Filtro in appello

Mauro Di Marzio
28 Maggio 2016

Modello decisorio semplificato introdotto dal legislatore nel 2012 all'art. 348-bis e ter c.p.c. per l'ipotesi che l'appello proposto non abbia una ragionevole probabilità di essere accolto.

Inquadramento

IN FASE DI AGGIORNAMENTO AUTORALE DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

All'evidente scopo di ridare ossigeno alle corti d'appello, messe in grave difficoltà dall'essere state trasformate in giudici di appello non solo del tribunale (divenuto per lo più monocratico), ma anche del soppresso pretore, il legislatore, nel 2012, ha introdotto all'art. 348-bis e ter c.p.c. un modello decisorio semplificato — subito definito dalla dottrina quale «filtro» — per l'ipotesi che l'appello proposto non abbia una ragionevole probabilità di essere accolto: tutto ciò all'evidente scopo di creare un meccanismo funzionale ad una scrematura delle non rare impugnazioni campate in aria a fronte da quelle meritevoli di essere approfonditamente trattate.

Ambito di applicazione

Non sempre il giudice può adottare l'ordinanza di cui all'art. 348-bis c.p.c.. Essa è infatti esclusa per gli appelli proposti:

a) in cause di cui all'art. 70, 1 comma 1, c.p.c.;

b) a norma dell'art. 702-quater.

Quanto al primo caso, la scelta di sottrarre all'applicazione dell'art. 348-bis c.p.c. le cause nelle quali è obbligatorio l'intervento del pubblico ministero (cause che egli stesso potrebbe proporre, cause matrimoniali, stato e capacità delle persone) è stata censurata (p. es., De Cristofaro, Appello e cassazione alla prova dell'ennesima “riforma urgente”: quando i rimedi peggiorano il male (considerazioni di prima lettura del d.l. n. 83/2012), in www.judicium.it; Impagnatiello, Crescita del Paese e funzionalità delle impugnazioni civili: note a prima lettura del d.l. 83/2012, in www.judicium.it): pare tuttavia evidente che le cause in cui è obbligatoria la partecipazione del pubblico ministero presentino un interesse pubblico e, come tale, ben possano essere assoggettate ad una disciplina di impugnazione differenziata.

Quanto al secondo caso, il disegno del legislatore è altrettanto chiaro. Il cosiddetto procedimento sommario di cognizione è impostato come procedimento per l'appunto sommario in primo grado, il che merita di essere compensato, nel disegno perseguito, con un giudizio di appello a piena cognizione. Per questo il citato art. 702-quater c.p.c., anch'esso novellato dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni in l. 7 agosto 2012, n. 134, ha mantenuto l'ammissibilità in appello delle prove indispensabili, scomparse invece dalla previsione dell'art. 345 c.p.c.. A questo riguardo è importante sottolineare un dato. Il ceto forense ha condotto una dura battaglia contro il filtro in appello, ma si tratta per ora di una battaglia persa, dal momento che il Senato ha approvato lo scorso di marzo 2016 la delega al Governo recante «Disposizioni per l'efficienza del processo civile» (attualmente Atto Camera 2953), delega che prevede tra l'altro l'ampliamento del filtro alle impugnazioni contro i provvedimenti di primo grado emessi con rito sommario di cognizione.

