Carenza di legittimazione a contraddire e difetto di titolarità passiva del rapporto controverso tra eccezioni e mere difese

09 Gennaio 2017

La legittimazione ad agire e a contraddire è una condizione dell'azione e coincide con l'ipotetica accoglibilità della domanda sotto il profilo soggettivo, derivante dal fatto che il diritto azionato è affermato come diritto di colui che propone la domanda e contro colui nei cui confronti la domanda è proposta. La differenza ontologica tra la legitimatio ad causam passiva e la titolarità passiva del rapporto controverso si traduce in un differente regime giuridico del rilievo processuale del relativo difetto.
Legittimazione a contraddire e titolarità passiva del rapporto controverso

La legittimazione ad agire e a contraddire è una condizione dell'azione e coincide con l'ipotetica accoglibilità della domanda sotto il profilo soggettivo, derivante dal fatto che il diritto azionato è affermato come diritto di colui che propone la domanda e contro colui nei cui confronti la domanda è proposta.

Ne deriva che la legittimazione a contraddire è la coincidenza soggettiva tra colui contro il quale la domanda è proposta e colui che nella domanda è affermato come soggetto passivo del diritto azionato.

La sussistenza di tale condizione va verificata esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata con l'azione, prescindendo, cioè, dalla effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, la quale, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza, attiene, invece, al merito della causa.

La legittimazione passiva nell'accezione suddetta può essere verificata già in limine litis all'esito di un raffronto tra i fatti prospettati dall'attore e la fattispecie della norma ad essi applicabile, con la conseguenza che, da un lato, ove, alla stregua di tale verifica, il soggetto nei cui confronti la domanda è proposta non coincida con quello che secondo la disposizione normativa è il titolare passivo del rapporto obbligatorio, la domanda deve essere dichiarata inammissibile in quanto neanche ipoteticamente accoglibile; dall'altro, nel caso, in cui venga accertata detta coincidenza soggettiva, la domanda potrebbe, ciò non di meno, essere respinta ove, all'esito dell'accertamento giudiziale e dell'espletamento dell'attività istruttoria, il convenuto non risulti l'effettivo titolare del rapporto dedotto in giudizio.

La legittimazione a contraddire deve, in conclusione, essere riconosciuta in capo al convenuto per il solo fatto che l'attore affermi che il soggetto evocato in giudizio sia il soggetto che la norma che regola la fattispecie considera destinatario passivo della pretesa, ovvero il titolare dell'obbligo, primario o derivato, dalla stessa imposto.

Per la sussistenza di tale condizione è, pertanto, necessario e sufficiente che la titolarità del rapporto venga semplicemente prospettata mediante deduzione di fatti idonei in astratto a fondare il diritto azionato (sul carattere astratto dell'accertamento della legitimatio ad causam, v., tra le altre, Cass., n. 3639/1998; Cass., n. 6894/1999).

Ne consegue che una concreta ed autonoma questione di carenza di legittimazione passiva si delinea quando l'attore pretenda di ottenere una pronunzia contro il convenuto pur deducendone la relativa estraneità rispetto alla fattispecie normativa in cui deve essere sussunto il rapporto sostanziale controverso (si pensi al caso dell'azione di condanna della società di capitali all'adempimento di un'obbligazione contrattuale esperita nei confronti del legale rappresentante in proprio, ovvero all'azione di risoluzione del contratto stipulato dal liquidatore esperita dall'ex amministratore o dal socio della società in liquidazione, ovvero ad un'azione proposta ai sensi dell'art. 2051 c.c. nei confronti del possessore non titolato della res individuata come fonte del danno).

L'assenza di titolarità passiva della situazione giuridica sostanziale si configura, invece, come una questione che attiene al merito della lite e, in quanto tale, deve essere verificata in concreto, all'esito dello svolgimento dell'attività istruttoria.

La distinzione appena delineata, sostenuta in dottrina dai fautori della concezione astratta dell'azione, è da lungo condivisa dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 14468/2008; Cass., n. 11284/2010; Cass., n. 14177/2011; Cass., n. 15759/2014, ex aliis).

Il regime processuale del rilievo della carenza di legittimazione a contraddire

La differenza ontologica tra la legitimatio ad causam passiva e la titolarità passiva del rapporto controverso si traduce in un differente regime giuridico del rilievo processuale del relativo difetto.

La carenza di legittimazione è, secondo l'orientamento unanime della giurisprudenza, rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, salvo il limite del giudicato interno (Cass., Sez. Un., n. 1912/2012; Cass., n. 11837/2007; Cass., n. 12174/2000, ex multis).

