Estinzione del processoFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 306
30 Settembre 2016
Inquadramento
L'estinzione del processo è una vicenda patologica che porta alla conclusione in rito del giudizio prima del termine naturale dello stesso. Il processo di cognizione può estinguersi, in particolare, per rinuncia agli atti da parte di chi ha proposto la domanda giudiziale o per inattività delle parti in causa. Se il giudizio si conclude con una pronuncia di estinzione, peraltro, non sono estinti né il diritto né l'azione, sicché – ove non sia maturato il termine di prescrizione – l'attore può riproporre la domanda in altro giudizio. Estinzione per rinuncia agli atti
La rinuncia agli atti del giudizio è la dichiarazione dell'attore di voler porre fine al processo prima che lo stesso giunga alla pronuncia sulla domanda dallo stesso proposta (Vaccarella 1989, 960).
La rinuncia agli atti del giudizio deve provenire dal soggetto che riveste la qualità di attore nella fase processuale alla quale la rinuncia si riferisce. Nell'ipotesi di litisconsorzio necessario, l'unitarietà del diritto sostanziale oggetto del giudizio comporta, tuttavia, che la rinuncia debba provenire da parte di tutti i litisconsorti costituiti. Diversamente nel caso di litisconsorzio facoltativo, sia proprio che improprio, la natura meramente connessa dei giudizi di ciascuno dei litisconsorti che restano in astratto separabili comporta che la rinuncia possa essere compiuta soltanto da uno o più dei litisconsorti con conseguente estinzione del procedimento limitatamente a taluno dei rapporti in contestazione per il caso di accettazione (cfr. Cass.civ., 20 novembre 2009, n. 24546, in Foro it., 2010, I, 1838, per la quale, ove nel medesimo processo siano trattate più cause tra loro scindibili, l'estinzione per rinuncia agli atti dell'attore accettata soltanto da alcune parti, non produce effetti nei confronti della causa instaurata dal terzo interventore volontario adesivo autonomo). Considerati i limitati effetti sul processo in corso, con salvezza dell'azione, dell'estinzione del processo per rinuncia agli atti, la stessa, ai sensi dell'art. 306 c.p.c., deve essere accettata dalle «parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione». Legittimato ad accettare la rinuncia è il convenuto costituito che, nel corso del processo, ha già formulato delle richieste, in base alle quali è astrattamente possibile pervenire ad un esito di merito del processo (Sassani, 1989, 252 ss.). Sulla scorta della formulazione letterale della previsione normativa può quindi senz'altro escludersi la necessità di accettazione del convenuto rimasto contumace (ferma la valenza assolutamente neutra ai fini dell'accoglimento della domanda della contumacia nel nostro sistema processuale) dell'avversa rinuncia agli atti del giudizio. Inoltre, con riferimento alle parti costituite, il medesimo art. 306 c.p.c. chiarisce che la rinuncia agli atti del giudizio deve essere accettata esclusivamente da quelle che potrebbero avere interesse alla prosecuzione dello stesso. Tale interesse, in particolare, deve essere valutato avendo riguardo al disposto dell'art. 100 c.p.c., secondo cui per agire o resistere in giudizio è necessario avervi interesse, inteso, per il convenuto, quale interesse a contraddire che si sostanzia nell'utilità concreta che lo stesso potrebbe ottenere da una pronuncia sul merito della controversia (cfr. Trib. Milano, sez. II, 17 novembre 2008, n. 13553, in Giustizia a Milano, 2008, n. 11, 80).