Al di là delle due eccezioni ora esaminate, merita attenzione la clausola di salvezza con cui l'art. 348-bis c.p.c. si apre: «Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'appello». Val quanto dire che la dichiarazione di inammissibilità con ordinanza, in ragione della mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento dell'impugnazione, in tanto può trovare applicazione, in quanto l'impugnazione abbia superato il vaglio di ammissibilità sotto i diversi profili normativamente previsti e logicamente antecedenti. Ciò significa che andrà dichiarata con sentenza l'inammissibilità dell'appello perché, ad esempio, proposto fuori termine, ovvero da soggetto non legittimato, ovvero a mezzo di difensore mancante di procura, e così via. Altrettanto vale nei casi in cui deve essere dichiarata l'improcedibilità dell'appello per la costituzione tardiva o la mancata comparizione dell'appellante alla prima udienza ed a quella successiva. In particolare, richiede la sentenza, secondo la regola generale, e non l'ordinanza di cui all'art. 348-bis c.p.c., la dichiarazione di inammissibilità per mancanza del requisito di specificità dei motivi (v. APPELLO, SPECIFICITÀ DEI MOTIVI). In altre parole, un appello non suffragato da motivi specifici non dà luogo ad un'impugnazione che non ha probabilità di essere accolta, bensì ad una impugnazione mancante dei requisiti minimi necessari per valicare, a monte, la soglia dell'ammissibilità, oltre la quale il giudice prende cognizione del merito della controversia. Questa soluzione (per la quale v. Di Marzio, L'appello civile dopo la riforma, Milano, 2013, 389) è stata inizialmente disattesa in una decisione della SC (Cass. civ., sez. III, 17 aprile 2014, n. 8940), la quale ha in buona sostanza fatto leva sulla ratio dell'intervento di riforma, sostenendo che, se la forma semplificata di decisione può essere adottata in caso di appello mancante di ragionevoli probabilità di accoglimento, a maggior ragione deve esserlo in caso di appello radicalmente inammissibile o improcedibile. I termini della questione sono però riportati al rispetto del dato normativo dalle Sezioni Unite, che, con Cass. civ., sez. un., 2 febbraio 2016, n. 1914, hanno espressamente affermato, sulla scia di Cass. civ., sez. II, 27 marzo 2014, n. 7273, che l'ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. pronunciata in caso di appello non già manifestamente infondato, ma inammissibile o improcedibile, è emessa fuori dei casi previsti dalla legge ed è ricorribile per cassazione.

Resta da dire che, in caso di proposizione di appello incidentale, il successivo art. 348-ter c.p.c. consente l'impiego dell'ordinanza di inammissibilità per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento dell'impugnazione solo quando ne ricorrano i presupposti sia con riguardo alla impugnazione principale che a quella incidentale. Qui bisogna aggiungere e sottolineare che tale norma, nel prevedere l'impiego dell'ordinanza di inammissibilità nel solo caso di mancanza di probabilità di accoglimento tanto dell'impugnazione principale quanto di quella incidentale, si riferisce espressamente alla sola impugnazione incidentale tempestiva, attraverso il richiamo dell'art. 333 c.p.c.. Non è invece richiamato il successivo art. 334 c.p.c., concernente le impugnazioni incidentali tardive: la qual cosa sembra avere una giustificazione del tutto evidente, dal momento che l'inammissibilità dell'impugnazione principale, sia pure per mancanza di probabilità di accoglimento-manifesta infondatezza, rende perciò stesso inefficace-inammissibile l'impugnazione incidentale, ai sensi del comma 2 della disposizione, ben prima dello scrutinio della sua (astrattamente possibile) fondatezza. Certamente, l'impugnazione incidentale tardiva tornerà in gioco, tuttavia, se riproposta all'esito della cassazione con rinvio al giudice d'appello della sentenza di primo grado.

Significato della nozione di «ragionevole probabilità di accoglimento»

La nozione di «ragionevole probabilità di accoglimento dell'impugnazione», ricalcata su analoga norma introdotta in Germania nel 2001, è stata immediatamente oggetto di critiche serrate da parte della dottrina.

È stato detto che «il parametro di giudizio che l'impugnazione non abbia una "ragionevole probabilità di essere accolta" concede un margine di apprezzamento eccessivo al giudice dell'impugnazione» (Caponi, La riforma dell'appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, in www.judicium.it). E si è aggiunto che «assenza di ragionevole probabilità di accoglimento non significa manifesta infondatezza … Piuttosto …evoca un parallelismo con il fumus boni iuris … Il che, com'è facile comprendere, per un verso dischiude spazi pericolosamente ampi di applicazione della norma» (Impagnatiello, Crescita del Paese e funzionalità delle impugnazioni civili: note a prima lettura del d.l. 83/2012, in www.judicium.it). Ancora: «È del tutto sbagliato incardinare un filtro su una così generica prognosi sull'esito del giudizio» (De Cristofaro, Appello e cassazione alla prova dell'ennesima “riforma urgente”: quando i rimedi peggiorano il male (considerazioni di prima lettura del d.l. n. 83/2012), in www.judicium.it). Nella stessa linea: «Ciò che è contestato è l'assenza di limiti alla evidente discrezionalità che accompagna un siffatto potere, al quale non fa da contrappeso alcun controllo successivo» (Galletto, «Doppio filtro» in appello, «doppia conforme» e danni collaterali, in www.judicium.it). Parimenti: «Mi chiedo come sia pensabile che la decisione dell'appello possa essere rimessa ad una espressione totalmente elastica quale quella di “ragionevole probabilità”, ove tutto e il contrario di tutto può essere ragionevole, e tutto e il contrario di tutto può essere probabile» (Scarselli, Sul nuovo filtro per proporre appello, www.ordineavvocatifirenze.it). Si potrebbe andare avanti.