Come già evidenziato, tale questione si trae dalla semplice lettura dell'atto di citazione, all'esito di un raffronto tra i fatti ivi allegati e la fattispecie normativa ad essi applicabile, così che il relativo apprezzamento costituisce una valutazione non in fatto, ma in diritto e soggiace, di conseguenza, al principio iura novit curia.

L'evocazione in giudizio di un soggetto che, già alla stregua di tale raffronto astratto ed ipotetico, non coincide con il titolare dell'obbligo di cui si affermi l'inosservanza, integra, di conseguenza, un errore di diritto e, in particolare, un errore sull'interpretazione della norma giuridica applicabile.

Ne deriva ulteriormente che laddove tale carenza venga evidenziata dallo stesso convenuto, l'attività difensiva svolta a tal fine non si configura come un'eccezione, ma come mera difesa in diritto, come tale svincolata da preclusioni assertorie e non assoggettata al regime probatorio proprio delle eccezioni.

Il regime processuale del rilievo della carenza di titolarità passiva del rapporto controverso

Diverso è il regime giuridico del rilievo della carenza di titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio.

L'attività difensiva con la quale il convenuto neghi di essere titolare passivo del diritto posto a fondamento dell'azione rientra, invero, nelle mere difese e, segnatamente, nel paradigma della contestazione in fatto (si pensi al caso in cui Tizio convenga in giudizio Caio chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti a causa delle infiltrazioni provenienti dalla propria unità abitativa attribuendogli la qualità di custode ai sensi dell'art. 2051 c.c. di detto immobile e il convenuto, costituendosi in giudizio, neghi di esserne proprietario).

In questo caso il convenuto assume una posizione di contrasto rispetto alla prospettazione attrice la quale, tuttavia, non amplia in alcun modo l'oggetto della cognizione del giudice perché non introduce fatti nuovi con portata modificativa, impeditiva od estintiva del fatto allegato ex adverso, ma rimane nei limiti del thema decidendum delineato dalle allegazioni della controparte.

Ne consegue ulteriormente che se, per un verso, rendendo controverso il profilo della ascrivibilità soggettiva dei fatti dedotti in giudizio, il contegno difensivo del convenuto vale a spostare sulla parte attrice l'onere di provarne i relativi fatti costitutivi, per altro verso la circostanza che la contestazione cada sulla titolarità del diritto in contesa non ne muta la natura di mera difesa, come tale svincolata dai limiti preclusivi e dalle regole probatorie propri delle eccezioni e, in particolare, delle eccezioni in senso stretto.

Tale assunto è stato affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza, 16 febbraio 2016, n. 2951, con la quale è stato risolto un contrasto interpretativo che vedeva contrapposto l'orientamento, fatto proprio da tale pronuncia, che riconduce la contestazione della titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio nell'ambito delle mere difese (per cui v., da ultimo, Cass., n. 15759/2014; Cass., n. 14652/2016; Cass., n. 15037/2016) e quello, maggioritario, secondo il quale, a differenza della legitimatio ad causam, il cui eventuale difetto è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, intesa come diritto potestativo di ottenere dal giudice, in base alla sola allegazione di parte, una decisione di merito, favorevole o sfavorevole, l'eccezione relativa alla concreta titolarità del rapporto dedotto in giudizio, attenendo, appunto, al merito, non è rilevabile d'ufficio, ma è affidata alla disponibilità delle parti e, dunque, per farla valere proficuamente, deve essere tempestivamente formulata nei modi e nei tempi previsti per le eccezioni di parte (Cass., n. 20819/2006; Cass., n. 14468/2008; Cass., n. 11284/2010; Cass., n. 14177/2011).

Le Sezioni Unite hanno evidenziato che il punto debole dell'orientamento confutato risiede nel trarre dal presupposto che il difetto di titolarità passiva attiene al merito e, quindi, alla fondatezza della domanda, il corollario che tale materia rientri nel potere dispositivo e nell'onere deduttivo e probatorio della parte interessata, così che il difetto di titolarità attiva e passiva del rapporto non può essere rilevato d'ufficio dal giudice, ma deve essere dedotto nei tempi e nei modi propri delle eccezioni in senso stretto.

Secondo la sentenza n. 2951/2016 la titolarità del diritto fatto valere in giudizio è, invece, un elemento costitutivo della domanda, come tale soggetto alla regola probatoria delineata dall'art. 2697 c.c., nel senso che spetta all'attore l'onere di offrirne la dimostrazione.

Ne discende che se il convenuto nega di essere titolare passivo del rapporto azionato dall'attore svolge un'attività di contrasto che non va ricondotta nell'eccezione, ma nella mera difesa.

Eccezione di carenza di titolarità del rapporto e contestazione dei relativi fatti costitutivi

Le conseguenze processuali di tale inquadramento giuridico sono di non poco conto ove si consideri la netta differenza di regime giuridico che contraddistingue le mere difese rispetto alle eccezioni.

