la ragione sociale o il nome del fallito. Solo eventuale - e quindi non richiesta a pena di inammissibilità – è invece l'indicazione del numero di ruolo della procedura e del nominativo del Giudice Delegato.
L'eventuale erronea indicazione di detto dato, nel corpo della domanda, può essere superata – secondo la giurisprudenza di merito – qualora essa sia dovuta ad un mero errore materiale desumibile dalla corretta intestazione nel ricorso del fallimento competente e dalla circostanza che i documenti prodotti da parte ricorrente fanno esclusivo riferimento alla società fallita (in questo senso Trib. Tivoli 3 febbraio 2009; in dottrina v. Campese, Lo stato passivo ed il sistema delle impugnazioni, relazione presentata all'incontro di studio del CSM in materia civile riservato ai magistrati nominati con D.M. 5.8.2010, Roma, 12-16 marzo 2012, 20, per il quale il ricorso sarà da considerare ammissibile purché si possa comunque identificare il fallimento al quale l'istanza è rivolta).
Irrilevante, è invece, che la domanda sia diretta al curatore ovvero al Giudice Delegato, oppure al Tribunale, essendo solo richiesto, come si evince dall'inciso di cui all'art. 92, comma 1, l. fall., che la stessa pervenga alla cancelleria del Tribunale fallimentare competente (Ferrara, Borgioli, Il fallimento, Milano, 1995, 541; Pajardi, in Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2002, 445) ovvero – per le procedure soggette alla disciplina della l. 221/2012 – all'indirizzo di PEC della procedura indicato dal curatore.
Le “generalità del creditore” comprendono solo il nome ed il cognome o la ragione sociale dell'istante, come indicava il previgente art. 93 l. fall., e non anche la residenza, il domicilio o la sede dello stesso. A seguito delle modifiche introdotte dalla l. 221/2012, l'omissione in parola dovrebbe infatti risultare irrilevante, posto che tutte le comunicazioni relative alla procedura dovranno essere effettuate all'indirizzo di PEC che il ricorrente è tenuto ad indicare nella domanda e, in difetto di tale indicazione, presso la cancelleria.
Si suggerisce che la domanda indichi possibilmente (e quindi non a pena di inammissibilità) anche il codice fiscale o la partita IVA del ricorrente, onde evitare incertezze connesse a possibili omonimie (Sdino, L'accertamento del passivo, in Fallimento e concordati, a cura di P. Celentano e E. Forgillo, Torino, 2008, 647).
Nulla esclude che la domanda di ammissione al passivo possa essere proposta congiuntamente da più soggetti con un unico atto, quanto meno laddove si tratti di posizioni tra loro simili (Maffei Alberti, in Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2013, 96; Pajardi, Paluchowski, in Manuale di dir. fallimentare, Milano, 2008, 529; Trib. Genova 28 febbraio 2000). A favore di tale possibilità depone l'art. 93, comma 8, l. fall., il quale, nel consentire al rappresentante comune degli obbligazionisti di presentare domanda di insinuazione anche per “gruppi di creditori”, sembra riconoscere implicitamente l'ammissibilità di ricorsi soggettivamente congiunti (così Filocamo, La domanda di ammissione al passivo, cit., 78).
(Segue) La “determinazione della somma che si intende insinuare al passivo, ovvero la descrizione del bene di cui si chiede la restituzione o la rivendicazione”
Al pari dell'atto introduttivo del giudizio di cognizione, anche il ricorso ex art. 93 l. fall. deve indicare il petitum mediato, che in questo caso si identifica nella somma di denaro che si chiede di ammettere al passivo, ovvero nel bene oggetto di rivendica o di restituzione, e che rappresenta il limite massimo del provvedimento di ammissione che il Giudice Delegato può adottare, non potendo questi - pena l'incorrere nel vizio di ultrapetizione - ammettere un credito in misura superiore a quella richiesta (Lamanna, Il nuovo procedimento, cit., 2006, 116; Montanari, Dell'accertamento del passivo e dei diritti reali mobiliari dei terzi, in Le procedure concorsuali, a cura di Tedeschi, I, Torino, 1996, 717).
