Sequestro e confisca antimafia: le principali questioni applicative, con segnato riferimento alla (denegata) tutela del creditore ipotecario
01 Febbraio 2017
Premessa
Il tema della interferenza tra misure penali di carattere reale (sequestro e confisca, in specie quelle disposte ai sensi del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, c.d. Codice antimafia) e procedure esecutive individuali è oggetto di una normazione al tempo stesso episodica ed alluvionale; normazione che ha occupato lo spazio per lungo tempo lasciato – vista l'esiguità del dato positivo – alla elaborazione pretoria. Può essere utile qualche notazione preliminare per preparare il campo al discorso che si andrà compiendo. Occorre distinguere tra sequestro e confisca come misure di sicurezza e sequestro e confisca come misure di prevenzione. Nel primo caso, si richiede l'accertamento di un reato (art. 202 c.p.) e, quindi, una condanna per tale fatto. Nel corso del giudizio è possibile disporre il sequestro delle cose di cui è prevista la confisca e in funzione della stessa. Talvolta – come nella fattispecie prevista dall'art. 12-sexies, d.l. n. 306/1992: disposizione che ha trovato applicazione ad un catalogo via via più esteso di reati – la confisca colpisce beni non avvinti da un nesso di pertinenzialità con il fatto di reato (nesso altrimenti richiesto, alla stregua dell'art. 240 c.p.) Nel secondo caso, la misura reale prescinde da un accertamento del fatto di reato e si basa, tout court, su una valutazione di pericolosità del soggetto nel cui patrimonio (a prescindere dalla titolarità formale) la misura stessa spiega i propri effetti pregiudizievoli (c.d. proposto). Concentrando l'attenzione sulle misure reali di prevenzione adottate ai sensi del Codice antimafia, un primo gruppo di questioni problematiche riguarda la individuazione della “relazione” che deve intercorrere tra il proposto ed il bene attinto dalla misura. L'art. 24, Codice antimafia, in specie, prevede che questi deve essere titolare del bene o averne la disponibilità “a qualsiasi titolo”. È inoltre necessario, alternativamente, che vi sia una sproporzione tra il valore del bene e il reddito dichiarato o l'attività svolta dal proposto e la sussistenza di indizi sufficienti a far ritenere che tali beni siano il frutto o costituiscano il reimpiego di attività illecita. Ebbene, l'interpretazione fornita in giurisprudenza (Cass. Sez. Un., 28 aprile 1999, n. 9, ma v. già Corte Cost., 10 gennaio 1997, n. 1) e in dottrina è nel senso che la nozione di “disponibilità” vada delimitata tenendo conto dei principi della personalità della responsabilità penale; di quello della giustizia distributiva (sotto il profilo della proporzionalità); di quello della tutela dell'affidamento incolpevole. È conseguito da ciò l'intendimento del concetto di disponibilità in senso “economico-sostanziale”, ma – invero – non sono mancate letture meno attente ai richiamati principi di matrice penalistica (Cass. pen., 17 marzo 2000, n. 1520; Trib. Napoli, 14 marzo 1986). Il tema dell'accertamento dei presupposti della misura investe due ulteriori profili, tra loro variamente connessi. In particolare:
Ai sensi dell'art. 23, Codice antimafia, infatti, “i terzi che risultino proprietari o comproprietari dei beni sequestrati, nei trenta giorni successivi all'esecuzione del sequestro, sono chiamati dal tribunale ad intervenire nel procedimento con decreto motivato che contiene la fissazione dell'udienza in camera di consiglio”, potendo svolgere “deduzioni” al fine di dimostrare di essere proprietari in senso non solo formale e/o la loro totale estraneità al fatto di reato. Ed infatti – come chiarito già dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un., 28 aprile 1999, n. 9) – la decisiva rilevanza del requisito soggettivo della buona