L'estinzione del processo può essere inoltre una sanzione all'inerzia processuale delle parti in determinate situazioni, in particolare quelle previste dall'art. 307 c.p.c. Tale previsione disciplina, al comma 1, una serie di ipotesi cui non segue immediatamente l'estinzione del processo ma una vicenda “intermedia”, ossia la cancellazione della causa dal ruolo, a fronte della quale il giudizio entra in uno stato di quiescenza, oggi determinato in tre mesi, al termine del quale, se non viene riassunto dalla parte interessata, si estingue. In ragione delle fattispecie di inattività processuale più gravi di cui al comma 2 dell'art. 307 c.p.c. deriva, invece, immediatamente l'estinzione del giudizio. Funzione dell'estinzione per inattività delle parti viene individuata nell'esigenza di accelerare il corso del processo e di garantirne un ritmo minimo imponendo alle parti il compimento di determinati atti entro ben precisi termini, pena il venir meno del processo (Saletti). Dopo la riforma realizzata dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, l'avvenuta estinzione – che ha efficacia soltanto dichiarativa rispetto all'evento estintivo - è rilevabile d'ufficio dal giudice (VACCARELLA 1975). Il comma 1 dell'art. 307 c.p.c. stabilisce che se, dopo la notificazione della citazione, nessuna delle parti si sia costituita entro il termine stabilito dall'art. 166 c.p.c. ovvero se, dopo la costituzione delle stese, il giudice abbia ordinato la cancellazione della causa dal ruolo, il processo si estingue ove nel termine di tre mesi da detta cancellazione lo stesso non sia stato riassunto. La prima fattispecie individuata dalla previsione normativa in esame è quella della mancata tempestiva costituzione in giudizio delle parti in causa, ipotesi nella quale ai sensi dell'art. 171 c.p.c., infatti, la causa stessa, non iscritta a ruolo, entra in uno stato di quiescenza e sarà destinata ad estinguersi nel caso di omessa tempestiva riassunzione (CALVOSA). Peraltro, le disposizioni degli art. 171 e 307, commi 1 e 2, c.p.c., sulla cancellazione della causa dal ruolo per la mancata costituzione delle parti, non si applicano se le parti, costituendosi tardivamente, dimostrino la comune volontà di dare impulso al processo, regolarizzando in tal modo la costituzione del rapporto processuale (Cass. civ., 25 luglio 2000, n. 9730). Inoltre, la causa può essere cancellata dal ruolo ove intervenga accordo ex art. 38, comma 2, c.p.c. tra le parti sull'incompetenza per territorio (derogabile) del Giudice inizialmente adito. Se il processo è quiescente per l'avvenuta cancellazione della causa dal ruolo, la parte interessata ad evitare l'estinzione del processo dovrà riassumere lo stesso dinanzi allo stesso giudice che ha ordinato la cancellazione, essendo invero nullo perché privo di requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo l'atto di riassunzione contenente l'invito a comparire dinanzi ad un giudice diverso (Cass. civ., 28 luglio 2000, n. 9906, in Foro it., 2001, I, 2937, con nota di FUIANO). Entro il termine normativamente previsto l'atto di riassunzione deve essere notificato, per i processi che secondo la regola si introducono mediante notifica dell'atto di citazione, alle parti costituite presso il procuratore, nonché personalmente alla parte rimasta contumace; diversamente nei riti c.d. da ricorso, il rispetto del termine per la riassunzione della causa cancellata dal ruolo dovrà essere valutato avendo riguardo al momento del deposito dell'atto in cancelleria. Ai sensi del secondo comma dell'art. 307 c.p.c. una volta che la causa sia stata cancellata dal ruolo e si sia verificata la tempestiva riassunzione della stessa, se si verifica un'altra fattispecie di cancellazione della causa dal ruolo la medesima si estingue immediatamente, senza l'anno di quiescenza (Cass. civ., 17 giugno 1994, n. 5858). Andando adesso a considerare le fattispecie di inattività c.d. qualificata, il comma 3 dell'art. 307 c.p.c. prevede che il processo si estingue immediatamente qualora alle parti cui spetti di rinnovare la citazione o di proseguire, riassumere o integrare il giudizio non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio indicato dal giudice. Le ipotesi più ricorrenti sono la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario pretermesso ex art. 102 c.p.c. (v. Cass. civ., n. 7460/2015) e l'omessa rinnovazione della notifica disposta ai sensi dell'art. 291 c.p.c. Tuttavia, come è stato più volte precisato in giurisprudenza è a tal fine necessario che l'ordine sia stato legittimamente emesso dal giudice, non verificandosi, in mancanza, estinzione del giudizio. Ad esempio, se il giudice ha errato nel ritenere che si versasse in un'ipotesi di litisconsorzio necessario non ha alcuna conseguenza sulla prosecuzione del processo la circostanza che la parte interessata non abbia integrato il contraddittorio nei confronti dell'apparente litisconsorte pretermesso. È pertanto consolidato l'orientamento per il quale l'estinzione del processo, per mancata integrazione del contraddittorio nel termine perentorio stabilito dal giudice a norma dell'art. 102, comma 2 c.p.c., postula la legittimità del relativo ordine, e, pertanto, va esclusa, ove quest'ultimo venga revocato nel prosieguo del giudizio per difetto dei suoi presupposti (Cass. civ., n. 1739/2013).