La somma indicata nel ricorso deve essere determinata o, comunque, determinabile (mediante indicazione dei criteri da seguire per la relativa quantificazione), dovendosi quindi escludere sia la riserva di successiva specificazione in ordine al relativo ammontare, sia la richiesta al giudice dell'importo che egli riterrà di stabilire (Tedeschi, L'accertamento del passivo, in Le riforme della legge fallimentare, a cura di Didone, I, Torino, 2009, 900), sia, in caso di crediti risarcitori, la domanda di liquidazione in via equitativa.
La giurisprudenza ha comunque assunto sul punto una posizione non particolarmente rigorosa, ammettendo che il petitum della domanda di insinuazione possa essere determinabile in base al contenuto complessivo della domanda stessa o dei documenti ad essa allegati, in conformità all'orientamento maturato in tema di nullità della domanda nel processo ordinario di cognizione (v. sul punto Filocamo, La domanda di ammissione, cit., 80). Si è così ritenuto, in questa prospettiva, che l'omessa indicazione, nelle conclusioni della domanda, della cifra corrispondente al credito affermato dal ricorrente, non determina l'indeterminatezza della domanda, ove detto credito risulti comunque espressamente indicato nel suo ammontare globale nella narrativa del ricorso, trattandosi in questo caso di mera omissione materiale che non ne inficia la completezza (così Trib. Milano 22 gennaio 2013, ined.); ed ancora, che l'ammontare della somma di cui si chiede l'insinuazione non può essere individuato limitandosi a considerare il solo dato numerico riportato nelle conclusioni, quando dal tenore complessivo della domanda sia possibile desumere che il ricorrente abbia espressamente manifestato di ottenere l'ammissione al passivo di tutto il ristoro del pregiudizio subito, ed abbia fatto comunque salvo il diritto di variare le proprie richieste secondo le risultanze istruttorie che fossero successivamente emerse (Trib. Milano 29 ottobre 2012, ined.).
Parimenti, devono essere espressamente chiesti nel ricorso anche gli eventuali interessi che accedono a debiti di valuta, vale a dire alle obbligazioni aventi ad oggetto sin dall'origine un importo nominale di denaro, pur non essendo necessario che si specifichi l'importo esatto richiesto a tale titolo, peraltro non sempre possibile (De Simone, op. cit., 2011, 11). E' necessario per contro che l'istante specifichi il tasso di interesse richiesto (legale, convenzionale, ovvero quello di cui al D. Lgs. n. 231/2002) ed il termine di decorrenza, ed alleghi alla domanda un prospetto dei conteggi, in modo tale che curatore e Giudice Delegato possano effettuare il controllo della correttezza delle somme richieste a tale titolo (Sdino, op. cit., 647; Trisorio Liuzzi, La domanda di ammissione del credito, in Fall., 2011, 1039).
Si sottraggono invece a tale regola (e possono quindi essere riconosciuti dal Giudice d'ufficio, anche in difetto di specifica richiesta) gli interessi su debiti di valore, rappresentando questi una componente costitutiva del credito principale (Cass. 8 aprile 2004, n. 6939; App. Bologna 4 marzo 1995, in Fall., 1995, 881; in dottrina v. Lamanna, Il nuovo procedimento, cit.; D'Orazio, Sub artt. 92-97, cit., 751, Filocamo, op. cit., 80-81, ed Esposito, Sub artt. 92-94, in Codice commentato del fallimento, dir. da Lo Cascio, Milano, 2013, 1169).
(Segue) La “succinta esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che costituiscono la ragione della domanda”
La formula normativa, che ricalca quella utilizzata per il contenuto dell'atto di citazione dall'art. 163, comma 3, n. 4, c.p.c., individua la causa petendi del ricorso, vale a dire la ragione obiettiva, di fatto o di diritto, sulla quale è fondata la domanda. Il creditore deve quindi indicare chiaramente la causa del credito del quale domanda l'insinuazione al passivo fallimentare, e quindi, se tale credito ha fonte contrattuale (ad esempio, una compravendita), il negozio giuridico dal quale il credito è sorto, senza potersi limitare a produrre, ad esempio, una semplice fattura (conf. in dottrina, Lamanna, Il nuovo procedimento, cit.; D'Aquino, L'accertamento del passivo. Relazione presentata al corso “La gestione della crisi d'impresa e le nuove procedure concorsuali”, Monza, 14 marzo 2006, 19).