fede e dell'affidamento incolpevole del terzo “rappresenta il necessario corollario della impossibilità di attribuire alla confisca una base meramente oggettiva dato che, se così fosse, essa risulterebbe assolutamente incompatibile con il principio di personalità della responsabilità penale”. La buona fede del terzo – lo si dirà più approfonditamente – rappresenta un filo conduttore che percorre l'intera materia: rappresenta, al tempo stesso, il fondamento ed il limite della tutela di tale terzo, sia esso titolare del bene ovvero (ed è questo il caso che maggiormente interessa) titolare di diritti reali di garanzia sullo stesso. Quanto alla dimostrazione che il bene sia nella disponibilità del proposto, la giurisprudenza richiede un elevato libello probatorio, assimilabile a quello della prova vera e propria sebbene integrabile attraverso il ricorso a presunzioni (Cass. pen., 28 novembre 2008, n. 5897). Sarà il proposto – o il terzo titolare formale del bene o comproprietario – a dover dimostrare la legittima provenienza dei beni. Tuttavia, la legge prevede – e qui si apprezza la interrelazione tra i due profili problematici in esame – delle semplificazioni probatorie. Si tratta, in sintesi, di presunzioni circa il carattere fittizio della proprietà:
In altri termini: per i congiunti dell'indiziato la titolarità di beni di valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o al volume d'affari dell'impresa farà presumere il carattere solo formale della titolarità (e quindi la disponibilità del bene da parte del proposto); per tutti gli altri soggetti l'Ufficio dovrà fornire una prova più robusta (v. supra). Il bene sequestrato o confiscato può quindi anche essere di proprietà di un terzo che non abbia fornito la prova di esserne proprietario solo in senso formale, laddove beninteso sussistano le condizioni sopra esaminate (sproporzione tra il valore del bene ed il reddito e sussistenza di sufficienti indizi riguardo all'essere il bene il frutto o il reimpiego di attività illecite). Se è accertata la intestazione fittizia il decreto che dispone la confisca dichiara la nullità dell'atto di trasferimento (art. 26, comma 1, Codice antimafia). Si tratta di una disposizione eccentrica rispetto alle ordinarie regole civilistiche sulla simulazione (specie riguardo alla tutela degli aventi causa). Con la comminatoria della nullità dell'atto l'unico spiraglio per la tutela del terzo è – fatti gli opportuni adattamenti - quello della pubblicità sanante (art. 2652, comma 1, n. 6, c.c.). La tutela dei creditori ipotecari
Più problematiche appaiono le questioni connesse alla tutela dei terzi titolari di diritti reali di garanzia sul bene attinto dalla misura. Sul punto, è bene distinguere: A) tra la situazione ante Codicem, dominata dalla elaborazione pretoria; B) la situazione post Codicem, nel senso di cui appresso si dirà; C) e la situazione dei procedimenti di prevenzione “pendenti” alla data di entrata in vigore del Codice antimafia. Relativamente al primo periodo, come anticipato, si impone essenzialmente una analisi del formante giurisprudenziale: un formante pretorio dal quale si ricavano indicazioni non sempre univoche anche a causa della sovrapposizione, in materia, della competenza funzionale del giudice (dell'esecuzione) penale e del giudice (dell'esecuzione) civile. Questi, in sintesi, i nodi problematici che emergono dalla elaborazione pretoria:
Quanto alla prima questione, la giurisprudenza penale (in tema di procedimenti di prevenzione ex art. 2-ter l. n. 575 del 1965 ed a fronte di un dato normativo lacunoso) si è orientata nel senso di ritenere che il terzo deve dimostrare di avere maturato un affidamento incolpevole circa la legittima provenienza del bene su cui ha iscritto ipoteca; in altre parole il c.d. ius distrahendi può essere esercitato alla condizione che la iscrizione dell'ipoteca sia anteriore e, inoltre, che vi sia la suddetta situazione di buona fede. Sullo sfondo di tale questione si staglia, non a caso, il dibattito circa la natura dell'acquisto effettuato dallo Stato attraverso la confisca. La giurisprudenza prevalente - sia penale (Cass. pen., 27 febbraio 2008, n. 8775; ma v. già Cass. pen., 20 dicembre 1962, Stringari; 4.5.1968, n. 308; quanto alla giurisprudenza di merito v. Trib. Napoli, 8 febbraio 2002; Trib. Milano, 25 giugno 2004; Trib. Palermo, 4 febbraio 2008) che civile (Cass. civ., 12 novembre 1999, n. 12535, in Giust. Civ. Mass., 1999, 2231; più di recente v. Cass. civ., 5 ottobre 2010, n. 20664) - ha, in questa fase, ritenuto trattarsi di acquisto a titolo derivativo: in questa prospettiva, assume un chiaro significato l'idea – prima esposta – per cui intanto il creditore ipotecario può esercitare il proprio diritto sul bene costituito in garanzia in quanto (oltre alla buona fede, di cui si dirà) la sua iscrizione sia anteriore al sequestro. La questione è stata ampiamente affrontata anche in dottrina: a favore della natura di acquisto a titolo originario si richiama la matrice autoritativa del potere di confisca valorizzando il precedente costituito dalla legislazione contro i gerarchi fascisti; a favore della natura di acquisto a titolo derivativo si osserva che, se la finalità della misura è quella di privare il proposto della disponibilità del bene, allora l'acquisto deve avvenire subentrando nella medesima posizione giuridica del confiscato, profilandosi altrimenti una violazione del principio “nemo plur iuris in aliud transferre potest quam ipse habet”. Vi è anche chi concepisce l'acquisto tramite confisca come “tertium genus” tra acquisto a titolo originario e acquisto a titolo derivativo. Riguardo al contenuto precettivo della buona fede, va anzitutto ricordata la giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza 20 novembre 1995, n. 487) sul rilievo che deve assegnarsi alla medesima buona fede nel circoscrivere l'incidenza di misure di natura ablatoria riguardanti il patrimonio di terzi; giurisprudenza poi ripresa dalla Cassazione (soprattutto) penale in materia di tutela del creditore ipotecario. Sulla scorta di tali premesse, la giurisprudenza penale ha affermato che “la buona fede assume rilevanza per l'ordinamento giuridico, oltre che come principio di condotta generale cui debbono essere ispirati i rapporti giuridici tra gli individui, anche quale fonte di conseguenze favorevoli per chi la invoca, solo in quanto non sacrifichi la vincolatività del precetto normativo” (Cass. pen., 16 gennaio 2007, n. 845). Secondo la dottrina (Pulitanò, L'errore di diritto penale nella teoria del reato, Milano, 1976, p. 159 ss.), “la buona fede scusante non è sintomo di buona coscienza, ancorché errante, ma di giustificata pretesa di poter tenere una certa condotta. Ciò corrisponde in pieno (…) al fondamento costituzionale della scusa: il principio di colpevolezza richiede attuazione, non come sinonimo di riprovevolezza di un attegiamento interiore, ma come condizione di garanzia del rapporto tra il cittadino e l'ordinamento democratico. E tale garanzia si attua, essenzialmente, sul piano obiettivo delle scelte d'azione, non su quello della psicologia individuale”. In altre parole non si ha riguardo solo ai profili soggettivi, sicché la buona fede va desunta da indici oggettivi quali l'assenza di qualsiasi collegamento, diretto o indiretto, con la consumazione del fatto di reato, ovvero di vantaggi o utilità (sul punto v. oggi l'art. 52, Codice antimafia, nonché sulla non esclusività di quei parametri Cass. S.U., 7 maggio 2013, n. 10532). L'onere di provare la buona fede incombe sul creditore che pretenda di vantare diritti reali di garanzia sul bene confiscato (Cass. pen., 29 aprile 2010, n. 29378; quanto al titolare di diritti reali di godimento, nel medesimo senso, v. Trib. Napoli, 17 aprile 2008) e va assolto – secondo la tesi più seguita (v. infra) - innanzi al giudice della misura di prevenzione in sede di incidente di esecuzione (Cass. pen., 28 gennaio 2008, n. 8775). L'oggetto della prova è quello di avere adempiuto con diligenza agli obblighi di informazione e accertamento sulla posizione del soggetto nei cui confronti si acquisisce il diritto di garanzia (Cass. pen., 29 aprile 2010, n. 29378), sicché si tratta di una probatio diabolica (ad avviso di Cass. pen., 29 aprile 2011, n. 30326 e 25 novembre 2010, n. 1848, la buona fede va esclusa anche in caso di semplice negligenza del creditore). Ad esempio, secondo la S.C., è ben difficile che una banca non si sia accorta di stare contrattando con affiliati ad associazioni criminali (Cass. pen., 8 luglio 2011, n. 33796). Tali regole non si applicano a chi abbia stipulato (e trascritto) un preliminare di vendita riguardante il bene (poi) sequestrato e confiscato (Cass. 13 febbraio 2006, n. 17558; in senso contrario, Trib. Roma, 2 luglio 2013/o., in materia di confisca allargata). Riguardo alla questione se sia competente in via funzionale il giudice civile o quello penale, la giurisprudenza si è divisa. La prevalente giurisprudenza penale ha affermato la esclusiva competenza del giudice dell'esecuzione penale quanto all'accertamento della buona fede del terzo (in specie del creditore ipotecario), nell'ambito di un incidente di esecuzione retto dalla disposizioni del Codice di procedura penale (artt. 665 e ss.) [Cass. pen., 28 gennaio 2008, n. 8775]. Una minoritaria ma significativa giurisprudenza civile ha affermato che, pur dovendosi condividere “la necessità che sia impedito agli indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni criminali di procurarsi, mediante prestiti bancari e con il sistema di precostituirsi una schiera di creditori di comodo muniti di titoli con data certa, denaro di provenienza lecita, sottraendo poi alla confisca i beni vincolati a garanzia di terzi creditori”, quest'esigenza va realizzata “con comportamenti coerenti e senza compromettere il principio della certezza dell'esistenza di un'ipoteca e senza adoperare, surrettiziamente a quella del giudice dell'opposizione all'esecuzione forzata civile, l'istituto dell'incidente di esecuzione penale, fuori dei suoi limiti, che sono affatto diversi da quello dell'accertamento dell'esistenza di un diritto reale di garanzia su un bene sottoposto a confisca penale” [Cass. civ., 29 ottobre 2003, n. 16227; vedi anche Cass. civ., 16 gennaio 2007, n. 845; Cass. civ., 5 ottobre 2010, n. 20664]. Volendo sintetizzare tale complessa (e non sempre univoca) evoluzione:
Il Codice antimafia interviene a dettare una disciplina espressa (anche) riguardo al profilo della tutela del creditore ipotecario: una disciplina che – rileva subito notare – è fortemente sfavorevole per tale soggetto. L'art. 45 del Codice – partendo dalla premessa concettuale (che sarà fatta propria anche da Cass., Sez. Un., 7 maggio 2013, n. 10532: v. infra) che la confisca determina un acquisto a titolo originario del bene – ha previsto che, con l'adozione della misura ablatoria, si determina la purgazione dei beni, in quanto gli stessi vengono acquisiti al patrimonio dello Stato liberi da pesi e oneri; inoltre la confisca definitiva di un bene determina lo scioglimento dei contratti aventi ad oggetto un diritto personale di godimento e l'estinzione di diritti reali di godimento sul bene medesimo. Già con il sequestro, però, si determina un effetto impeditivo ed inibitorio di azioni esecutive: in tale senso dispone l'art. 55, Codice antimafia, che ricorda l'art. 51, l.f., ma che, diversamente da questo (come modificato