Il rischio che l'elastica formula legislativa potesse prestarsi ad abusi è stato però nell'immediatezza dell'entrata in vigore neutralizzato dall'interpretazione che subito la giurisprudenza ha dato della norma, interpretazione riassunta nella massima secondo cui la mancanza di una ragionevole probabilità di accoglimento dell'appello si risolve nella manifesta infondatezza dell'impugnazione e il nucleo centrale della decisione non si discosta da quello che sostiene una sentenza di rigetto, differenziandosene solo per la maggiore rapidità di stesura (App. Roma 30 gennaio 2013, in Foro it., 2013, I, 969; Corriere Giur., 2013, 976; Riv. dir. proc., 2013, 3, 711; Giur. It., 2013, 1629, estensore l'autore di queste pagine). E che l'ambito applicativo dell'ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. sia quello «dell'impugnazione manifestamente infondata nel merito» è stato testualmente confermato da Cass. civ., sez. un., 2 febbraio 2016, n. 1914. In definitiva, l'appello non ha ragionevoli probabilità di accoglimento quando è prima facie infondato, così sfacciatamente infondato da non meritare che il giudice destini ad esso il suo tempo prezioso: questo, del resto, è il senso della riforma, volta a rispedire al mittente le impugnazioni dilatorie e pretestuose. L'ordinanza di cui all'art. 348-bis c.p.c., per questa via, si inserisce in un ampio intervento legislativo (si pensi al comma 3 dell'art. 96 c.p.c. o all'art. 4, comma 6, d.m. Giustizia 20 luglio 2012, n. 140, in materia di compensi professionali) volto a sanzionare l'abuso del processo, abuso in cui si risolve l'esercizio del diritto di interporre appello in un quadro di plateale infondatezza.

È lecito interrogarsi, a questo punto, sul perché la norma in esame sanzioni la mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento dell'impugnazione, la quale si risolve in un giudizio di merito, con l'inammissibilità: pare a chi scrive che la previsione di tale sanzione, connaturata alla funzione di «filtro in entrata» che il nuovo art. 348-bis c.p.c. è destinato ad assolvere a fronte di una condotta di abuso del processo, sia volta a sottolineare il peculiare aspetto dell'ordinanza in questione, la quale è radicalmente priva dell'effetto sostitutivo (V. APPELLO IN GENERALE) che è proprio della sentenza d'appello. Ciò costituisce necessaria premessa logica del congegno adottato dal legislatore, che ha previsto, all'art. 348-ter c.p.c., in caso di ordinanza resa ai sensi dell'art. 348-bis c.p.c., l'impugnazione per cassazione non di essa, bensì della sentenza di primo dato.

La collocazione temporale dell'ordinanza

L'art. 348-ter c.p.c. prevede che all'udienza di cui all'art. 350 c.p.c., prima di procedere alla trattazione, il giudice, sentite le parti, provvede a dichiarare inammissibile l'appello a norma dell'art. 348-bis c.p.c. con ordinanza succintamente motivata anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi, regolando altresì le spese di causa.