Nell'ambito delle posizioni difensive che possono essere assunte dal convenuto al fine di contrastare la domanda attrice si distingue, invero, tra la mera difesa o difesa semplice, consistente nella contro deduzione in diritto o nella contestazione pura e semplice del fatto costitutivo del diritto vantato dall'attore, e l'allegazione, sempre in funzione di contrasto della domanda attorea, di fatti con efficacia modificativa, impeditiva od estintiva rispetto al medesimo diritto dedotto a fondamento della stessa.

Tale ultima attività processuale integra, appunto, l'eccezione, la quale, costituendo un mezzo per introdurre in giudizio fatti nuovi, si caratterizza per una portata effettuale più ampia rispetto alla difesa semplice, consistente nell'ampliamento dell'oggetto del processo e, quindi, della cognizione del giudice.

L'attività difensiva intesa a contrastare, senza superarne i limiti, la domanda attrice può, più precisamente, estrinsecarsi:

  • nella contestazione dei fatti costitutivi della domanda (mere difese): esse si risolvono in una sollecitazione rivolta al giudice di esercitare il potere-dovere di pronunciare d'ufficio nel merito della domanda, accertando l'infondatezza dei fatti costitutivi della medesima;
  • nella formulazione di un'eccezione in senso lato, che indica i fatti estintivi, modificativi, impeditivi rilevabili d'ufficio;
  • nell'eccezione in senso stretto, che indica i fatti estintivi, modificativi, impeditivi rilevabili solo su istanza di parte.

La distinzione tra eccezioni in senso lato e in senso stretto si fonda, dunque, sulla rilevabilità o non rilevabilità d'ufficio delle stesse.

Il principio generale desumibile dall'art. 112 c.p.c., così come interpretato dalla prevalente dottrina e giurisprudenza, è quello della rilevabilità d'ufficio delle eccezioni, ad esclusione di quelle in ordine alle quali è necessaria la proposizione di parte.

E poiché l'art. 112 c.p.c. non indica i criteri di individuazione di tali ultime eccezioni, è prevalsa tra gli interpreti l'opinione secondo la quale detta norma costituisce una norma di rinvio alle disposizioni che prevedono caso per caso la necessaria iniziativa della parte (Cass., Sez. Un., n. 1099/1998).

Le differenze tra mere difese ed eccezioni si apprezzano, sotto il profilo della disciplina giuridica, soprattutto con riferimento alle preclusioni assertorie e alla distribuzione dell'onere della prova.

Ed infatti la mera difesa in fatto, consistente nella contestazione dei fatti dedotti dall'attore, deve essere svolta nel primo atto difensivo successivo all'allegazione del fatto stesso (Cass., n. 10860/2011, secondo cui il potere di contestazione, concorrendo con quello di allegazione nell'individuazione del thema decidendum e del thema probandum, soggiace agli stessi limiti preclusivi di quest'ultimo, costituiti dall'udienza di trattazione, di cui agli artt. 183 c.p.c. e 420 c.p.c.), mentre la seconda è soggetta al più stringente limite dell'art. 167 c. 3 c.p.c., a mente del quale il convenuto nella comparsa di costituzione e risposta da depositarsi nel termine perentorio di cui all'art. 166 c.p.c. “a pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio”, e, quanto all'attore, dell'art. 183 c. 5 c.p.c..

Va, tuttavia, evidenziato, richiamando la pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 2951/2016, che se è vero che l'art. 167 c.p.c. impone al convenuto di proporre nella comparsa di costituzione e risposta tutte le difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, tale disposizione, a differenza di quella che regola delle eccezioni in senso proprio, non prevede una decadenza.

Ne deriva che l'operazione difensiva del convenuto che non si risolva in un'eccezione in senso stretto può essere compiuta anche in appello e può formare oggetto di rilievo d'ufficio, salvo che tale difesa ricada nell'ambito di operatività dell'onere di contestazione positivamente sancito dall'art. 115 c.p.c..

Tale onere non opera, però, in caso di contumacia del convenuto, il cui silenzio non può certo essere apprezzato alla stregua della disposizione appena citata, la quale per espressa previsione opera solo con riguardo alla parte costituita.

Ne deriva che, in caso di mancata costituzione in giudizio del convenuto, l'attore è tenuto a dimostrare tutti i fatti costitutivi della domanda, ivi compresi quelli integranti la titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio in capo al convenuto, mentre quest'ultimo, costituendosi tardivamente, ben può negare la sussistenza di tali fatti (così Cass., Sez. Un., n. 2951/2016, cit.).

Alcuna disposizione è, invece, rinvenibile nel sistema codicistico in merito all'operatività di preclusioni per le eccezioni rilevabili d'ufficio.