nel 2006), non menziona le “azioni cautelari”. Vi è per il creditore – anche se ipotecario con formalità iscritta prima del sequestro (sul punto v. ancora Cass., Sez .Un., 7 maggio 2013, n. 10532) – un divieto di agire in executivis sul bene sequestrato. Se il sequestro è disposto dopo il pignoramento, il processo esecutivo diventa improseguibile (si tratta di una “sospensione ex lege”). Tale fase di stallo cessa con la revoca definitiva del sequestro o con la confisca definitiva, nel qual caso la procedura esecutiva si estingue (si tratta di una causa di estinzione “atipica” perché dipendente dalla sopravvenuta mancanza dell'oggetto dell'azione esecutiva); in caso di revoca del sequestro o della confisca (per effetto delle impugnazioni ordinarie) il processo esecutivo va riassunto. Per quanto più specificamente attiene alla tutela dei terzi, occorre osservare anzitutto che la disciplina contenuta negli artt. 52 e ss. del Codice si applica esclusivamente ai procedimenti di prevenzione per i quali la proposta sia stata formulata dopo il 13.10.2011 (data di entrata in vigore del Codice: cfr. art. 117 del medesimo Codice), mentre, per converso, si considerano “pendenti” – con conseguente applicazione della disciplina ponte dettata dalla l. 24 dicembre 2012, n. 228, legge di stabilità per l'anno 2013 – i procedimenti in relazione ai quali, alla data del 13.11.2011, sia stata già formulata una proposta di misura. Tanto premesso, la normativa conferente disciplina un procedimento che si snoda in tre fasi. Innanzitutto, i creditori devono chiedere di essere ammessi al procedimento di “verifica” che si svolge innanzi al giudice che “gestisce” il procedimento di prevenzione. Possono formulare la richiesta i creditori il cui diritto risulti da atti aventi data certa anteriore al sequestro o che prima del sequestro abbiano iscritto ipoteca al ricorrere delle seguenti condizioni: a) l'escussione del patrimonio del debitore non riguardato dal procedimento di prevenzione deve essere stata infruttuosa (salvo il caso di diritti di prelazione sul bene confiscato); b) il credito non deve essere strumentale all'attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, salvo che il creditore non dimostri di avere in buona fede ignorato tale nesso di strumentalità; c) nel caso di promessa di pagamento o ricognizione del debito deve essere provato il rapporto fondamentale; d) nel caso di titolo di credito deve essere provato il rapporto fondamentale e quello che legittima il possesso del titolo. È appena il caso di notare che - nei casi di cui ai sovrastanti punti b), c) e d) - vi è un capovolgimento delle regole generali: quanto alla buona fede, come è noto, la regola è quella per cui la buona fede si presume (art. 1147, comma 3, c.c.); epperò non mancano disposizioni eccentriche, come quella relativa agli acquisti effettuati dall'erede apparente (cfr. art. 534, comma 2, c.c.); quanto alla promessa di pagamento, la regola sopra riportata è opposta a quello di cui all'art. 1988 c.c.; quanto ai titoli di credito, invece, si deroga alla consueta astrattezza di tali titoli dal rapporto sottostante. Si parla al riguardo di “buona fede scusante” da valutare alla luce di quanto previsto dall'art. 52, comma 3, ossia delle condizioni delle parti, dei rapporti personali e patrimoniali delle stesse, e del tipo di attività svolta dal creditore, anche con riferimento al ramo di attività, alla sussistenza di particolari obblighi di diligenza nella fase precontrattuale, nonché, in caso di enti, alle dimensioni degli stessi. La seconda fase consiste nella formazione dello stato passivo da parte del giudice delegato secondo la disciplina contenuta nell'art. 59, Codice antimafia. Nella terza fase si provvede alla liquidazione dei beni (art. 60) ed alla formazione di un “piano dei