L'art. 350 c.p.c., dopo aver stabilito che la trattazione dell'appello, davanti alle corti d'appello, è collegiale, mentre è monocratica davanti al tribunale, individua talune attività che il giudice d'appello deve o può compiere alla prima udienza. Questi, in particolare:

i) deve verificare la regolare instaurazione del contraddittorio;

ii) se l'appellato non si è costituito deve alternativamente ordinare la rinnovazione della notificazione dell'atto di appello, quando ne ricorrano i presupposti ai sensi dell'art. 291 c.p.c., ovvero dichiarare la contumacia dell'appellato;

iii) deve impartire i provvedimenti di cui agli artt. 331 e 332 c.p.c., ossia disporre l'integrazione del contraddittorio se la sentenza, pronunciata tra più parti in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti, non è stata impugnata nei confronti di tutte, ovvero disporre la notificazione dell'impugnazione relativa a cause scindibili;

iv) deve assumere i provvedimenti necessari alla riunione degli appelli eventualmente proposti contro la stessa sentenza, ai sensi dell'art. 335 c.p.c.;

v) può procedere al tentativo di conciliazione ordinando, quando occorre, la comparizione personale delle parti.

Fatta eccezione per quest'ultimo eventuale adempimento, meramente discrezionale, non sembra potersi dubitare che l'ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità per manifesta infondatezza dell'impugnazione non possa che seguire alla verifica della regolare instaurazione del contraddittorio e all'assunzione dei consequenziali provvedimenti eventualmente necessari, oltre che alla riunione dei diversi appelli proposti contro la medesima sentenza. La definizione del giudizio di impugnazione, sia pure attraverso l'ordinanza di cui all'art. 348-bis c.p.c., presuppone necessariamente infatti, a monte, che una regolare instaurazione del contraddittorio vi sia stata: il che è ulteriormente comprovato dalla significativa previsione dell'obbligo del giudice, previsto in sede di conversione del d.l. n. 83 del 2012, che ha introdotto la nuova norma, di sentire le parti.

La lettera della legge consente dunque, per un verso, di escludere che l'ordinanza di inammissibilità possa essere pronunciata prima ancora dell'udienza, ma, per altro verso, non impedisce che la stessa ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. sia pronunciata, in determinati casi, in una udienza successiva alla prima. Ciò accadrà fisiologicamente nei casi di rinnovazione della citazione in appello; di integrazione del contraddittorio o di notificazione dell'impugnazione relativa a cause scindibili; di riunione degli appelli, nei casi in cui il provvedimento di riunione debba essere assunto per il tramite dell'intervento del presidente del tribunale o della corte d'appello e, dunque, imponga il rinvio.

La norma stabilisce che l'ordinanza dichiarativa della inammissibilità è pronunciata in udienza, ma non v'è ragione di dubitare che il giudice possa utilizzare lo strumento della riserva, ai sensi dell'art. 186 c.p.c., applicabile anche nella specie attraverso il rinvio operato dall'art. 359 c.p.c.: anzi, dato il rilievo del provvedimento, idoneo a definire il giudizio, è da credere che il modulo di riserva dell'ordinanza sarà quello più comunemente adottato.

Viceversa, è da escludere che l'ordinanza di cui all'art. 348-bis c.p.c. possa essere pronunciata dopo che sia stato dato corso alla trattazione, ovvero che l'impugnazione sia stata trattenuta in decisione tanto secondo il modulo decisorio previsto dall'art. 352 c.p.c. (precisazione delle conclusioni e scambio delle conclusionali e repliche), quanto secondo quello dettato dall'art. 281-sexies c.p.c. (anche su tali aspetti Cass. civ., sez. un., 2 febbraio 2016, n. 1914 ha fugato ogni dubbio).

L'obbligo di sentire le parti

L'espressione «sentite le parti», introdotta in sede di conversione del d.l. n. 83 del 2012, è stata probabilmente adottata anzitutto al fine di impedire che il «filtro» previsto dalla nuova norma potesse essere cameralizzato e, cioè, che l'ordinanza di cui all'art. 348-bis c.p.c. potesse essere pronunciata prima ancora ed indipendentemente dalla prima udienza.

L'inciso induce tuttavia ad ulteriori considerazioni.