Nulla impedisce che il creditore chieda l'ammissione al passivo di un credito fondandolo su una pluralità di causali: in tal caso la domanda dovrà infatti essere interpretata come articolata su una prima richiesta formulata in via principale e su una seconda prospettata in via subordinata (Sdino, op. cit., 647).
Il carattere “succinto” che deve connotare l'indicazione della causa petendi se da un lato impone di astenersi da esposizioni dei fatti inutilmente particolareggiate e prolisse, dall'altro lato esige che i fatti siano esposti nella domanda in modo chiaro e completo, e che siano individuate senza equivoci le norme di diritto sulle quali l'istanza medesima è fondata (Tedeschi, L'accertamento del passivo, cit., 900-901). A tale specifico proposito assume valore di utile criterio di orientamento il principio enunciato dalla Suprema Corte in relazione all'identificazione dell'oggetto della domanda nel giudizio ordinario, secondo il quale essa va operata avendo riguardo non solo all'insieme delle indicazioni contenute nell'atto di citazione, ma anche ai documenti ad esso allegati (Cass. 12 novembre 2003, n. 17023).
In relazione all'elemento della causa petendi, si è posto il problema se, in caso di insinuazione di un credito cambiario, sia sufficiente il riferimento al solo titolo cartolare, o si renda necessario indicare nel ricorso anche il sottostante negozio causale sulla base del quale il creditore cambiario ha acquistato il titolo di credito fatto valere nel fallimento dell'obbligato cambiario. Questione che l'orientamento prevalente risolve peraltro secondo la prima delle due alternative indicate, non ravvisando, sotto il profilo in questione, ragioni valide per applicare, nei confronti dell'obbligato cambiario, regole diverse da quelle ordinarie (cfr. al riguardo Trib. Velletri 4 febbraio 1991, in Fall., 1991, 757; Trib. Roma 8 febbraio 1989, ivi, 1989, 853; Cass. 28 luglio 1980, n. 4853; in letteratura v. fra gli altri Montanari, Dell'accertamento del passivo, cit., 718; Nardone, Sub artt. 93-97, in La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di Nigro, Sandulli, Santoro, II, Torino, 2010, 1206).
(Segue) La “eventuale indicazione di un titolo di prelazione”
La più articolata formulazione del n. 4 dell'art. 93 l. fall., introdotta dalla riforma del 2006, ha segnato senza dubbio la fine delle incertezze che in passato si erano manifestate a fronte del più generico riferimento alle “ragioni della prelazione”, contenuto nel testo previgente della norma in esame.
Ai fini dell'insinuazione al passivo del fallimento, anche in via privilegiata, è sufficiente che la parte indichi la causa del credito, non essendo prescritta, a pena di decadenza, l'indicazione degli estremi delle norme di legge che fondano il diritto fatto valere, in base al principio per il quale jura novit curia (così Cass. 4 maggio 2012, n. 6800).
Il decreto correttivo del 2007, ponendosi nell'ottica di semplificare le modalità di presentazione della domanda, ha però eliminato dal testo della norma in esame l'inciso “anche in relazione alla graduazione del credito”, che era stato introdotto dalla novella del 2006. Ne consegue pertanto che – per i fallimenti dichiarati dal 1° gennaio 2008 - il creditore ricorrente non è (più) tenuto ad indicare nel ricorso il riferimento normativo che, in ragione del titolo del credito, determina, sul ricavato della liquidazione, la collocazione del credito insinuato rispetto agli altri crediti, ovvero, quanto meno, gli elementi idonei per attribuire il grado.
