10 Febbraio 2017

In generale le difese sono le posizioni assunte dal convenuto per contrastare la domanda attrice (Cass., Sez. Un., n. 2951/2016). Esse possono concretizzarsi tanto in controdeduzioni in diritto, quanto nella presa di posizione in merito alle affermazioni svolte dalla controparte ai fini della ricostruzione dei fatti dedotti a fondamento della domanda giudiziale.
Inquadramento

In generale le difese sono le posizioni assunte dal convenuto per contrastare la domanda attrice (Cass., Sez. Un., n. 2951/2016).

Esse possono concretizzarsi tanto in controdeduzioni in diritto, quanto nella presa di posizione in merito alle affermazioni svolte dalla controparte ai fini della ricostruzione dei fatti dedotti a fondamento della domanda giudiziale.

Nell'ambito delle difese si distingue tra la mera difesa o difesa semplice, consistente nella contestazione pura e semplice dei fatti costitutivi del diritto vantato dall'attore, e l'eccezione, costituita dall'allegazione di fatti con efficacia modificativa, impeditiva od estintiva rispetto al medesimo diritto. Tali attività difensive, che condividono la funzione di contrasto della domanda attrice, soggiacciono ad un diverso regime processuale, sotto il profilo del regime delle preclusioni assertorie e dell'onere probatorio.

Rispetto alla domanda dell'attore il convenuto può, dunque, assumere una serie di atteggiamenti processuali caratterizzati da un grado crescente di autonomia e specificità e, quindi, diversamente incidenti sull'oggetto del processo e sul provvedimento giurisdizionale che lo definisce, che vanno dalla contumacia, all'adesione alla domanda attrice con riconoscimento della pretesa avversaria, al contrasto della posizione difensiva assunta dalla controparte.

Tale ultimo comportamento si esplica attraverso le seguenti attività processuali: a) le mere difese; b) le eccezioni; c) la domanda riconvenzionale.

In evidenza

In definitiva la mera difesa consiste nella negazione dell'idoneità di tali fatti a produrre le conseguenze giuridiche invocate da chi chiede la tutela giurisdizionale.

Le difese nell'ambito della posizione processuale del convenuto

Nel caso in cui il convenuto decida di partecipare attivamente al giudizio instaurato dall'attore e di contrastare la domanda da questi proposta, può, dunque, assumere iniziative processuali di diverso contenuto le quali, tuttavia, – fatta eccezione per le ipotesi infrequenti di adesione alla domanda avversaria, di riconoscimento del diritto della controparte o di rimessione alla decisione del giudice – confluiscono necessariamente nella formulazione di una propria domanda volta ad ottenere il rigetto della domanda avanzata dall'attore.

Tale istanza ha ad oggetto l'accertamento negativo dell'esistenza del diritto vantato dalla controparte e trova il suo fondamento nell'interesse ex art. 100 c.p.c. che si concretizza in conseguenza del vanto sotteso alla pretesa avversaria.

L'accertamento negativo richiesto con la domanda di rigetto condivide l'oggetto dell'accertamento domandato dall'attore e, pertanto, non determina un ampliamento, sotto il profilo oggettivo, del thema decidendum.

La domanda di rigetto può essere, ciò non di meno, supportata dallo svolgimento di attività difensiva la quale può riguardare sia la portata della norma invocata dall'attore, sia i relativi fatti costitutivi.

Nel primo caso le difese svolte dal convenuto consistono essenzialmente in argomentazioni in diritto circa l'interpretazione della norma invocata dalla controparte e la sua applicabilità alla fattispecie dedotta in giudizio e, quindi, non solo non incidono sull'oggetto del processo, ma non condizionano in alcun modo il potere decisorio il quale soggiace alla regola per la quale l'inquadramento giuridico della domanda spetta al giudice, compendiata nel brocardo iura novit curia.

Tale regola costituisce un limite al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c. il quale, appunto, non può estendersi ai profili giuridici della domanda.

Ciò significa che se l'oggetto del processo civile è circoscritto dalle parti attraverso l'allegazione e la prova del fatto secondo il principio iudex iuxta alligata et probata iudicare debet, il giudice, in forza di quanto enunciato dall'art. 113 comma 1 c.p.c. in coerenza con l'art. 101, comma 2, Cost., è libero di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonché all'azione esercitata, individuando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, senza che ciò muti l'oggetto del processo e senza che si configuri un vizio di ultrapetizione.

L'attività di contrasto svolta dal convenuto al fine di corroborare la propria istanza di rigetto può attenere anche ai fatti costituitivi della domanda avversaria.

