Impugnazioni in generale

Francesco Bartolini
09 Aprile 2016

Il nostro ordinamento processuale civile si conforma al modello di processo, prevalente nei regimi moderni, di giudizio che consente, entro certi limiti, di porre in discussione la pronuncia giurisdizionale in un grado di giudizio da svolgersi dinanzi ad un giudice sovraordinato. Nel conflitto tra le esigenze, diverse, di giungere celermente ad una pronuncia di certezza definitiva sulla situazione controversa e di permettere il riesame della decisione che ponga rimedio ad errori e travisamenti, si è lasciata alle parti la facoltà di accettare da subito la decisione oppure di persistere nell'esercizio dell'azione con il chiedere la modifica, la sostituzione o l'annullamento della pronuncia.
Inquadramento

Il nostro ordinamento processuale civile si conforma al modello di processo, prevalente nei regimi moderni, di giudizio che consente, entro certi limiti, di porre in discussione la pronuncia giurisdizionale in un grado di giudizio da svolgersi dinanzi ad un giudice sovraordinato. Nel conflitto tra le esigenze, diverse, di giungere celermente ad una pronuncia di certezza definitiva sulla situazione controversa e di permettere il riesame della decisione che ponga rimedio ad errori e travisamenti, si è lasciata alle parti la facoltà di accettare da subito la decisione oppure di persistere nell'esercizio dell'azione con il chiedere la modifica, la sostituzione o l'annullamento della pronuncia. Trattasi, pur sempre, dell'esercizio della medesima azione intrapresa nel primo grado di giudizio e, rispetto alla quale, l'impugnazione rappresenta una delle varie facoltà attraverso cui siffatto esercizio è concretamente posto in essere. Il sistema così risultante vale come regola generale, salve alcune eccezioni giustificate dalla specialità della materia oggetto di contrasto, o dalle difformi soluzioni escogitate dal legislatore per comporre rapidamente i dissidi e raggiungere un esito risolutivo della controversia con semplicità di forme.

Il principio del doppio grado di giurisdizione

Il nostro sistema processuale è ispirato al principio del doppio grado di giurisdizione, così denominato per indicare la possibilità di un duplice e successivo esame della pretesa nel merito. In tale assetto, un eventuale terzo grado del procedimento adempie ad una funzione di garanzia di legittimità degli atti: e in questo senso l'

art. 111

Cost

.

stabilisce che contro tutte le sentenze pronunciate dagli organi giudiziari ordinari o speciali è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. La Corte costituzionale ha ripetutamente escluso che il principio della duplice pronuncia sul merito sia stato elevato a regola costituzionalizzata. Il principio, si è affermato, va intenso nel senso di concreta possibilità che una certa materia controversa possa essere condotta all'esame di due successivi giudici, ma non anche nel senso che ciò debba avvenire sempre e necessariamente, fatta salva comunque la ricordata garanzia di cui all'

art. 111

Cost

.

Il doppio grado di giurisdizione non implica che una causa, e le singole questioni che ne sono oggetto, venga decisa due volte da giudici diversi. Esso è soddisfatto purchè sulla questione successivamente esaminata dal giudice dell'impugnazione sia stata possibile la cognizione da parte del primo giudice, anche se questi abbia omesso di pronunciarsi. Il doppio grado si risolve nella possibilità di un doppio giudizio e non richiede che questo avvenga effettivamente. Da un lato, è sufficiente che il primo giudice sia stato posto in grado di esaminare la domanda in tutta la sua estensione. Dall'altro, è pure sufficiente che il giudice dell'impugnazione si pronunci su una questione sulla quale non si è pronunciato espressamente il primo giudice e che questi abbia risolto, anche solo indirettamente, per essere stata assorbita nella decisione o per essere stata ritenuta irrilevante per effetto della decisione di altra questione. Il principio non comporta che necessariamente entrambi i giudici, di primo e di secondo grado, si debbano pronunciare nel merito delle domande e delle eccezioni proposte dalle parti ma è sufficiente che ciascuno di essi pervenga ad una decisione, definitiva o non definitiva, del giudizio, attraverso la delibazione delle questioni controverse, anche se concernenti la sola giurisdizione o la competenza o altre questioni pregiudiziali o preliminari di merito.