Benché l'art. 93, n. 4, faccia testuale riferimento alla sola “prelazione”, si ritiene correttamente che il ricorrente che aspiri all'ammissione del credito in prededuzione debba farne espressa richiesta, essendo la prededuzione una caratteristica estrinseca del credito che non può essere accertata e riconosciuta d'ufficio dal Giudice Delegato (Sdino, op. cit., 649-650; per la necessità di siffatta domanda v. anche D'Orazio, Sub artt. 92-97, cit., 750). Secondo una tesi non sarebbe invece necessario che l'interessato specifichi il rango – chirografario o privilegiato – del credito prededucibile, trattandosi di indicazioni funzionali all'ordine interno dei crediti prededucibili che, al pari di quelle relative alla graduazione dei crediti privilegiati, devono essere posticipate alla fase di riparto (Marinucci, Note sulla disciplina processuale dei crediti prededucibili dopo le riforme, in Riv. dir. proc., 2012, 1010 ss.).
(Segue) “La descrizione del bene sul quale la prelazione si esercita, se questa ha carattere speciale”
Il n. 4 dell'art. 93, l. fall. richiede che, in caso di privilegio speciale, il creditore ricorrente indichi nella domanda la“descrizione del bene sul quale la prelazione si esercita”. Con tale previsione il legislatore del 2006 ha in definitiva inteso superare, in ossequio al principio della stabilità dello stato passivo e della conseguente necessaria coerenza del piano di riparto con le risultanze dell'accertamento del passivo, l'indirizzo della Corte di Cassazione che, sotto il vigore della passata disciplina, riservava alla fase del riparto la verifica inerente al fatto che fossero stati rinvenuti e realizzati beni sui quali potesse esercitarsi il privilegio speciale (in questi termini Trib. Milano 29 maggio 2013, inedit.).
La norma lascia peraltro aperto il dubbio di cosa debba intendersi per “descrizione” del bene sul quale il privilegio speciale sia destinato a realizzarsi. Sembra da escludersi che tale locuzione debba essere interpretata alla stregua di “esatta individuazione” del bene gravato (così invece Minutoli, Il nuovo procedimento, cit., 79). Al riguardo è stato correttamente osservato che, “se invero in alcuni casi tale indicazione può non essere difficile, come avviene per il privilegio del vettore, del mandatario, del depositario e del sequestratario (art. 2761 c.c.) o del venditore di macchine (art. 2762 c.c.) che hanno ben presenti i beni gravati, ben più arduo potrebbe essere il compito, ad esempio, del titolare di crediti per la locazione di immobili, che dovrebbe indicare beni di cui potrebbe ignorare l'esistenza” (Zanichelli, Il procedimento, cit., 5; conf. De Simone, La formazione del passivo, cit., 11).
Un utile criterio di orientamento al riguardo è rinvenibile peraltro in alcuni precedenti della Suprema Corte, la quale, già prima della riforma del 2006, aveva precisato che in sede di verifica dello stato passivo, “affinché possa utilmente richiedersi il riconoscimento di un privilegio speciale non è necessario che il creditore dia l'indicazione di ciascun bene oggetto della causa di prelazione (della cui presenza nel patrimonio del debitore egli potrebbe anche non essere a conoscenza), ma è necessario (e sufficiente) - al fine della specificità della domanda e della garanzia del contraddittorio - che il diritto venga indicato nelle componenti essenziali, di fatto e di diritto, da cui derivino i criteri di individuazione e di determinazione dei beni soggetti alla soddisfazione prioritaria del creditore fruente del privilegio” (Cass. 14 gennaio 2004, n. 334; conf. Cass. 3 dicembre 1996, n. 10786).
Sulla scorta di tali indicazioni, per assolvere l'onere di “descrizione” del bene gravato dal privilegio speciale è quindi necessario e sufficiente che il creditore concorsuale fornisca nel ricorso (o nella documentazione allegata) elementi idonei a rendere quanto meno individuabile detto bene, nell'ambito della più ampia categoria di beni sui quali il privilegio deve essere esercitato [conf. Zanichelli, Il procedimento, cit., 5; Ferri, La formazione dello stato passivo nel fallimento: procedimento di primo grado e impugnazioni, in Riv. dir. proc., 2007, 1260; Vacchiano, Considerazioni sull'accertamento dello stato passivo nel nuovo diritto fallimentare, in Impresa, 2007, fasc. 1, 70; per la giurisprudenza di merito v. Trib. Marsala 6 dicembre 2013, il quale ha ritenuto che l'oggetto del privilegio speciale di cui all'art. 44 T.U.B. (nella specie, prodotto alcolico tipo grappa) risultasse sufficientemente descritto nella documentazione versata in atti, e segnatamente in alcuni contratti di finanziamento, che facevano riferimento ad una apertura di credito assistita da privilegio legale in favore della banca “sull'intero prodotto e sui crediti derivanti dalla vendita dei prodotti trasformati”; nonché in alcuni processi verbali redatti dalla competente Agenzia delle Dogane].