L'art. 308 c.p.c. disciplina l'estinzione del processo, avendo riguardo alla forma ed al regime del provvedimento dichiarativo della stessa. L'estinzione del processo deve essere pronunciata mediante ordinanza ed il rimedio previsto avverso la stessa è il reclamo al collegio, nei modi di cui ai commi 3, 4 e 5 dell'art. 178 c.p.c. Pertanto, entro dieci giorni dalla pronuncia dell'ordinanza di estinzione avvenuta in udienza ovvero dalla comunicazione della stessa, se resa con provvedimento emanato fuori udienza, è ammesso reclamo al collegio, che potrà essere presentato senza formalità mediante dichiarazione al verbale d'udienza ovvero con ricorso al giudice istruttore. Sul reclamo, specifica il comma 2 dell'art. 308 c.p.c., il collegio decide con sentenza se lo rigetta e con ordinanza se l'accoglie, ossia ove ritenga insussistenti i presupposti per la declaratoria di estinzione del giudizio. La distinzione operata in punto di forma del provvedimento del collegio che definisce il reclamo avverso l'ordinanza del giudice istruttore dichiarativa dell'estinzione del processo si riconnette alla necessità di assicurare, nella sola ipotesi di conferma del provvedimento definitorio in rito della controversia, alla parte la possibilità di proporre appello contro lo stesso. Peraltro, l'assetto descritto deve oggi essere coordinato con gli artt. 50-bis e ss. c.p.c., norme che, come noto, hanno dato attuazione alla generale riforma realizzata dal d.lg. 8 luglio 1999 n. 270 sull'istituzione del giudice unico di primo grado ed in forza dei quali, pertanto, fatta eccezione per le controversie specificamente indicate dallo stesso art. 50-bis c.p.c. attribuite alla cognizione del Tribunale in composizione collegiale, di regola le controversie in materia civile sono devolute alla cognizione e decisione di un giudice monocratico. In tale ipotesi, pertanto, non potendosi ritenere operante il rimedio pure normativamente previsto del reclamo al collegio avverso l'ordinanza di estinzione del processo pronunciata dal giudice unico di primo grado occorre verificare sia la forma (e la natura) del relativo provvedimento che i rimedi esperibili avverso lo stesso. In particolare, in ordine alla forma ed al regime di impugnazione della pronuncia dichiarativa dell'estinzione emessa dal giudice monocratico la dottrina appare divisa: secondo alcuni il provvedimento in questione deve assumere la forma dell'ordinanza (Cipriani, 155; Martinetto, 625), mentre per altri la pronuncia dichiarativa dell'estinzione resa dal giudice monocratico deve sempre consistere in una sentenza (Consolo-Luiso-Sassani, 114; Saletti, 1988, 12). A riguardo, costituisce ormai jus receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio per il quale quando il giudice istruttore opera come giudice monocratico, il provvedimento, con cui dichiara che il processo si è estinto, non è soggetto a reclamo e, siccome determina la chiusura del processo in base alla decisione di una questione pregiudiziale attinente al processo, ha natura di sentenza, anche se emesso in forma di ordinanza, con la sua conseguente impugnabilità mediante appello. Analogamente, il provvedimento del giudice monocratico che dichiara estinto il giudizio di appello, così definendolo, può essere impugnato solo con ricorso per cassazione, senza che l'eventuale adozione della forma dell'ordinanza valga a modificare il decorso dei termini ordinari di impugnazione (Cass. civ., 3 luglio 2008, n. 18242; conf. Cass. civ., 2 aprile 2009, n. 8002). Pertanto, davanti al giudice monocratico del tribunale