In evidenza

La garanzia del doppio grado di giudizio è rispettata ogni qualvolta il giudice di primo grado sia stato posto nella condizione di esaminare la domanda in tutta la sua estensione, anche se il medesimo giudice, risolvendo una questione pregiudiziale, non sia entrato nel merito della controversia e non abbia esaminato gli altri punti della causa, ed il giudice di secondo grado abbia statuito nel merito superando la questione pregiudiziale. Pertanto, qualora il giudice dell'opposizione a decreto ingiuntivo abbia dichiarato l'inammissibilità dell'opposizione, correttamente il giudice di appello, che ritenga insussistente tale inammissibilità, procede all'esame delle questioni di competenza e di merito, senza necessità di rimettere la controversia al primo giudice (

Cass.

civ.,

sez. III, 22 aprile 1995, n. 4581

).

L'impugnazione, nelle sue linee essenziali

L'impugnazione consiste in una domanda con la quale una delle parti in causa chiede al giudice una pronuncia di riforma o di annullamento di una decisione ad essa sfavorevole. Essa segue lo schema, almeno nelle fattispecie di maggiore rilevanza, di una citazione in giudizio con la quale la parte vittoriosa viene evocata a comparire dinanzi al giudice superiore: e si caratterizza per il suo oggetto, costituito dalla critica formulata avverso la detta decisione sfavorevole e dalla richiesta di sostituirla o di porla nel nulla. Non mancano casi nei quali l'impugnazione assume la forma del ricorso, rivolto direttamente al giudice, e che deve essere poi notificato al contro interessato dopo che è stata fissata l'udienza di comparizione (è questo, ad esempio, il caso dei reclami). Anche la regola della proposizione ad un giudice sovraordinato, e dunque diverso, subisce eccezioni, come avviene nei casi di reclamo consentito allo stesso giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato (ad esempio, può citarsi l'art. 591-ter c.p.c., avente a oggetto il reclamo al giudice dell'esecuzione avverso il suo decreto sul ricorso avverso gli atti del professionista delegato alle operazioni di vendita). Sia la multiformità dei riti processuali, che contraddistingue il nostro ordinamento, e sia la diversità delle soluzioni adottate dal legislatore rendono impossibile una definizione unitaria della nozione di impugnazione, che sia totalmente descrittiva di un istituto avente come dato comune unicamente la non accettazione della decisione che si avverte come pregiudizievole.

In evidenza

L'impugnazione di una decisione giurisdizionale, intesa come “mezzo”, consiste in una domanda con la quale una delle parti litiganti rimette in discussione, nei confronti dell'altra, l'oggetto del provvedimento impugnato, e non può quindi indirizzarsi contro l'organo giudicante, che è soggetto terzo rispetto alle parti del processo e non può, pertanto, essere coinvolto dalle domande in esso proposte (

Cass.

civ.,

sez

.

U

, 12 novembre 2003, n. 17014

)

Interesse all'impugnazione

L'impugnazione è uno strumento processuale da utilizzare per raggiungere un risultato. In tal senso si suole indicare l'impugnazione anche come “mezzo” (mezzo di impugnazione), quale sinonimo di gravame e di impugnazione, per indicarne la funzione strumentale al perseguimento di uno scopo, proprio alla parte che se ne serve. Questo scopo deve corrispondere ad un interesse, della parte, giuridicamente tutelato e ad essa utile: pertanto, non teorico od astratto ma incidente sulla regolazione del rapporto oggetto di controversia. Come per la proposizione della domanda introduttiva del giudizio (e per quella con cui ad essa si resiste), anche per la proposizione dell'impugnazione occorre avervi interesse (

art. 100

c.p.c.