pagamenti” (art. 61) alla cui stregua si provvederà a tacitare (almeno in parte) le pretese dei creditori ammessi; i titolari di diritti reali di godimento o diritti personali sugli immobili confiscati ricevono un indennizzo – pagato in prededuzione – commisurato alla residua durata del contratto o alla durata del diritto reale e calcolato con i criteri stabiliti con d.m.. La sussistenza di limiti alla tutela dei terzi è necessaria per la salvaguardia delle finalità cui sono dirette le misure di prevenzione antimafia: evitare che il soggetto indiziato si precostituisca dei creditori di comodo; la “incolpevolezza” del terzo segna il limite alla prevalenza delle esigenze pubblicistiche collegate alla irrogazione della misura: in questo senso v. già Corte Cost., 10 gennaio 1997, n. 1, cit., che aveva ritenuto infondata la q.l.c. dell'art. 3-quinquies, comma 2, l. n. 575 del 1975 laddove non esclude che i procedimenti in questione possano riguardare anche soggetti per i quali non ricorrano i presupposti per l'immediata applicazione della misura. La soddisfazione dei creditori avviene nei limiti del 60% del valore dei beni confiscati o dalla minor somma ricavata all'esito della vendita; rileva notare che l'art. 53 del Codice non pone questo “tetto massimo” in relazione con la capienza del patrimonio confiscato: si tratta di una “limitazione secca” del diritto dei terzi che si mostra difficilmente giustificabile alla luce della ratio dei procedimenti di prevenzione, che è quella di sottrarre beni al circuito della criminalità mafiosa e non di determinare un “arricchimento” dello Stato a danno dei creditori del proposto. Da taluno si richiama la giurisprudenza CEDU (per tutte v. le sentenze 29 marzo 2006, Scordino;1 dicembre 2008, Gigli costruzioni; 8 dicembre 2009, Vacca), sulle espropriazioni “indirette” e sulla necessità che il ristoro di chi viene privato del diritto dominicale (o nel nostro caso di chi subisce una limitazione nella realizzazione del proprio diritto reale di garanzia) deve essere “serio e non meramente simbolico”. Per i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del Codice antimafia (nel senso sopra chiarito), occorre ulteriormente distinguere:
Riguardo al primo caso, se vi è già stata l'aggiudicazione o il trasferimento del bene o se lo stesso rappresenta la quota di un una proprietà indivisa, restano fermi gli effetti dell'esecuzione o dell'aggiudicazione (art. 1, comma 195); la distribuzione della somma ricavata avviene con il limite di cui al comma 204 (cioè il limite del minore importo tra il 70% del valore del bene e quanto ricavato dalla vendita) e le somme residue sono versate nel FUG (art. 1, comma 196). In tutti gli altri casi “non possono essere iniziate o proseguite, a pena di nullità, azioni esecutive” (art. 1, comma 194); si ricordi al riguardo la disposizione contenuta nell'art. 2-sexies, commi 14 e 15, l. maggio 1965, n. 575 (introdotto dal d.l. 4 febbraio 2010, n. 4) che aveva previsto la sospensione delle procedure esecutive (e dei provvedimenti cautelari) in corso da parte di Concessionari della riscossione pubblica in caso di sequestro di aziende o società (v. oggi art. 50, Codice antimafia). Secondo l'art. 1, comma 194, l. 24 dicembre 2012, n. 228 il divieto riguarda l'ipotesi in cui il bene sia “confiscato”; secondo l'art. 55, Codice antimafia, come si è detto, è sufficiente il “sequestro”. In questo senso si è espressa la più volte richiamata pronuncia Cass., Sez. Un., 7 maggio 2013, n. 10532 che ha ritenuto che, alla stregua di una interpretazione letterale della norma, “l'inibitoria delle azioni esecutive riguarda esclusivamente i beni confiscati; con la conseguenza che i pignoramenti sul patrimonio sequestrato non possono essere sospesi e proseguono fino all'eventuale misura ablatoria definitiva”. Nel medesimo