Non c'è dubbio che il giudice possa pronunciare l'ordinanza di inammissibilità anche d'ufficio, indipendentemente da una istanza dell'appellato. E — è da credere — la pronuncia d'ufficio sarà ipotesi non infrequente. Bisogna dire, al riguardo, che la formulazione della norma, la quale prevede la pronuncia dell'ordinanza in limine litis, subito dopo il perfezionamento del contraddittorio, lascia presupporre un preciso modulo di lavoro da parte del giudice d'appello, ossia il preventivo scrutinio (secondo un metodo che potremmo dire della pre-camera di consiglio) degli atti di causa, anzitutto la sentenza impugnata, l'atto d'appello e la comparsa di risposta. È infatti indubbio che il compito di scrutinare la mancanza di probabilità di accoglimento-manifesta infondatezza spetti al collegio, giacché, ai sensi dell'art. 350 c.p.c., anche dopo la modifica introdotta dall'art. 1, comma 1, lett. b, l. 12 novembre 2011, n. 183, il consigliere istruttore può essere delegato soltanto per l'«assunzione» delle prove.

L'obbligo di sentire le parti comporta allora che il giudice di appello debba preavvisare le medesime della possibile decisione dell'impugnazione mediante l'ordinanza di cui all'art. 348-bis c.p.c., sottoponendo tale eventualità al dibattito processuale: l'adozione del modulo di lavoro di cui si è detto, collocato in un momento antecedente allo svolgimento dell'udienza, rende indispensabile che le parti possono interloquire sul punto.

La scelta legislativa appare opportuna, dal momento che l'adozione del modulo decisorio — quello dell'art. 348-bis c.p.c. in luogo di quello degli artt. 352 e 281-sexies c.p.c. — si colloca al di fuori dell'ambito di applicazione del novellato art. 101 c.p.c., il quale stabilisce che «se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio» il giudice deve consentire alle parti di interloquire al riguardo: sicché, in difetto dell'inciso «sentite le parti», avrebbe potuto immaginarsi la decisione mediante ordinanza non preceduta da alcun dibattito tra le parti.

Viceversa, l'immediata discussione orale è lo strumento più idoneo ed efficace (a fronte del dispendioso congegno ideato dall'art. 380-ter c.p.c. per il «filtro» in cassazione) al fine di smontare la decisione in via di formazione sulla improbabilità di accoglimento-manifesta infondatezza dell'appello.

Poiché le parti devono essere «sentite», è da escludere che abbiano diritto a scrivere: ossia ad ottenere l'assegnazione di un rinvio con termine per note, sostanzialmente riproduttivo del modello del citato art. 380-ter c.p.c.. Tuttavia ciò non è impedito, ai sensi dell'art. 83-bis disp. att. c.p.c..

La pronuncia sulle spese

Stabilisce l'art. 348-bis c.p.c. che l'ordinanza di cui all'art. 348-bis c.p.c. contiene la pronuncia sulle spese. Ciò costituisce naturale proiezione della regola generale dettata dall'art. 91 c.p.c. secondo cui la statuizione sulle spese presuppone una decisione definitiva del giudizio, non importa se di rito o di merito. È noto, d'altronde, che l'art. 91 c.p.c., secondo il quale il giudice «con la sentenza che chiude il processo condanna la parte soccombente al rimborso delle spese», trova applicazione con riguardo ad ogni provvedimento, ancorché reso in forma di ordinanza o decreto, che, nel risolvere contrapposte posizioni elimini il procedimento davanti al giudice che lo emette, quando si renda necessario ristorare la parte vittoriosa degli oneri inerenti al dispendio di attività processuale legata da nesso causale con l'iniziativa dell'avversario (Cass. civ., sez. un., 17 ottobre 1983, n. 6066; Cass. civ., sez. II, 16 novembre 1984).

Qui si è manifestato un aspetto critico dalla disposizione, giacché il provvedimento sulle spese, per il suo contenuto decisorio e definitivo, non può non essere sottoposto ad un qualche controllo, che, in mancanza d'altro rimedio, si è ritenuto in dottrina debba essere il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.. L'impugnabilità per cassazione del provvedimento sulle spese è stato riconosciuto da Cass. civ., sez. un., 2 febbraio 2016, n. 1914, sicché è ormai superfluo dilungarsi ad evidenziare, sul tema, le diverse possibili ragioni in conflitto (v. Di Marzio, L'appello civile dopo la riforma, Milano, 2013, 403).