l'estinzione del giudizio deve essere dichiarata con sentenza e non con ordinanza, trattandosi di provvedimento di natura decisoria: nel caso di erronea scelta della forma dell'ordinanza, il provvedimento ha natura sostanziale di sentenza impugnabile con gli ordinari mezzi di impugnazione e non è ammissibile contro di esso reclamo al collegio ex art. 178 c.p.c., essendo tale norma applicabile solo ai giudizi di competenza collegiale (cfr., ex ceteris, Cass. civ., 28 aprile 2004, n. 8092; Cass. civ., 6 giugno 2002, n. 8206, in Giur. it., 2003, 32, nonché, in sede di merito, Trib. Torino, sez. III, 14 dicembre 2007, in Giur. Merito, 2008, n. 4, 1043; Trib. Melfi 18 luglio 2003, ivi, 2004, 224, con nota di Amodio; Trib. Modena 15 giugno 1999, in Giur. it., 2000, 758; Trib. Milano 2 giugno 1997, in Nuova giur. civ. comm., 1998; 585, con nota di Corsini). Il comma 1 dell'art. 310 c.p.c. chiarisce espressamente che l'estinzione del processo non estingue l'azione con conseguente possibilità della parte di riproporre la medesima domanda in sede giudiziaria, salvo il maturare della prescrizione ovvero della decadenza in conformità con il diritto sostanziale. A fortiori deve ritenersi, pertanto, che a seguito dell'estinzione del processo non venga meno il diritto sostanziale oggetto del giudizio medesimo. Non trascurabili, anche in ragione della rilevata natura meramente processuale della pronuncia declaratoria dell'estinzione del processo, sono inoltre gli effetti della stessa sui c.d. stabilizzatori di diritto sostanziale, ossia sulla prescrizione e sulla decadenza. In particolare, è a riguardo prevalente l'orientamento che tende a distinguere tra effetto sospensivo ed effetto interruttivo istantaneo della prescrizione. Occorre in proposito richiamare l'art. 2945 c.c. il cui comma 2 prevede il c.d. effetto sospensivo correlato alla proposizione della domanda giudiziale sino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, mentre il comma 3 della medesima previsione, con più specifico riguardo all'estinzione del processo, stabilisce che se il processo si estingue, rimane fermo l'effetto interruttivo ed il nuovo periodo di prescrizione comincia dalla data dell'atto interruttivo. Si ritiene, quindi, che l'estinzione del processo, sia o meno dichiarata dal giudice, elimina l'effetto permanente dell'interruzione della prescrizione prodotto dalla domanda giudiziale ai sensi dell'art. 2945, comma 2, c.c., ma non incide sull'effetto interruttivo istantaneo della medesima, con la conseguenza che la prescrizione ricomincia a decorrere dalla data di detta domanda (v., tra le altre, Cass. civ., 13 aprile 2010, n. 8720; Cass. civ., 8 marzo 2010, n. 5570; Cass. civ., 18 dicembre 1996,n. 11318). Non interrompono invece la prescrizione anche gli atti processuali successivi alla proposizione della domanda, quali le deduzioni difensive o le istanze di merito o istruttorie o la comparsa conclusionale (Cass. civ., 6 novembre 1986, n. 6517). In sede applicativa si tende a ritenere inapplicabile, per converso, il comma 3 dell'art. 2945 c.c. anche alla decadenza. A riguardo, si è osservato, in particolare, che la domanda giudiziale è un evento idoneo ad impedire la decadenza di un diritto, non in quanto costituisca la manifestazione di una volontà sostanziale, ma perché instaura un rapporto processuale diretto ad ottenere l'effettivo intervento del giudice, sicché l'esercizio dell'azione giudiziaria non vale a sottrarre il diritto alla decadenza qualora il giudizio si estingua, facendo venire meno il rapporto