). Nel caso specifico dell'impugnazione questo interesse è rappresentato dalla rimozione della pronuncia sfavorevole. Esso nasce dalla soccombenza, la quale costituisce il presupposto, in fatto e in diritto, che legittima alla proposizione dell'impugnazione: senza soccombenza non v'è interesse (anche se parte della dottrina mette in dubbio che occorra sempre un tale presupposto). Inoltre, questo interesse deve essere concreto e relativo ad una pronuncia di riforma che elimini la soccombenza. Non sarebbe tale un mero proposito di far correggere una motivazione o di far rettificare il riferimento ad una norma di legge, se dalle relative pronunce non derivasse alcuna conseguenza effettiva sull'assetto degli interessi delle parti stabilito dalla pronuncia impugnata.

In evidenza

La denuncia fondata sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l'interesse alla astratta regolarità dell'attività giudiziaria ma garantisce solo l'eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione. Ne consegue che è inammissibile l'impugnazione con la quale si lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare anche le ragioni per le quali l'erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito (

Cass.

civ.,

sez. V, 18 dicembre 2014, n. 26831

)

È ammissibile l'impugnazione con la quale l'appellante si limiti a dedurre soltanto vizi di rito avverso una pronuncia che abbia deciso anche nel merito in senso a lui sfavorevole, solo ove i vizi denunciati comporterebbero, se fondati, una rimessione al primo giudice ai sensi degli

artt. 353

e

354

c.p.c.

; nelle ipotesi in cui, invece, il vizio denunciato non rientra in uno dei casi tassativamente previsti dai citati

artt. 353

e

354

c.p.c.

, è necessario che l'appellante deduca ritualmente anche le questioni di merito, con la conseguenza che, in tali ipotesi, l'appello fondato esclusivamente su vizi di rito (nella specie, sulla mera denuncia di omessa motivazione della sentenza di primo grado), è inammissibile, oltre che per un difetto di interesse, anche per non rispondenza al modello legale di impugnazione (

Cass.

civ.,

sez. I, 11 febbraio 2015, n. 2682

;

Cass.

civ.,

sez. lav., 23 giugno 2014, n. 14167

;

Cass.

civ.,

sez. III, 29 gennaio 2010, n. 2053

;

Cass.

civ.,

sez. I, 15 marzo 2007, n. 6031

)

Il principio contenuto nell'

art. 100

c.p.c.

, secondo il quale, per proporre una domanda o per resistere ad essa, è necessario avervi interesse, si applica anche al giudizio di impugnazione, in cui l'interesse ad impugnare una data sentenza o un capo di essa va desunto dall'utilità giuridica che dall'eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla parte che lo propone e non può consistere nella sola correzione della motivazione della sentenza impugnata ovvero di una sua parte. Ne consegue che deve considerarsi inammissibile, per difetto di interesse, l'impugnazione proposta ove non sussista la possibilità, per la parte che l'ha fatta, di conseguire un risultato utile e giuridicamente apprezzabile (

Cass.

civ.,

sez. II, 27 gennaio 2012, n. 1236

;

Cass.

civ.,

sez. III, 9 dicembre 2003, n. 18736

).

È inammissibile, per difetto di interesse, un'impugnazione con la quale si deduca la violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, che non spieghi alcuna influenza in relazione alle domande e alle eccezioni proposte e che sia diretta quindi all'emanazione di una pronuncia priva di rilievo pratico (

Cass.

civ.,

sez. II, 18 aprile 2001, n. 5702

).

L'oggetto delle impugnazioni

Nel suo significato più generale, l'impugnazione può avere ad oggetto un provvedimento oppure un atto. Il provvedimento può avere natura decisoria od ordinatoria ed è pronunciato da una autorità che ne ha il potere: nel processo civile essa è quasi sempre e soltanto il giudice, avendo il pubblico ministero i limitati poteri di cui all'

art. 72

c.p.c.

In questi casi, l'impugnazione può tendere all'eliminazione del provvedimento o alla sua sostituzione con un altro, attraverso una sorta di rinnovazione del giudizio, nella quale si risolve la funzione del processo nel grado ulteriore del suo svolgimento. L'impugnazione concernente un atto è rivolta ad evidenziarne un vizio, in diritto o nel merito. Anche in questo caso, essa ha per finalità la rimozione dell'atto e, molto più spesso, la sua sostituzione con altro, favorevole alla parte. Sono esempio di impugnazione di decisioni l'appello e il ricorso per cassazione. Costituiscono esempio di impugnazione di atti le opposizioni agli atti esecutivi nonché i reclami avverso le operazioni compiute dal professionista delegato alle operazioni di espropriazione immobiliare.