Non appare quindi totalmente meritevole di condivisione la diversa opinione espressa da una corte di merito, secondo la quale la “descrizione” richiesta dal novellato art. 93, comma 3, n. 4, l. fall., dovrebbe essere “non generica ma fondata su elementi di dettaglio”, pur non richiedendosi al creditore anche l'indicazione “puntuale dell'attuale situazione, giuridica e materiale, del bene, della cui presenza nel patrimonio del fallito (e della correlativa acquisizione all'attivo) l'istante potrebbe non essere a conoscenza, trattandosi di situazione estranea alla sua disponibilità e, quindi, alla sua conoscibilità” (così Trib. Catanzaro 15 ottobre 2008). Così come sembra per contro eccessivamente largheggiante l'interpretazione, avanzata da altro Tribunale, secondo la quale basterebbe anche una formula descrittiva generica, come quella che faccia riferimento ai beni rinvenuti ed inventariati dalla curatela all'interno dei locali della fallita (Trib. Milano 29 maggio 2013, cit.).
(Segue) L'indicazione dell'indirizzo di posta elettronica certificata
Il n. 5 dell'art. 93 l. fall., nel testo introdotto dall'art. 17 del D.L. n. 179/2012 (conv. in L. n. 221/2012) richiede l'indicazione “dell'indirizzo di posta elettronica certificata, al quale ricevere tutte le comunicazioni relative alla procedura, le cui variazioni è onere comunicare al curatore”.
Si tratta di disposizione che costituisce chiara applicazione della regola generale sancita dal primo comma dell'art. 31-bis l. fall. (parimenti introdotto ex novo dalla L. n. 221/2012), secondo cui “le comunicazioni ai creditori e ai titolari di diritti sui beni che la legge o il giudice delegato pone a carico del curatore sono effettuate all'indirizzo di posta elettronica certificata da loro indicato nei casi previsti dalla legge”.
Il mezzo con il quale il creditore è chiamato a veicolare la comunicazione del proprio indirizzo di PEC é la domanda di ammissione al passivo, la quale - stando alla lettera dell'art. 93 l. fall. – sembrerebbe costituire a tal fine strumento esclusivo, che non tollera equipollenti, né forme comunicative tacite, quale ad es. l'invio stesso della domanda attraverso un indirizzo di PEC (così Trib. Milano, comunicazione di servizio n. 1/2013 del 25 giugno 2013). In conformità ai principi generali del processo, sembra tuttavia più persuasivo ritenere che il creditore possa comunicare alla curatela il proprio recapito di PEC avvalendosi anche di altra forma di comunicazione che sia idonea a raggiungere lo scopo di informare l'organo destinatario (Abate, L'irruzione della pec nella gestione delle procedure concorsuali, in Fall., 2013, 503).
A norma del quinto comma dell'art. 93 l. fall. (parimenti sostituito dalla L. n. 221/2012), dall'omessa indicazione, nella domanda di insinuazione, dell'indirizo PEC del ricorrente – cui va equiparata la menzione di un indirizzo di posta elettronica non certificata - consegue l'applicazione del secondo comma dell'art. 31-bis l. fall., secondo il quale “tutte le comunicazioni sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria”, rivivendo così la medesima conseguenza che la legge fallimentare del 1942 ricollegava alla mancata domiciliazione del creditore nel comune sede del Tribunale che aveva dichiarato il fallimento. Secondo alcuni uffici, in tali ipotesi, il curatore – fermo restando il deposito dell'atto in cancelleria - dovrebbe peraltro sollecitare il creditore ad effettuare immediatamente l'espressa dichiarazione dell'indirizzo PEC, ed in caso di inottemperanza dovrebbe comunque inviare la comunicazione anche all'indirizzo PEC utilizzato per l'invio della domanda di insinuazione (Trib. Milano, comunicazione di servizio n. 1/2013 del 25 giugno 2013, cit.).