L'impugnazione della sentenza di primo grado e l'impugnabilità dell'ordinanza

L'ordinanza di inammissibilità dell'appello fa sì che contro il provvedimento di primo grado possa essere proposto ricorso per cassazione nell'ordinario termine breve decorrente dalla comunicazione o notificazione (se anteriore) dell'ordinanza. La formula adottata dal legislatore richiama quella dell'art. 669-terdecies c.p.c.. Nel nostro caso, però, manca il riferimento alla «pronuncia in udienza», sicché è anzitutto da credere che la lettura dell'ordinanza di inammissibilità in udienza non faccia decorrere il menzionato termine breve, fissato in 60 giorni dall'art. 325 c.p.c.. Viceversa, termine breve di sessanta giorni per proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, in caso di ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità dell'appello ai sensi dell'art. 348-ter c.p.c., decorre, prioritariarnente, dalla comunicazione di tale ordinanza, sicché la data di quest'ultima non è solo presupposto dell'impugnazione in sé considerata, ma pure requisito essenziale (di contenuto-forma) del ricorso introduttivo, restando onere del ricorrente allegare gli elementi necessari per configurarne la tempestività (Cass. civ., sez. VI, 9 ottobre 2015, n. 20236). È senz'altro valida, allo scopo, la comunicazione effettuata a mezzo Pec (Cass. civ., sez. VI, 2 luglio 2015, n. 13622; Cass. civ., sez. VI, 5 novembre 2014, n. 23526). In mancanza (e solo in mancanza) di comunicazione o notificazione dell'ordinanza troverà applicazione il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c. (Cass. civ., sez. VI, 14 dicembre 2015, n. 25115). Quest'ultima disposizione stabilisce che, indipendentemente dalla notificazione (ed in questo caso anche dalla eventuale comunicazione) il ricorso per cassazione non può essere proposto decorsi sei mesi «dalla pubblicazione della sentenza». Nel caso in esame, tuttavia, il termine in questione, quantunque il ricorso per cassazione sia indirizzato contro la sentenza di primo grado, deve essere computato dalla pronuncia dell'ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità, non dalla pronuncia della sentenza di primo grado. È dunque da ritenere che l'art. 327 c.p.c., letto nei limiti della compatibilità, debba essere inteso nel senso che il corso del termine lungo per l'impugnazione prenda a svolgersi dal deposito dell'ordinanza in cancelleria, equiparato alla pubblicazione della sentenza.

È della massima importanza rammentare che, nel ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado ai sensi dell'art. 348-ter c.p.c., l'atto d'appello, dichiarato inammissibile, e la relativa ordinanza, pronunciata ai sensi dell'art. 348-bis c.p.c., costituiscono requisiti processuali speciali di ammissibilità, con la conseguenza che, ai sensi dell'art. 366, n. 3, c.p.c., è necessario che nel suddetto ricorso per cassazione sia fatta espressa menzione dei motivi di appello e della motivazione dell'ordinanza ex art. 348-bis c.p.c., al fine di evidenziare l'insussistenza di un giudicato interno sulle questioni sottoposte al vaglio del giudice di legittimità e già prospettate al giudice del gravame (Cass. civ., sez. VI, 15 maggio 2014, n. 10722).

L'art. 348-ter c.p.c. non dice espressamente che l'ordinanza di inammissibilità non è impugnabile. Ma la non impugnabilità è conseguenza diretta ed evidente della previsione, a seguito dell'ordinanza di inammissibilità, dell'impugnazione della sentenza di primo grado.