In tal caso le difese possono consistere nella negazione dei fatti affermati dall'attore, come tali ininfluenti sull'oggetto del processo da quest'ultimo delineato, ovvero concretizzarsi nell'allegazione di fatti diversi che, invece, ampliano l'oggetto del processo pur nei limiti della domanda avversaria.

Tali ultime istanze di contrasto sono, come si è detto, le eccezioni c.d. di merito che si distinguono dalle mere difese in quanto con esse la parte non si limita alla negazione dei fatti costitutivi del diritto fatto valere ex adverso, ma formula una richiesta di accertamento negativo di detto diritto sulla base dei fatti impeditivi, modificativi od estintivi introdotti con l'eccezione.

Non diverge sensibilmente dalla mera difesa l'eccezione processuale o di rito la quale, lungi dall'introdurre in giudizio fatti nuovi, consiste nel rilievo del difetto di requisiti di validità degli atti processuali. E' il caso della nullità relativa degli atti processuali disciplinata dall'art. 157 c.p.c. che può essere pronunciata solo a seguito di istanza di parte, salvo che la legge non disponga che sia pronunciata d'ufficio.

L'eccezione di merito, che trova il proprio fondamento normativo nell'art. 2697, comma 2 c.c. e nell'art. 112 c.p.c., determina, invece, un'estensione della cognizione del giudice a tali fatti sia pure nei limiti della domanda attrice che mira a paralizzare.

Tale limite è, invece, superato nel caso in cui lo stesso convenuto proponga una domanda riconvenzionale, così innestando una propria autonoma azione nel processo introdotto dall'attore.

In evidenza

Dal sintetico quadro, sin qui delineato, delle posizioni difensive che possono essere assunte da colui nei cui confronti è chiesta la tutela giurisdizionale può enuclearsi la nozione di difesa, o mera difesa o difesa semplice, quale attività processuale del convenuto finalizzata ad ottenere una pronuncia di accertamento negativo del diritto fatto valere dall'attore, consistente nella negazione dei relativi fatti costitutivi così come affermati dalla controparte ed inidonea ad ampliare l'oggetto della cognizione del giudice.

La mera difesa quale contestazione dei fatti affermati dall'attore

La mera difesa, nell'accezione di contestazione dei fatti allegati dall'attore, è espressamente prevista e disciplinata dagli artt. 416 c. 3 c.p.c. (a mente del quale nel rito del lavoro nella memoria di costituzione il convenuto deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attorea fondamento della domanda, proporre tute le sue difese in fatto e in diritto ed indicare specificamente a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve contestualmente depositare”), art.167 comma 1 c.p.c. (secondo cui “nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda”) e art.115 c. 1 c.p.c. (secondo cui “salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita”).

Dalla lettura coordinata di tali disposizioni si desume che il Legislatore ha tipizzato la nozione di difesa attribuendo rilevanza alla sua omissione, dalla quale fa discendere la non contestazione e, quindi, l'espunzione dal thema probandum, dei fatti affermati da una parte sui quali la controparte non ha assunto una specifica posizione.

La regola di giudizio dell'equiparazione della non contestazione alla relevatio ab onere probandi è positivamente sancita dall'art. 115 c.p.c., riformato con la l. n. 69/2009, il quale recepisce i risultati di una lunga elaborazione giurisprudenziale (tra cui Cass., sez. un., n. 761/2002, che ha avuto il pregio di superare il terreno del processo del lavoro al quale era stato riferito l'istituto e Cass., n. 23638/2007).

Va, tuttavia, evidenziato che il fatto non contestato non è un fatto provato positivamente in quanto l'esonero dalla prova derivante dalla non contestazione non è equiparabile alla prova nel senso di rappresentazione o dimostrazione positiva dell'esistenza o dell'inesistenza di un fatto.

In altre parole il fatto non contestato non può ritenersi positivamente accertato nella sua esistenza o inesistenza.

Ciò significa che la regola della non contestazione autorizza, ma non vincola il giudice a giudicare iuxta non oppugnata partium, specie con riferimento alla categoria dei c.d. fatti – diritto – ossia degli elementi costitutivi di un diritto rappresentati a propria volta da diritti (ad esempio il diritto di proprietà sul bene danneggiato rispetto alla domanda di risarcimento del danno subito da detto bene) -, in relazione ai quali il difetto di contestazione non impone un vincolo di “meccanica conformazione” (così Cass., Sez. Un., n. 2951/2016, cit.), in quanto il giudice può sempre rilevare l'inesistenza della circostanza allegata da una parte anche se non contestata dall'altra. Può, infatti, verificarsi la situazione in cui il fatto non contestato risulti indubitabilmente accertato come inesistente in forza di altri elementi di prova o da inequivocabili inferenze logiche (Cass., Sez. Un., n. 2951/2016, cit.; Cass., Sez. Un., n. 11377/2015).