Tassatività dei mezzi di impugnazione e del loro esercizio

La finalità della giurisdizione consiste nel fornire incontrovertibilità ai rapporti giuridici nei casi nei quali sorge controversia sul loro assetto, tra coloro che ne sono titolari. La certezza delle situazioni di rilevanza per il diritto costituirebbe un bene irraggiungibile ove fosse possibile porre quelle situazioni in discussione senza limiti di tempo. Alle parti di un giudizio è assicurata la libertà di accettare la decisione sfavorevole o di impugnarla. Ma questa scelta deve avvenire nel rispetto di alcune condizioni che costituiscono altrettanti vincoli alle facoltà delle parti.

In alcuni casi la legge processuale dichiara non impugnabili determinati atti ed esclude, pertanto, che essi possano esser rimessi in discussione con un mezzo di gravame: possono essere impugnati soltanto gli atti che la legge dichiara impugnabili. Inoltre, i mezzi di impugnazione sono soltanto quelli indicati dalla legge, con una norma di carattere generale e, molto spesso, con disposizioni riferite a specifiche occasioni. I provvedimenti che possono essere chiesti al giudice competente sono tipizzati, così come lo sono, in taluni casi, anche i motivi sui quali fondare il gravame. Il numero delle impugnazioni consecutive è limitato a quello previsto dalla legge processuale e questa limitazione è l'espediente tecnico utilizzato dal legislatore per giungere alla definitività della pronuncia del giudice nonostante l'esperimento del potere di impugnazione attribuito alle parti. L'

art. 323

c.p.c.

elenca i mezzi di impugnazione (regolamento di competenza, appello, ricorso per cassazione, revocazione e opposizione di terzo) con una norma che l'evoluzione, nel tempo, della disciplina processuale ha privato del suo contenuto di totale descrizione delle fattispecie consentite. Al suo dettato generale vanno aggiunte le norme che prevedono le opposizioni all'esecuzione, le opposizioni agli atti esecutivi, i reclami, le opposizioni avverso i decreti e avverso le ordinanze. Numerose disposizioni regolano poi in dettaglio le forme degli atti (ad esempio,

artt. 342

e

360

c.p.c.

) e i tempi di proposizione (ad esempio,

artt. 325

e

326

c.p.c.

).

Legittimazione all'impugnazione

Se l'impugnazione risponde alla funzione di tendere alla modifica di un provvedimento o di un atto, l'interesse ad ottenere questa modifica, e quindi la legittimazione a chiederla, implica che quel provvedimento o quell'atto rappresentino un elemento pregiudizievole per il soggetto: come si è accennato, ove si tratti di impugnare una decisione del giudice, questo pregiudizio è rappresentato dalla soccombenza. Essa presuppone che il soggetto interessato abbia partecipato ad un giudizio e che in esso abbia vista respinta una sua domanda o una sua posizione difensiva. In pratica, la legittimazione all'impugnazione è data dall'aver partecipato al giudizio con esiti sfavorevoli, circostanza che equivale a dire che essa spetta alla parte soccombente in un giudizio. Di regola, soltanto i soggetti che furono parte del giudizio hanno legittimazione ad agire con la proposizione dell'impugnazione. Di regola, occorre dire, perché di legittimazione attiva sono forniti anche: chi avrebbe dovuto essere posto in grado di partecipare al giudizio nella sua qualità di litisconsorte necessario; il successore ex

artt. 110

e

111

c.p.c.

; il terzo, rimasto estraneo al processo, quando la sentenza, passata in giudicato o comunque esecutiva, pregiudica i suoi diritti; nonché gli aventi causa e i creditori di una delle parti quando la sentenza è frutto di dolo o collusione a loro danno.

Analogamente, la legittimazione passiva spetta a chi fu parte nel giudizio nel quale fu pronunciato il provvedimento oggetto di gravame.