processuale. Nella delineata prospettiva si è evidenziato, infatti, che l'inefficacia degli atti compiuti nel giudizio estinto, prevista dall'art. 310, comma 2 c.p.c., non può essere arbitrariamente limitata ai soli aspetti processuali, dovendo estendersi anche a quelli sostanziali, fatte salve le specifiche deroghe normative e, d'altra parte, la non estensione alla decadenza dell'effetto interruttivo della domanda giudiziale previsto dalle norme sulla prescrizione, secondo quanto stabilito dall'art. 2964 c.c., è giustificata dalla non omogeneità della natura e della funzione dei due istituti, trovando la prescrizione fondamento nell'inerzia del titolare del diritto, sintomatica per il protrarsi del tempo, del venir meno di un concreto interesse alla tutela, e, la decadenza nel fatto oggettivo del mancato esercizio del diritto entro un termine stabilito, nell'interesse generale o individuale, alla certezza di una determinata situazione giuridica (Cass. civ., 18 gennaio 2007, n. 1090, in Vita not., 2007, n. 1, 185; Cass. civ., 19 aprile 1982, n. 2407). Il secondo comma dell'art. 310 c.p.c. prevede che l'estinzione rende inefficaci gli atti compiuti, ma non anche le sentenze di merito emanate nel corso del processo e le pronunce che regolano la competenza. La portata sotto tale profilo della disposizione normativa in commento è di rilevanza fondamentale ai fini della distinzione tra sentenze di rito e sentenze di merito, in quanto proprio sulla scorta della stessa è possibile affermare il generale principio per il quale le prime sono inidonee al giudicato sostanziale, mentre soltanto le sentenze di merito, sia di rigetto che di accoglimento, possono produrre effetti ex art. 2909 c.c. anche oltre il giudizio nel quale sono state pronunciate, hanno quindi efficacia c.d. panprocessuale. Nel novero delle sentenze di merito pronunciate nel corso del giudizio estinto, che possono sopravvivere all'estinzione dello stesso occorre ricordare, in primo luogo, le sentenze non definitive pronunciate su questioni preliminari di merito, come, ad esempio, la sentenza di rigetto dell'eccezione preliminare di prescrizione. Inoltre, costituiscono sentenze di merito idonee a conservare la propria efficacia anche successivamente all'estinzione del processo le sentenze rese soltanto su alcune delle domande proposte in caso di processo oggettivamente cumulato, in mancanza di pronuncia di separazione tra le cause distinte nonché le sentenze di condanna generica pronunciate ai sensi dell'art. 278 c.p.c. L'ultima parte del capoverso dell'art. 310 c.p.c. chiarisce espressamente che l'estinzione del processo non determina l'inefficacia anche delle «pronunce che regolano la competenza». Il riferimento non è, peraltro, a tutti i provvedimenti in tema di competenza che, invero, se pronunciati dai giudici di merito, seguono la regola generale dell'inidoneità delle sentenze sul processo a sopravvivere all'estinzione dello stesso quanto esclusivamente alle decisioni in tema di competenza pronunciate in sede di regolamento dalla Suprema Corte di Cassazione. Nella delineata prospettiva, è stato invero più volte evidenziato in giurisprudenza che le decisioni che statuiscono sulla competenza, a eccezione di quelle pronunziate dalla Corte di cassazione in sede di regolamento di competenza (cfr. Cass. civ., 26 agosto 2003, n. 12509), non sono suscettibili di passaggio in giudicato in senso sostanziale, mentre - sul piano formale - si traducono solo in una preclusione della riproposizione della questione davanti al giudice dello stesso processo, senza