La formulazione dell'art. 115 c.p.c. consente, inoltre, di delimitare l'effetto della non contestazione ai fatti che la controparte ha l'onere di allegare secondo la fattispecie di riferimento e non rispetto a tutti i fatti dedotti dalla controparte a proprio favore.

Si pensi, ad esempio, all'ipotesi in cui l'attore, che agisca per la condanna del convenuto al pagamento di una somma di denaro, alleghi, oltre ai fatti costitutivi del proprio credito, anche il fatto che “il convenuto non lo ha pagato”. Il convenuto non è tenuto a contestare tale ultimo fatto e se non lo fa non gli è preclusa l'eccezione, anche in appello, dell'intervenuto pagamento (trattandosi, peraltro, di fatto estintivo pacificamente rilevabile anche d'ufficio).

L'onere di contestazione riguarda esclusivamente i fatti consapevolmente contestabili e, quindi, non può riguardare fatti taciuti o inadeguatamente prospettati dalla controparte.

Deve, inoltre, riguardare i fatti allegati, ossia fatti valere dalla controparte, non essendo sufficiente che i fatti abbiano, comunque, trovato ingresso – ad esempio attraverso la consulenza tecnica d'ufficio - nel processo.

Non sono, inoltre, soggetti all'onere di contestazione i fatti silenti, ovvero non espressamente invocati dalla controparte (si pensi, ad esempio, alle circostanze esposte nella parte espositiva dell'atto introduttivo al solo fine di chiarire il quadro fattuale in cui si inserisce la vicenda oggetto di causa).

L'onere di contestazione si attiva, poi, con esclusivo riferimento ai fatti che la parte onerata è tenuta ragionevolmente a conoscere, con la conseguenza che non può attribuirsi alcuna conseguenza sul piano probatorio alla mancata contestazione di un fatto estraneo alla propria sfera conoscitiva (Cass., n. 14652/2016; Cass., n. 3676/2013).

In evidenza

In definitiva perché sorga in capo al convenuto l'onere di contestazione, il fatto allegato dalla controparte deve essere:

a)un fatto proprio;

o

b)un fatto comune alle parti;

ovvero

c)un fatto che è caduto sotto la percezione sensoria di chi è chiamato a contestarlo.

Di conseguenza resta escluso che l'onere della contestazione in senso proprio gravi su soggetti che si trovano in giudizio in forza di fenomeni di estensione della responsabilità, di successione nelle posizioni giuridiche o di sostituzione processuale come accade, ad esempio, per gli eredi in relazione a fatti del de cuius, per il curatore fallimentare in relazione a fatti propri del fallito, all'assicuratore, per il proprietario del veicolo per la responsabilità ex art. 2054 c.c., per la banca o la s.i.m. con riferimento all'illecito del promotore finanziario.

Secondo una parte degli interpreti oggetto di contestazione devono essere i soli fatti principali essendo esclusi dall'onere ex art. 115 c.p.c. i fatti c.d. secondari con valenza esclusivamente probatoria.

La giurisprudenza di legittimità ha, invece, affermato che la mancanza di specifica contestazione, se riferita ai fatti principali, comporta la superfluità della relativa prova perché non controversi, mentre se è riferita ai fatti secondari consente al giudice solo di utilizzarli liberamente quali argomenti di prova ai sensi dell'art. 116 comma 2 c.p.c. (Cass., n. 19709/2015).

L'onere di contestazione riguarda le sole allegazioni in fatto e non anche i documenti prodotti a sostegno delle stesse. Fatto salvo il potere di disconoscimento, che attiene alla loro provenienza ed autenticità, e la proposizione della querela di falso, i documenti in sé, né la loro valenza probatoria devono essere contestati dalla parte nei cui confronti vengono prodotti, essendo la loro valutazione riservata al giudice (Cass., n. 12748/2016; Cass., n. 6606/2016).

Gli artt. 167 e 416 c.p.c. delimitano temporalmente l'assolvimento dell'onere di contestazione, così che deve ritenersi tardivo e, quindi, inefficace lo svolgimento di tale difesa in un momento successivo alla costituzione in giudizio.

Tale preclusione non opera, però, rispetto a fatti la cui rilevanza o la cui evocazione sorge in corso di causa.

Si allude, in particolare, ai c.d. faits adventifs, ossia ai fatti emersi accidentalmente dallo sviluppo del contraddittorio.