senso ha opinato la dottrina maggioritaria, ma non mancano posizioni contrarie. In definitiva: se il sequestro è stato disposto a seguito di proposte formulate prima del 13.10.2011 (data dell'entrata in vigore del Codice antimafia) e non vi è stato un provvedimento di confisca, l'azione esecutiva può proseguire (fino all'adozione della misura ablatoria definitiva); se il sequestro è stato disposto a seguito di proposte formulate dopo il 13.10.2011 (data dell'entrata in vigore del Codice antimafia) le azioni esecutive non possono essere iniziate e quelle già iniziate non possono proseguire (art. 55, Codice antimafia), a prescindere dal fatto che il creditore sia garantito da ipoteca. I creditori con ipoteca iscritta o pignoramento trascritto prima della trascrizione del sequestro preventivo o che siano intervenuti nell'esecuzione prima dell'entrata in vigore della l. 24 dicembre 2012, n. 228 (1 gennaio 2013) [quindi anche creditori chirografari] devono: A) presentare una istanza di ammissione del proprio credito al Giudice dell'esecuzione (penale) del Tribunale che ha disposto la confisca entro il termine di 180 gg. dall'entrata in vigore della legge (e quindi entro il 30 giugno 2013); B) in caso di ammissione, l'Agenzia procede alla predisposizione di un piano di riparto e procede ai pagamenti che non potranno essere superiori alla minor somma tra il ricavato della vendita e il 70% del valore del bene (art. 1, comma 204); contro il piano di riparto è ammessa opposizione nelle forme di cui agli artt. 737 e ss. c.p.c. sulla quale il Tribunale in composizione monocratica provvede con decreto non reclamabile. Rileva notare che la Corte Costituzionale (sentenza 28 maggio 2015, n. 94) ha dichiarato la incostituzionalità dell'art. 1, comma 198, l. 24 dicembre 2012, n. 228 nella parte in cui non ricomprende tra i creditori ammessi a presentare l'istanza di ammissione i titolari di diritti di credito derivanti da rapporti di lavoro subordinato. Quando la confisca è disposta dopo la data dell'1 gennaio 2013, il processo esecutivo riguardante beni sequestrati (cui non si applichi il Codice antimafia) prosegue fino all'adozione della misura ablatoria definitiva. A questo punto si applica la stessa disciplina prevista per i beni confiscati prima di tale data (purché non aggiudicati o trasferiti) con l'unica differenza che il termine di sei mesi per la presentazione dell'istanza di ammissione decorre non dall'1 gennaio 2013 ma dal passaggio in giudicato del provvedimento di confisca (art. 1, comma 205). La giurisprudenza delle Sezioni Unite: alcuni spunti critici
La disciplina recata dal Codice antimafia nonché dalla legge ponte (in relazione ai procedimenti “pendenti” alla data di entrata in vigore del Codice) ha agevolato – se così può dirsi – le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel risolvere le questioni alle stesse rimesse dalla III Sezione civile (17 febbraio 2012, nn. 2338, 2339, 2340/o.), così sintetizzabili: a) se la confisca integri gli estremi dell'acquisto a titolo originario o derivativo; b) quali strumenti abbia a disposizione il terzo titolare di un diritto reale di garanzia sul bene oggetto di misura; c) su chi grava l'onere della prova della buona fede del terzo. In dettaglio, le S.U. sono pervenute alle seguenti conclusioni:
Le suesposte conclusioni si prestano a dei rilievi critici. Un primo profilo critico attiene alla lesione dell'affidamento: innovando alla disciplina della confisca penale, la l. 24 dicembre 2012, n. 228 non avrebbe potuto trovare applicazione in ordine alle iscrizioni ipotecarie già avvenute (sulla tutela di tale affidamento v. Corte Cost., 22 novembre 2000, n. 525 e più di recente Cons. St., A.P., 27 luglio 2016, n. 19 che, richiamando CGUE, 2 giugno 2016, C-27/15, Pippo Pizzo, dà rilievo – ai fini della tutela dell'affidamento – ad un quadro interpretativo non univoco). Si può rilevare, poi, la violazione del divieto di retroattività delle norme penali (art. 14, disp. prel. c.c.; art. 25, comma 2, Cost.; art. 2 c.p. e non artt. 199-200 c.p.) nel cui ambito possono essere ricomprese, se si ha riguardo ad una nozione sostanziale di “pena”, anche quelle in tema di confisca: si v. innanzitutto la giurisprudenza EDU richiamata dalle stesse S.U.. Sempre nell'ambito della giurisprudenza EDU possono essere individuati precedenti che specificamente attengono a misure di segno ablatorio come la confisca di cui si tratta. A tal riguardo, va richiamata la pronuncia CEDU, 20 gennaio 2009, relativamente al caso della “confisca urbanistica” (laddove si riprendono i principi affermati nella celebre sentenza Engel del 1976 nonché nella sentenza Welch del 1995). Ancora, appare pertinente l'elaborazione pretoria relativa alla confisca “per equivalente” (specie con riguardo ai reati contro il patrimonio e tributari) laddove la Cassazione (sentenza 18.2.2009, n. 13098) e la Corte Costituzionale (ordinanza 22.4.2009, n. 97), argomentando dalla mancanza di un nesso di pertinenzialità tra il reato e il bene confiscato, nonché dalla mancanza di una pericolosità intrinseca di esso, riconoscono “all'indicata confisca una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura ‘eminentemente sanzionatoria', che impedisce l'applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell'art. 200 cod. pen., secondo cui le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, e possono essere, quindi, retroattive” (la misura di sicurezza in senso stretto può infatti essere applicata anche a fatti per i quali, all'epoca in cui furono commessi, essa non era prevista). A ben vedere, nella giurisprudenza EDU, si va profilando uno “statuto regolatorio unitario” del “diritto sanzionatorio” (si v. al riguardo la nota sentenza sul caso Grande Stevens), al di là della qualificazione formale della sanzione nell'ambito dell'ordinamento di appartenenza; d'altro canto, anche in materia di sanzioni amministrative (se del caso di applicazione giudiziale), la legge si ispira a principi penalistici (l. 24 novembre 1981, n. 689). In conclusione
Alla luce di quanto sopra esposto, è agevole notare che l'assetto della tutela dei terzi titolari di diritti reali di garanzia sul bene colpito da misure di prevenzione a carattere reale è evidentemente sbilanciata a favore delle esigenze preventive e punitive perseguite dallo Stato rispetto a quelle di carattere particolare (in specie) del creditore ipotecario. È legittimo avanzare dei dubbi su tale scelta “pan-pubblicistica”. Se non altro sarebbe più coerente con tali coordinate di riferimento l'ammettere placidamente – in linea con una giurisprudenza rimasta isolata - che “la confisca antimafia attribuisce ai beni confiscati con provvedimento definitivo un regime giuridico assimilabile a quello dei beni demaniali od a quello dei beni compresi nel patrimonio indisponibile. Ne consegue che non possono essere oggetto di espropriazione forzata immobiliare che ne modifichi la destinazione, ancorché tale procedura sia stata promossa da un terzo di buona fede titolare di un credito assistito da garanzia ipotecaria iscritta prima della trascrizione della confisca” (Cass. civ., 31 marzo 2005, n. 12317). In una prospettiva de iure condendo sembrerebbe più appropriata una soluzione del tipo di quella fatta propria dalla Legge fallimentare e segnatamente dall'art. 107, comma 6, consentendo al Custode giudiziario (in luogo del curatore) la scelta di “subentrare” in tali procedure ovvero di chiedere al giudice dell'esecuzione la declaratoria della relativa improcedibilità. In dottrina, sul tema, v. (in ordine alfabetico):
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