In evidenza

L'impugnazione di una sentenza deve essere rivolta nei confronti del soggetto che in essa è stato individuato come parte costituita in giudizio, prescindendosi dalla correttezza e dalla corrispondenza di una siffatta individuazione alle risultanze processuali, nonché dalla titolarità del rapporto sostanziale, purchè sia quella ritenuta dal giudice nella sentenza impugnata (

Cass.

civ.,

sez. III, 19 febbraio 2013, n. 4011

;

Cass.

civ.,

sez. VI,

ord

. 2 ottobre 2014, n. 20789

;

Cass.

civ.,

sez. VI,

ord

. 29 luglio 2014, n. 17234

).

La qualità di parte legittimata a proporre appello o ricorso per cassazione, come a resistervi, spetta ai soggetti che abbiano formalmente assunto la veste di parte nel previo giudizio di merito, con la conseguenza che va dichiarata inammissibile l'impugnazione proposta contro soggetti diversi da quelli che sono stati parti nel suddetto giudizio (

Cass.

civ.,

sez. III, 16 gennaio 2012, n. 520

).

La legittimazione all'impugnazione spetta esclusivamente a chi ha formalmente assunto la qualità di parte nel grado del giudizio di merito conclusosi con la sentenza impugnata, indipendentemente dall'effettiva titolarità del rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, atteso che con l'impugnazione non si esercita una azione ma un potere processuale che, per sua natura, può spettare solo a chi abbia partecipato al pregresso grado di giudizio, non rilevando in contrario che il soggetto, rimasto estraneo a questo, deduca a fondamento della proposta impugnazione la propria qualità di litisconsorte necessario e la sua illegittima pretermissione, in quanto siffatte deduzioni possono giustificare l'inopponibilità della sentenza nei suoi confronti o legittimarlo all'impugnazione ordinaria (

Cass.

civ.,

sez. II, 15 dicembre 2010, n. 25344

;

Cass.

civ.,

sez. I, 18 maggio 1994, n. 4878

).

Tipologia e classificazione dei mezzi di impugnazione

La dottrina ha cercato di raggruppare per categorie i diversi mezzi di impugnazione, per una esigenza concettuale di raffrontarne le analogie e le differenze. L'estrema varietà delle discipline ha fatto, delle relative indicazioni, classificazioni utili ad una comprensione degli istituti ma non sempre totalmente descrittive delle loro caratteristiche. Una delle distinzioni si fonda sulla ragione asserita a fondamento dell'impugnazione. Questa ragione può consistere nella deduzione di un vizio nel procedimento di pronuncia (error in procedendo o error in judicando) oppure nell'affermazione dell'ingiustizia della decisione (per vizi nel merito). Ne sono tipico esempio, rispettivamente, il ricorso per cassazione e l'appello. Si è accennato, in proposito, anche ad una distinzione tra rimedi di legalità e rimedi di giustizia, intesa nel senso che, con i primi, sono fatti valere vizi di procedura o errori di giudizio mentre, con i secondi, può essere denunciata la semplice ingiustizia della decisione: i primi sono mezzi di impugnazione a critica vincolata (in quanto possono essere proposti soltanto motivi specifici) mentre gli altri sono mezzi di impugnazione a critica libera (che rimettono in discussione la materia del decidere).

Si distinguono anche le impugnazioni di annullamento, qual'è, tipicamente, il ricorso per cassazione, dalle impugnazioni di merito, che hanno ad oggetto la rivisitazione della materia controversa. La differenza risiede, però, non tanto nella ragione che può essere addotta a fondamento del gravame quanto nel tipo di pronuncia che viene chiesta al giudice superiore, nell'un caso, quella della cassazione della pronuncia impugnata e, nell'altro, nella sostituzione di questa con una diversa, favorevole al soggetto impugnante. Sotto il profilo dei motivi, infatti, questa distinzione ha perduto il suo iniziale significato, posto che attualmente l'

art. 161

c.p.c.

ha posto la regola per cui i vizi di nullità degli atti del procedimento devono essere fatti valere come altrettanti motivi di impugnazione. Una ulteriore distinzione si impernia sull'attitudine del mezzo di impugnazione a condizionare la formazione della cosa giudicata. Si denominano impugnazioni ordinarie quelle che precludono, se proposte ritualmente, il passaggio in giudicato del provvedimento impugnato (e che avrebbe attitudine a dar luogo alla cosa giudicata). Sono impugnazioni straordinarie quelle che possono essere proposte avverso sentenze passate in giudicato e che il legislatore ammette in considerazione di circostanze specifiche: per elementi turbativi del giudizio conosciuti dopo la sua conclusione o per situazioni soggettive che riguardano i terzi e che sono meritevoli di tutela.