Tali fatti divengono oggetto dell'onere di contestazione solo dopo che siano sottoposti al contraddittorio e di essi venga chiarita la rilevanza ai fini del giudizio.

La contestazione dei fatti dedotti dalla controparte a fondamento della propria domanda genera l'effetto probatorio della relevatio ab onere probandi solo se svolta in modo specifico.

Ciò significa, in primo luogo, che, di fronte all'allegazione di fatti complessi o di più fatti costitutivi del diritto affermato, il convenuto non può limitarsi ad una contestazione complessiva, ma deve necessariamente diversificare la contestazione in relazione a ciascuna circostanza.

Ciò significa che la contestazione non può consistere nella mera negazione del fatto dedotto ex adverso, ma da essa deve emergere una versione alternativa a quella esposta dalla controparte. Nel caso in cui oggetto di allegazione sia un fatto complesso non può ritenersi soddisfacente la sua mera negazione, essendo necessaria l'allegazione di una contro verità fattuale, ossia di specifici fatti in tutto o in parte incompatibili.

L'assunto è stato confermato dalla Suprema Corte, la quale ha chiarito che nel caso in cui il fatto costitutivo del diritto si connoti per la concomitante ricorrenza di più circostanze, occorre che la contestazione del convenuto esplicitamente si appunti su una o più caratteristiche del fatto costitutivo complesso (Cass., n. 10860/2011), essendo altrimenti priva della specificità necessaria a radicare, per un verso, l'onere dell'altra parte di offrire la prova, e, per altro verso, il dovere del giudice di procedere ad uno specifico esame (Cass., n. 13079/2008).

Il grado di specificità della contestazione è proporzionale al grado di specificità delle allegazioni dell'avversario, soprattutto allorquando queste ultima trovino immediato riscontro in elementi di prova.

Rapporto tra mere difese ed eccezioni

L'esigenza di distinguere la mera difesa dall'eccezione assume rilevanza:

  • al fine di verificare la tempestività dell'attività difensiva;
  • al fine di individuare la regola di riparto dell'onere probatorio;
  • al fine di verificare se lo svolgimento dell'attività difensiva abiliti la controparte a modificare la domanda o a formularne una nuova.

In via preliminare va evidenziato che la differenza di regime giuridico delle mere difese sussiste esclusivamente rispetto alle eccezioni in senso stretto.

E', quindi, utile un sintetico riepilogo sulle difese che possono essere svolte dal convenuto e l'enucleazione, al loro interno, di tale categoria di eccezioni.

L'attività difensiva intesa a contrastare la domanda attrice può estrinsecarsi:

  • nella contestazione dei fatti costitutivi della domanda (mere difese): esse si risolvono in una sollecitazione rivolta al giudice di esercitare il potere-dovere di pronunciare d'ufficio nel merito della domanda, accertandone l'infondatezza;
  • nella formulazione di un'eccezione in senso lato, che indica i fatti modificativi, impeditivi ed estintivi rilevabili d'ufficio;
  • nell'eccezione in senso stretto, che indica i fatti modificativi, impeditivi ed estintivi rilevabili solo su istanza di parte.

La distinzione tra eccezioni in senso lato e in senso stretto si fonda, dunque, sulla rilevabilità o non rilevabilità d'ufficio delle stesse. Alla stregua del principio ritraibile dall'art. 112 c.p.c., così come interpretato dalla prevalente dottrina e giurisprudenza, la regola generale è quella della rilevabilità d'ufficio delle eccezioni, ad esclusione di quelle in ordine alle quali è necessaria la proposizione di parte.

La norma appena richiamata non indica, tuttavia, i criteri di individuazione di tali ultime eccezioni, così che è prevalsa tra gli interpreti l'opinione secondo la quale l'art. 112 c.p.c. costituisce una norma di rinvio alle disposizioni che prevedono caso per caso la necessaria iniziativa della parte (Cass., Sez. Un., n. 1099/1998).

Passando ad esaminare le differenze di regime giuridico che valgono a distinguere sotto il profilo effettuale la mera difesa dall'eccezione, si osserva, in primo luogo, che la prima deve essere svolta nel primo atto difensivo successivo all'allegazione del fatto (Cass., n. 10860/2011, secondo cui il potere di contestazione, concorrendo con quello di allegazione nell'individuazione del thema decidendum e probandum, soggiace agli stessi limiti preclusivi di quest'ultimo, costituiti dall'udienza di trattazione, di cui agli artt. 183 c.p.c. e art.420 c.p.c.), mentre la seconda è soggetta al più stringente limite dell'art. 167 comma 3 c.p.c., a mente del quale il convenuto nella comparsa di costituzione e risposta da depositarsi nel termine perentorio di cui all'art. 166 c.p.c. «a pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio», e, quanto all'attore, dell'art. 183 c. 5c.p.c.. Tale ultima disposizione contempla le c.d. eccezioni in senso stretto consequenziali, ossia le eccezioni “che sono conseguenza della domande riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto”, che l'attore ha l'onere di formulare, esercitando un'attività di allegazione e di istanza di rilevazione speculare a quella prevista per le eccezioni in senso stretto del convenuto, nell'udienza di prima comparizione e trattazione.