Secondo una parte degli interpreti si può dedurre a contrario dal disposto dell'art. 167, comma 2, c.p.c. che esse non sono soggette a preclusioni collegate alla tempestiva costituzione in giudizio del convenuto. Né risultano preclusioni all'esercizio del potere di rilevazione da parte del giudice di merito come si desume, sempre a contrario, dal disposto dell'art. 345, comma 2, c.p.c. che, negando l'ammissibilità delle eccezioni in senso stretto in grado d'appello, implicitamente ammette la rilevazione in tale grado delle eccezioni in senso lato.

Quanto al profilo dell'onere probatorio, si osserva che solo l'eccezione in senso stretto, proprio perché produce un ampliamento del thema decidendum delineato attraverso le allegazioni attoree, onera la parte che la introduca dell'onere di dimostrare i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi dedotti a sostegno della stessa, mentre l'eccezione in senso lato postula esclusivamente l'introduzione in giudizio, comunque avvenuta, dei relativi fatti costitutivi (in tal senso Cass., n. 5249/2016, secondo cui le eccezioni in senso lato sono rilevabili d'ufficio o proponibili dalla parte interessata anche in appello, ove i fatti sui quali si fondano, sebbene non precedentemente allegati dalla stessa parte, emergano dagli atti di causa).

La mera difesa - ed in particolare la contestazione – produce, invece, l'effetto opposto, ossia attribuisce alla controparte l'onere di dimostrare tutti fatti costitutivi del diritto azionato come previsti dalle norme che lo regolano, che hanno formato oggetto di contestazione.

In conclusione

Le difese che il convenuto può svolgere in ordine alla propria titolarità del rapporto controverso possono, dunque, esprimersi in mere difese riconducibili alla contestazione dei fatti integranti tale elemento costitutivo (soggettivo) del diritto azionato dall'attore, da cui discende il consolidarsi, in capo all'attore, dell'onere di fornire la relativa prova secondo il principio generale delineato dall'art. 2697, comma 1, c.c., ma possono, anche, estrinsecarsi in un'attività processuale più ampia, integrante un'eccezione in senso lato o un'eccezione in senso stretto.

In tali ultimi casi l'attività processuale del convenuto comporta l'introduzione di un fatto nuovo con portata modificativa, impeditiva od estintiva del fatto dedotto dalla controparte a fondamento dell'allegazione della sua titolarità passiva del rapporto controverso.

È il caso del soggetto che, evocato in giudizio in qualità di erede, alleghi l'esistenza di una rinunzia all'eredità o di un testamento che esclude l'attribuzione di siffatta qualità.

Tale difesa integra un'eccezione in quanto sottopone alla cognizione del giudice un fatto nuovo non dedotto in giudizio, ma non rientra tra le eccezioni in senso stretto in quanto non esiste una previsione normativa che riserva alla parte il relativo rilievo in giudizio.

Si tratta, dunque, di un'eccezione di merito - in quanto attiene alla ricostruzione del fatto controverso - in senso lato che, ancorché oneri il convenuto della prova dei relativi fatti costitutivi ai sensi del secondo comma dell'art. 2697 c.c., non soggiace al rigido regime delle preclusioni che contraddistingue le eccezioni in senso stretto, ma a quello meno restrittivo proprio delle deduzioni in fatto delineato nel processo di cognizione ordinario dall'art. 183 c.p.c.. Ciò non esclude che, ove il fatto modificativo, impeditivo od estintivo trovi ingresso nel processo anche oltre tale ultimo termine il giudice deve, comunque, tenerne conto anche d'ufficio al fine di rilevare il difetto di titolarità passiva da esso comprovato (ex aliis, Cass., n. 5249/2016, cit.).

Guida all'approfodnimento

Oltre alla giurisprudenza citata, cfr. in dottrina C. MANDRIOLI, A. CARRATTA, Diritto processuale civile, I, Torino, 2015, 51 e ss.;

A. ATTARDI, Legittimazione ad agire, in Dig. disc. priv. sez. civ.,IV, Torino, 1993; F. RUSSO, Il regime processuale delle eccezioni di difetto di legittimazione attiva e passiva e difetto di titolarità del rapporto. A proposito dell'ordinanza di remissione alle sezioni unite 13 febbraio 2015, n. 2977, in Diritto civile contemporaneo, 25.5.2015;

A. BARLETTA, Le Sezioni Unite su oneri delle parti e potestà ufficiose del giudice nell'accertamento della titolarità del diritto al risarcimento, nota a Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2016, n. 2951,in Ri.Da.Re., 16 Giugno 2016;

R. ORIANI, Eccezione, in Dig. disc. priv., sez. civ., VII, Torino, 1991.

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