Ciò, tuttavia, non fuga ogni dubbio in ordine all'impugnabilità dell'ordinanza. È certo, cioè, che l'ordinanza resa entro il quadro del paradigma legale non è impugnabile, salvo, come si è visto, per il profilo concernente le spese. E, tuttavia, può ipotizzarsi la pronuncia di un'ordinanza di inammissibilità abnorme, poiché pronunciata al di fuori dei casi previsti dalla legge e senza il rispetto del contenuto che essa impone. Si immagini i casi dell'ordinanza pronunciata prima ancora ed al di fuori dell'udienza, ovvero di un'ordinanza pronunciata in appelli che richiedono la partecipazione del P.M.; in appelli ex art. 702-quater c.p.c.; in appelli principali con omessa pronuncia su quelli incidentali; in appelli proposti a giudice incompetente; in appelli in cui andava dichiarata l'inammissibilità o improcedibilità in rito.

In tutti questi casi la strada del ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. (ma in talune ipotesi anche del ricorso ex art. 360 c.p.c.) è stata definitivamente aperta dalla più volte citata Cass. civ., sez. un., 2 febbraio 2016, n. 1914.

I limiti di ammissibilità del ricorso per cassazione in caso di «doppia conforme»

Aggiunge il comma 4 dell'art. 348-ter che se l'ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado, il ricorso per cassazione avverso quest'ultima è limitato ai motivi di cui all'art. 360, nn. 1-4 c.p.c.. È cioè escluso il ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, secondo l'attuale previsione del n. 5 dell'art. 360 c.p.c. che consentiva l'impugnazione — dando così di fatto la stura al complessivo riesame del merito della lite da parte della S.C. — per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio.

La limitazione del ricorso per cassazione in caso di «doppia conforme», infine, si applica, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 348-ter c.p.c., anche nel caso che l'appello sia definito non con ordinanza ma, secondo il modello decisorio ordinario, con sentenza: sempre che, anche in tal caso, il giudice di appello abbia fondato la propria decisione sulle stesse ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado. Tutto ciò «fuori dei casi di cui all'art. 348-bis, comma 2, lett. a»: il che vuol dire che il congegno della doppia conforme non opera nelle cause in cui è necessario l'intervento del pubblico ministero.

Il giudizio di rinvio

Secondo il novellato art. 383 c.p.c., infine, nell'ipotesi in cui la S.C. accolga il ricorso per motivi diversi da quelli indicati all'art. 382 (questioni di giurisdizione o competenza), essa rinvia la causa al giudice che avrebbe dovuto giudicare sull'appello, con applicazione delle regole del giudizio di rinvio (artt. da 392 a 394 c.p.c.). La scelta del legislatore è stata criticata da chi ha sostenuto che, a seguito della cassazione della sentenza di primo grado, il giudizio di appello dovrebbe svolgersi nelle forme del giudizio ordinario, e non in quelle del giudizio di rinvio (p. es. Caponi, Contro il nuovo filtro in appello e per un filtro in cassazione nel processo civile, www.judicium.it, § 6).

La dottrina si è inoltre interrogata se l'esito dell'accoglimento del ricorso contro la sentenza di primo grado debba consistere necessariamente nel rinvio al giudice che avrebbe dovuto pronunciare sull'appello, affinché applichi «le disposizioni del libro secondo, titolo terzo, capo terzo, sezione terza» (così l'art. 383 c.p.c. novellato) o se la S.C. abbia il potere di cassare senza rinvio, ai sensi dell'art. 382, comma 3, c.p.c., in caso di difetto assoluto di giurisdizione ovvero di improponibilità-improseguibilità della causa, nonché di sussistenza dei presupposti per decidere la causa nel merito «qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto» (art. 384, comma 2, c.p.c.).

Facendo leva sul principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost. si è affermato che la cassazione senza rinvio è possibile in entrambi i casi.

Riferimenti

Bove, La pronuncia di inammissibilità dell'appello ai sensi degli articoli 348-bis e 348-ter c.p.c., in Riv. dir. proc., 2013, 389;

Briguglio, Un approccio minimalista alle nuove disposizioni sull'ammissibilità dell'appello, in Riv. Dir. Proc., 2013, 573;

Carratta, Ordinanza sul "filtro" in appello e ricorso per cassazione, Giur. It., 2014, 5;

Di Marzio, L'appello civile dopo la riforma, Milano, 2013;

Tedoldi, Il maleficio del filtro in appello, in Riv. dir. proc., 2015, 751.

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