Alcuna disposizione è, invece, rinvenibile nel sistema codicistico in merito all'operatività di preclusioni per le eccezioni rilevabili d'ufficio.

Secondo una parte degli interpreti si può dedurre a contrario dal disposto dell'art. 167, comma 2 c.p.c. che esse non sono soggette a preclusioni collegate alla tempestiva costituzione in giudizio del convenuto. Né risultano preclusioni all'esercizio del potere di rilevazione da parte del giudice di merito come si desume, sempre a contrario, dal disposto dell'art. 345, comma 2 c.p.c. che, negando l'ammissibilità delle eccezioni in senso stretto in grado d'appello, implicitamente ammette la rilevazione in tale grado delle eccezioni in senso lato.

Quanto al profilo dell'onere probatorio, si osserva che solo l'eccezione in senso stretto, proprio perché produce un ampliamento del thema decidendum delineato attraverso le allegazioni attoree, onera la parte che la introduce dell'onere di dimostrare i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi dedotti a sostegno della stessa, mentre, l'eccezione in senso lato postula esclusivamente l'introduzione in giudizio, comunque avvenuta, dei relativi fatti costitutivi (in tal senso Cass., n. 5249/2016, secondo cui le eccezioni in senso lato sono rilevabili d'ufficio o proponibili dalla parte interessata anche in appello, ove i fatti sui quali si fondano, sebbene non precedentemente allegati dalla stessa parte, emergano dagli atti di causa).

La mera difesa – e, in particolare, la contestazione – produce, invece,l'effetto opposto, ossia attribuisce alla controparte l'onere di dimostrare tutti fatti costitutivi del diritto azionato come previsti dalle norme che lo regolano, che hanno formato oggetto di contestazione.

Con riguardo, infine, alla possibilità di formulare eccezioni e domande consequenziali, una parte della dottrina ammette indistintamente tale facoltà tanto in caso di eccezioni in senso stretto, quanto in caso di mere difese, allorché queste ultime si concretizzino non nella radicale negazione del fatto affermato ex adverso, ma nell'allegazione di una contro verità fattuale. Si pensi all'ipotesi in cui il convenuto trasformi il punto in questione pregiudiziale, ovvero al caso in cui, a fronte della prospettazione di una determinata fattispecie contrattuale, al fine di sostenere l'infondatezza della domanda avversaria, alleghi l'esistenza di un rapporto diverso da quello dedotto dalla controparte.

In dette ipotesi non solo la difesa del convenuto attribuisce all'attore l'onere di dimostrare i fatti dedotti a fondamento della domanda, ma, al contempo, autorizza quest'ultimo a domandare un accertamento incidentale in ordine agli stessi.

Casistica

Titolarità attiva o passiva del rapporto controverso, contestazioni del convenuto, mera difesa

Le contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso dedotte dall'attore hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l'eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l'allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti (Cass., Sez. Un., n. 2951/2016).

Eccezioni e mere difese. Collegamento negoziale

Il collegamento tra negozi, tutti già dedotti in giudizio, può essere individuato dal giudice di merito anche d'ufficio, rientrando nel suo potere di verifica e valutazione dei fatti costitutivi della pretesa attorea in base all'interpretazione degli atti negoziali sottoposti alla sua attenzione. Ne consegue che l'esistenza del collegamento negoziale non è oggetto di eccezione in senso stretto, ma di mera difesa, deducibile dalla parte convenuta anche con l'atto di appello (Cass., n. 17899/2015)

Onere di contestazione e giudizio di appello

Ai sensi del combinato disposto degli artt. 115, comma 1, e 167, comma 1, c.p.c., l'onere di contestazione specifica dei fatti posti dall'attore a fondamento della domanda opera unicamente per il convenuto costituito e nell'ambito del solo giudizio di primo grado, nel quale soltanto si definiscono irretrattabilmente “thema decidendum” e “thema probandum”, sicché non rileva a tal fine la condotta processuale tenuta dalle parti in appello (Cass., n. 22461/2015).

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