Si distinguono ancora le impugnazioni che sono caratterizzate da una duplice fase del giudizio:

  • l'una denominata judicium rescindens, nella quale viene posta nel nulla la decisione impugnata;
  • l'altra, denominata judicium rescissorium, destinata ad una pronuncia che sostituisce quella gravata.

Impugnazioni e cosa giudicata

L'

art. 324

c.p.c.

stabilisce che si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di competenza né ad appello né a ricorso per cassazione né a revocazione per i motivi di cui ai nn. 4 e 5 dell'

art. 395

c.p.c

.

La disposizione reca nella sua rubrica l'intitolazione «Cosa giudicata formale» ed intende affermare il principio per il quale diventa irrevocabile il provvedimento quando sono scaduti i termini per proporre le citate impugnazioni o quando esse sono state proposte e risolte. La cosa giudicata formale, cui si riferisce la norma ricordata, attiene al dato relativo all'essere non più, o non ulteriormente, impugnabile una determinata decisione: impugnabile, però, con i mezzi di gravame ordinari, i quali, come si è accennato, sono quelli che condizionano il formarsi della cosa giudicata. Si distingue dal giudicato formale il giudicato sostanziale, che è relativo alla materia oggetto di pronuncia e descrive la porzione di questa che diventa definitivamente decisa per effetto del giudicato formale. La nozione di cosa giudicata sostanziale assume rilievo quando la pronuncia impugnata è articolata in più capi, risolve plurime domande o svolge distinte argomentazioni, su ciascuna delle quali la pronuncia possa costituire una decisione autonoma e definitiva.

In evidenza

Il principio di intangibilità del giudicato riveste una tale importanza, sia nell'ordinamento giuridico dell'Unione europea che in quelli nazionali, che la Corte di giustizia ha ripetutamente affermato che il diritto dell'Unione europea non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, nemmeno se ciò permetterebbe di risolvere una situazione di contrasto tra il diritto nazionale e quello dell'Unione (

Cass.

civ.,

sez. I, 6 maggio 2015, n. 9127

).

Il giudicato sostanziale di cui all'

art. 2909

c.c.

– il quale, come riflesso di quello formale previsto dall'

art. 324

c.p.c.

, fa stato ad ogni effetto tra le parti quanto all'accertamento di merito, positivo o negativo, del diritto controverso – si forma soltanto su ciò che ha costituito oggetto della decisione (o che avrebbe potuto costituirne l'oggetto, come nelle ipotesi di procedimenti speciali a cognizione eventuale), ricomprendendosi in esso anche gli accertamenti di fatto che abbiano rappresentato le premesse necessarie e il fondamento logico-giuridico, oltre che funzionale, per l'emanazione della pronuncia, con effetto preclusivo dell'esame degli stessi elementi in un successivo giudizio, quando l'azione in esso dispiegata abbia identici elementi costitutivi (

Cass

.

civ.,

sez. III, 20 aprile 2007, n. 9486

).

Riferimenti

BONSIGNORI, Impugnazioni civili in generale, in Dig. disc. priv., sez. civ., IX, Torino, 1993, 334 ss.;

CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, Padova, 1973;

FAZZALARI, Il processo ordinario di cognizione – Impugnazioni, Torino, 1990;

NICOTRA GUERRERA, Doppio grado di giudizio, diritti di difesa e principio di certezza, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2000, 127 ss.;

PIZZORUSSO, Sul principio del doppio grado di giurisdizione, in Riv. dir. proc., 1978, 33 ss.;

TARZIA, Le impugnazioni civili tra disfunzioni e riforme, in Riv. dir. proc., 1984, 14 ss.

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