Si deve ritenere che la comunicazione possa essere legittimamente effettuata in cancelleria anche nel caso in cui il creditore, invitato in tal senso dal curatore con l'avviso ex art. 92 l. fall., non abbia indicato nella domanda di ammissione il proprio indirizzo di PEC, pur essendone titolare ed avendolo in precedenza comunicato al Registro delle Imprese o all'ordine professionale di appartenenza in ottemperanza a quanto previsto dall'art. 16 del D.L. 29 novembre 2008, n. 185. Nell'ipotesi in cui il creditore non sia stato invece invitato ad eleggere domicilio mediante indicazione di un indirizzo di PEC, la comunicazione potrà essere effettuata in cancelleria solo nell'eventualità in cui il soggetto non abbia comunicato tale indirizzo al Registro delle Imprese o al proprio ordine professionale; qualora l'ordine o l'albo non abbia reso disponibile l'elenco delle PEC, l'omessa comunicazione con tale mezzo non sarà imputabile al creditore, e dovrà quindi procedersi alle comunicazioni in forma ordinaria, vale a dire mediante raccomandata con avviso di ricevimento o a mezzo telefax (in questi termini Trib. Roma, circ. 18 febbraio 2013, in questo portale).
Al deposito in cancelleria di tutte le successive comunicazioni si fa necessariamente luogo anche nella diversa ipotesi, parimenti prevista dall'art. 93, comma 5, l. fall., in cui la domanda di ammissione al passivo rechi l'indirizzo PEC del ricorrente, ma si sia verificata la “mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario”.
La locuzione, identica a quella che il legislatore del 2012 ha utilizzato nel confezionare le nuove disposizioni in materia di notificazioni e le comunicazioni a mezzo PEC nel processo civile (art. 16, comma 6, del D.L. 18 ottobre 2012, n.179), riproduce, sia pure in positivo, la formula dell'art. 1218 c.c., ed al pari di questa genera, per la sua elasticità, inevitabili difficoltà interpretative, non essendo facile – in un contesto tecnico particolare, come quello delle comunicazioni telematiche – distinguere, nell'ambito dei fatti che impediscono la consegna di un messaggio, quelli imputabili da quelli non imputabili al destinatario.
Secondo taluni, la questione dovrebbe essere risolta nel senso che la mancata conoscenza del messaggio di PEC regolarmente inviato all'indirizzo comunicato dal creditore dovrebbe “di regola” essere imputato a quest'ultimo in base ad un principio di autoresponsabilità, così come dovrebbe essere “in linea di massima” imputato al creditore il malfunzionamento del suo sistema di PEC, con conseguente legittimo invio della comunicazione mediante deposito in cancelleria (in questi termini Trib. Marsala, circ.6 febbraio 2013, cit.).
Tale soluzione non pare tuttavia, a nostro avviso, soddisfacente. Se si muove dal significato comunemente attribuito alla “causa non imputabile” di cui all'art. 1218 c.c., in termini di fatto non riferibile a colpa del creditore (e quindi non riconducibile a sua incuria, negligenza, trascuratezza o malafede, ovvero ricollegabile ad un fatto involontario, dovuto a forza maggiore o a caso fortuito), pare infatti ragionevole considerare imputabili al destinatario tutti gli eventi impeditivi della consegna del messaggio riconducibili ad una sua condotta colposa, come ad es. la disattivazione della casella di posta senza comunicazione alla curatela del nuovo indirizzo PEC, l'interruzione del servizio di PEC disposto dal gestore per mancato pagamento dei costi di abbonamento, il mancato funzionamento della casella di posta per raggiungimento dei limiti massimi di capienza, l'omesso rinnovo del certificato necessario per il mantenimento in attività della casella, ecc.; e viceversa considerare non imputabile il destinatario nei casi in cui il mancato recapito della e-mail sia dovuto a fattori causali esterni alla sua sfera organizzativa, come ad es. nel caso classico della calamità naturale o nell'ipotesi di mancata fruizione del servizio di PEC per fatto riconducibile al gestore della rete di telecomunicazioni.