fare stato in un distinto giudizio, ex novo promosso dalle medesime parti (Cass. civ., 31 ottobre 2008, n. 26327). La statuizione emessa dalla Corte di cassazione in sede di regolamento di competenza esaurisce invece la relativa questione con riguardo a tutti i profili ipotizzabili, anche se concretamente non esaminati, poiché la funzione peculiare di tale istituto è l'individuazione definitiva del giudice competente per una specifica causa, tanto che l'art. 310 c.p.c. prevede che la relativa sentenza conservi efficacia anche in caso di estinzione del processo, di talché il giudice dichiarato competente, davanti al quale la causa sia riassunta, non può declinare la sua competenza neanche sotto un profilo diverso da quello per il quale era esplicitamente sorta controversia (v., tra le altre, Cass. civ., 21 maggio 1998, n. 5101; Cass. civ., 10 agosto 1995, n. 8809). Sebbene la previsione normativa in esame rimanga silente sulla questione, e ciò dovrebbe in astratto far propendere gli interpreti per la tesi contraria, sulla scorta dell'argomento sistematico per il quale ex art. 65 legge sull'ordinamento giudiziario la Corte di Cassazione riveste nel nostro sistema processuale il ruolo di giudice regolatore della giurisdizione anche nei rapporti con i giudici speciali, è prevalente in dottrina l'orientamento per il quale anche le decisioni pronunciate dalla Suprema Corte in tema di giurisdizione rivestono efficacia c.d. «pan processuale». Tale impostazione interpretativa appare del resto suffragata anche nella recente giurisprudenza all'interno della quale si è evidenziato che l'art. 65 ord. giud. attribuisce alla Corte di cassazione la funzione istituzionale di organo regolatore sia della giurisdizione sia della competenza: di conseguenza le pronunce della Suprema Corte sulla giurisdizione e sulla competenza hanno un'efficacia c.d. «panprocessuale» e quindi, anche se estranee alla nozione di cosa giudicata sostanziale di cui all'art. 2909 c.c., fanno eccezione rispetto alla regola generale di cui al comma secondo dell'art. 310 c.p.c., che non consente alle sentenze di contenuto processuale di sopravvivere all'estinzione del processo e quindi di avere efficacia vincolante nei successivi processi tra le stesse parti (Cass. civ., 14 gennaio 2005, n. 703, in Giust. Civ., 2006, I, 667). La Corte di legittimità ha tuttavia chiarito che la decisione resa dalle sezioni unite in materia di giurisdizione, non contenendo alcuna statuizione sul merito della pretesa azionata, è idonea a passare in giudicato esclusivamente sulla questione di giurisdizione, con la conseguenza che, ove per giungere alla pronuncia sulla giurisdizione le sezioni unite abbiano dovuto procedere alla qualificazione del rapporto dedotto, la stessa, oltre a non acquisire efficacia vincolante per il giudice al quale la giurisdizione è attribuita, non può assumere un'efficacia neppure «persuasiva», atteso che la decisione sulla giurisdizione è determinata dall'oggetto della domanda in relazione al petitum sostanziale introdotto dall'attore e pertanto l'accertamento delle sezioni unite è necessariamente fondato su elementi allegati dalla parte e non ancora accertati (Cass. civ., 28 luglio 2003, n. 11585). Tra i provvedimenti che eccezionalmente sopravvivono anche a seguito dell'estinzione del processo occorre inoltre ricordare anche le ordinanze anticipatorie di condanna di cui agli artt. 186-bis, 186-ter e 186-quater c.p.c., provvedimenti che, anzi, per espressa previsione normativa tendono ad acquistare proprio in tale ipotesi peculiare