Maggiori dubbi possono invece sorgere in presenza di altre fattispecie, in cui il curatore disponga della ricevuta di avvenuta consegna del messaggio inviato al creditore, ma quest'ultimo non abbia potuto accedere alla sua casella e leggere il messaggio a causa di anomalie tecniche dovute al proprio gestore del server di posta: in tal caso la consegna del messaggio deve infatti ritenersi validamente effettuata, potendo invece configurarsi una responsabilità contrattuale del gestore nei confronti del destinatario.
Fatta eccezione per queste ultime peculiari ipotesi, in cui si assiste ad uno scollamento tra attestazione informatica dell'avvenuta consegna del messaggio e sua effettiva accessibilità da parte del destinatario, negli altri casi il curatore-mittente disporrà comunque del mezzo tecnico per verificare se la trasmissione della mail sia andata o meno a buon fine. Il servizio di PEC prevede infatti che, in tale caso, il mittente riceva apposite segnalazioni di errore o di anomalia, perché ad es. la mail sia formalmente non corretta perché non rispetta la normativa in vigore e non possa essere quindi presa in carico dal sistema di PEC, oppure contenga virus e non possa essere inoltrata, o sia risultato impossibile recapitarla entro le 24 ore dal suo invio.
Nei casi in cui l'anomalia risulti riguardare la PEC del curatore, questi dovrà quindi attivarsi per rimediare al difetto di funzionamento del proprio sistema informatico. Diversamente, qualora l'impossibilità di consegna della mail risulti invece dipendere da anomalia riguardante la PEC del destinatario, il curatore potrà dare corso al deposito in cancelleria della comunicazione, ma, in quanto pubblico ufficiale e nell'ottica di collaborazione tra le parti del processo, dovrà anche attivarsi per avvertire il creditore del mancato inoltro della mail: avviso che, sotto il profilo pratico, potrà essere effettuato all'atto del deposito del documento cartaceo in cancelleria, allegando allo stesso la mail di segnalazione di errore che il curatore ha ricevuto dopo aver inviato (rectius, tentato di inviare) il messaggio di PEC al creditore.
Quanto appena osservato conduce a ritenere che gli effetti che per legge conseguono all'impossibilità di comunicare telematicamente con il creditore (i.e., il deposito dell'atto in cancelleria) non possono essere considerati temporalmente “permanenti”. In altri termini, se in una specifica occasione il curatore si trova nella condizione di non aver potuto trasmettere via PEC una determinata comunicazione ad un creditore per cause a quest'ultimo imputabili, ciò legittima il curatore a depositare in cancelleria quella (e solo quella) comunicazione, ma non lo autorizza anche a depositare automaticamente in forma cartacea anche tutte le ulteriori successive comunicazioni destinate a quel creditore, senza prima aver verificato, per ciascuna di esse, la perdurante impossibilità di trasmetterle via PEC al creditore medesimo. Diverso discorso vale invece nell'ipotesi in cui il creditore non abbia indicato ab initio il proprio indirizzo di PEC: solo in tal caso può infatti giustificarsi, in termini di razionalità, la scelta del curatore di depositare senz'altro in cancelleria “tutte” le ulteriori comunicazioni successive alla prima, almeno fin tanto che il destinatario non abbia provveduto a rendere noto alla curatela il suddetto indirizzo (in questo senso v. anche Armeli, op. cit., 19).
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Sommario
Modalità di presentazione della domanda
(Segue) L'“indicazione della procedura cui si intende partecipare e le generalità del creditore”
(Segue) La “determinazione della somma che si intende insinuare al passivo, ovvero la descrizione del bene di cui si chiede la restituzione o la rivendicazione”
(Segue) La “succinta esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che costituiscono la ragione della domanda”
(Segue) La “eventuale indicazione di un titolo di prelazione”
(Segue) “La descrizione del bene sul quale la prelazione si esercita, se questa ha carattere speciale”
(Segue) L'indicazione dell'indirizzo di posta elettronica certificata