stabilità. Peraltro, come evidente dalla richiamata giurisprudenza, la stabilità acquisita dall'ordinanza provvisoria di rilascio a seguito dell'eventuale estinzione del processo di merito non è l'autorità di cosa giudicata ex art. 2909 c.c. bensì soltanto la più limitata idonea a costituire titolo per l'esecuzione forzata nei confronti del conduttore che potrà, di conseguenza, riproporre in un nuovo processo le questioni di merito già oggetto del precedente giudizio estinto. In accordo con l'art. 310, comma 3, c.p.c. le prove raccolte nel giudizio estinto sono valutate dal giudice a norma dell'art. 116, comma 2, c.p.c. La norma afferma pertanto la regola generale per la quale le prove assunte nel processo, a seguito dell'eventuale estinzione dello stesso, “degradano” ad argomenti di prova. Prima di evidenziare le non trascurabili problematiche interpretative sollevate dalla previsione in esame e le soluzioni per le stesse prospettate, occorre tener presente che, comunque, in giurisprudenza non si ritiene che il Giudice del processo riproposto possa tener conto automaticamente, ossia a prescindere da un'istanza della parte interessata, delle prove raccolte nel giudizio estinto. In particolare, in proposito, è stato chiarito che nel processo civile il giudice può trarre argomenti di prova, ai sensi dell'art. 116, comma 2, c.p.c., anche dalle risultanze istruttorie di un processo estinto, le quali, se si trovano raccolte nel relativo fascicolo di ufficio, non abbisognano di particolari formalità di produzione od esibizione, per essere prese in considerazione, risultando sufficiente l'istanza della parte interessata e la conseguente acquisizione del suddetto fascicolo d'ufficio agli atti del giudizio (v., tra le altre, Cass. civ., 4 agosto 2005, n. 16372; Cass. civ., 6 agosto 2003, n. 11842, in Foro it., 2004, I, 970; Cass. civ., 26 febbraio 1998, n. 2117). Sulla portata applicativa del comma 3 dell'art. 310 c.p.c. soprattutto la dottrina ha fornito un contributo rilevante per ridurre mediante argomenti logico-sistematici le ipotesi nelle quali le prove degradano a meri argomenti di prova. Sotto un primo profilo, in particolare, valorizzando il riferimento alle prove “raccolte” si è escluso che la norma sia applicabile anche a prove precostituite come quelle documentali il cui valore sul piano istruttorio non può venir meno per la semplice circostanza che i documenti sono stati in precedenza prodotti in un giudizio successivamente estinto. In secondo luogo, si è osservato che, comunque, la regola sancita dal comma 3 dell'art. 310 c.p.c. può operare con esclusivo riguardo alle prove liberamente apprezzabili dal Giudice e non anche per le prove c.d. legali, come la confessione ed il giuramento, la cui efficacia sul piano istruttorio è invero predeterminata dal legislatore.
Riferimenti
BIANCHI D'ESPINOSA – BALDI, Estinzione del processo, EdD, XV, Milano 1966, 916; CALVOSA, Estinzione del processo civile, NNDI, VI, Torino 1960, VI, 980; MASSARI, Rinunzia agli atti del giudizio, NNDI, XV, Torino 1968, 1156; MICHELI, La rinuncia agli atti del giudizio, Padova 1937; ORIANI, Processo di cognizione e interruzione della prescrizione, Napoli 1977; SALETTI, La riassunzione del processo civile, Milano 1981; SALETTI, Estinzione del processo, E.G.I., XIII, Roma 1988, 1 ss.; SATTA, L'estinzione del processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1957, 1005; VACCARELLA, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli 1975; VACCARELLA, Rinuncia agli atti del giudizio, EdD, XL, Milano 1989, 960. |