Le preclusioni a carico dell'interveniente nel processo ordinario

Franco Petrolati
09 Giugno 2016

Nella giurisprudenza di legittimità si abilita il terzo interveniente a spiegare la domanda fino alla precisazione delle conclusioni ma, nel contempo, non si consente allo stesso di esercitare i poteri istruttori ove siano già maturate le preclusioni probatorie, giustificando tale soluzione in ragione del principio di autoresponsabilità del terzo, cui compete la scelta tra l'intervento e la promozione di un giudizio autonomo. Residuano tuttavia dubbi sulla ragionevolezza di tale scelta, laddove il terzo sia legittimato all'opposizione di terzo ai sensi dell'art. 404 c.p.c.
Il quadro normativo

Il quadro normativo non fornisce una soluzione univoca al problema delle preclusioni che nel processo ordinario di cognizione limitano il potere del terzo di intervenire spontaneamente in un giudizio pendente per far valere un proprio diritto.

L'intervento c.d. volontario di cui all'art. 105, comma 1, c.p.c. consente, infatti, al terzo di far valere nei confronti di tutte o di alcune delle parti originarie un diritto connesso, per l'oggetto o per il titolo, a quello sul quale si è già instaurata la lite: si possono richiamare gli esempli classici di colui che rivendichi la proprietà di un bene già oggetto di contesa inter alios (connessione per il petitum) oppure di chi lamenti un danno a seguito della stessa condotta illecita già posta da altri a fondamento di una domanda risarcitoria (connessione per la causa petendi).

Il diritto del terzo può essere, quindi, azionato nei confronti di tutte le parti in quanto affatto incompatibile con quello dedotto nel giudizio pendente (cd. intervento principale) oppure nei riguardi solo di taluna delle parti originarie, in tal senso autonomamente affiancandosi a quello azionato in precedenza (c.d. intervento litisconsortile o adesivo autonomo).

Non fa valere un diritto suo proprio, invece, il terzo che agisca, ai sensi dell'art. 105, comma 2, c.p.c, soltanto «per sostenere le ragioni di alcuna delle parti», in quanto proprio dalla tutela di tali ragioni potrebbe ricavarne un vantaggio (c.d. intervento adesivo dipendente): ipotesi paradigmatica è quella del subconduttore in relazione al giudizio instaurato dal locatore nei confronti del conduttore principale.

In ordine alla questione della compatibilità tra lo stato del giudizio pendente ed il diritto di azione riconosciuto al terzo, l'art. 268 c.p.c. consente espressamente, al comma 1, che l'intervento spontaneo possa spiegarsi fino alla precisazione delle conclusioni e, tuttavia, al comma 2, preclude al terzo il compimento di «atti che al momento dell'intervento non sono più consentiti ad alcuna altra parte», sottraendo a tale preclusione solo colui che intervenga per l'integrazione necessaria del contraddittorio, vale a dire per sanare un vizio genetico del giudizio pendente.

Le indicazioni disciplinari non sembrano univoche. Da una lato, infatti, il «termine per l'intervento» (così la rubrica dell'art. 268 c.p.c.) è fatto coincidere con la precisazione delle conclusioni, così facendo intendere che il terzo possa presentare in udienza o depositare in cancelleria la rispettiva comparsa, con le relative allegazioni, elementi di prova e conclusioni, ai sensi dell'art. 267 c.p.c. (che richiama, al riguardo, il contenuto della comparsa di risposta del convenuto ex art. 167 c.p.c.), fino all'inizio della fase decisoria, nonostante a carico delle parti originarie del pendente giudizio siano già da tempo pienamente maturate le preclusioni assertive e probatorie. Dall'altro si esclude espressamente che il terzo, pur divenuto parte del giudizio, possa compiere attività processuale ormai preclusa alle parti originarie.

È, quindi, da considerare, quanto alle preclusioni assertive, che nel processo ordinario di cognizione nuove domande possono essere introdotte al più tardi all'udienza di trattazione ai sensi dell'art. 183, comma 5, mentre la formulazione dei mezzi di prova e la produzione dei documenti non possono comunque essere effettuati dopo la scadenza dei termini perentori di cui ai nn. 2 e 3 dell'art. 183, comma 6, c.p.c., ove sia disposta la c.d. appendice scritta della trattazione.

A fronte di tale regime di scadenze nella delimitazione del tema del contendere e del tema della prova, l'art. 268 c.p.c. sembra, al primo comma, palesemente orientato a far prevalere il diritto di difesa del terzo rispetto al pur avanzato stato di sviluppo in cui è pervenuto il giudizio pendente inter alios, senza operare, per di più, alcuna distinzione in ragione della natura dell'intervento volontario spiegato (principale, adesivo autonomo o adesivo dipendente); al comma successivo, invece, le preclusioni già maturate a carico delle parti originarie sono, invece, specificamente estese all'interveniente.

Le soluzioni proposte

In dottrina e nella giurisprudenza di merito sono state proposte divergenti soluzioni alle questioni poste dall'ambigua formulazione dell'art. 268 c.p.c..

Secondo l'orientamento più restrittivo l'intervento innovativo – vale a dire principale o litisconsortile – è ammissibile solo fino alla maturazione delle preclusioni assertive nel giudizio pendente; il termine finale costituito dalla precisazione delle conclusioni vale, quindi, solo per l'intervento adesivo dipendente, in quanto inidoneo ad ampliare la materia del contendere (in tal senso si sono espressi, all'indomani della riforma della l. n. 353/1990, Proto Pisani e Tarzia). L'esigenza prioritaria è, quindi, individuata nella economia processuale interna al giudizio pendente, la quale sarebbe pregiudicata da una tardiva insinuazione di una nuova domanda da parte del terzo, con le relative allegazioni e richieste istruttorie, sulle quali dovrebbe riattivarsi il contraddittorio.

In senso diametralmente opposto si è, invece, sostenuto (Consolo) che le preclusioni maturate nel giudizio pendente sono opponibili solo a chi spieghi un intervento adesivo dipendente, con il quale non si propone una domanda autonoma ma si sostiene il diritto di una delle parti originarie, mentre chi interviene per far valere un diritto suo proprio non può essere pregiudicato dallo stato del giudizio inter alios ove non sia già pervenuto alla precisazione delle conclusioni. L'interesse prevalente è, quindi, rinvenuto nella tutela del diritto di azione del terzo e nella economia processuale esterna, vale a dire nell'esigenza di agevolare il simultaneo processo con positive ricadute sia sulla funzionalità complessiva del sistema processuale sia sulla coerenza delle decisioni.

Tra le due opposte polarità si colloca, poi, l'indirizzo che riferisce l'ampio termine per l'intervento volontario di cui al primo comma dell'art. 268 c.p.c. alle sole preclusioni assertive, mentre sono ritenute insuperabili le scadenze già maturate nel giudizio in ordine alla formulazione delle prove (così Luiso, Balena, Olivieri). Si argomenta, al riguardo, che l'ammissibilità dell'intervento fino alla precisazione delle conclusioni implica necessariamente la possibilità di svolgere una domanda con le relative allegazioni e conclusioni, anche se resta preclusa una autonoma riapertura della fase istruttoria.

Taluni hanno, invece, sostenuto che le preclusioni suscettibili di essere opposte al terzo interveniente ex art. 268, comma 2, c.p.c. sono soltanto quelle relative alla causa originaria inter alios (Henke) ovvero ai presupposti processuali di tale causa (Carratta che richiama, al riguardo, Andrioli), così lasciando integro il potere di agire del terzo a tutela del proprio diritto in ordine sia alle allegazioni che alla relativa prova.

L'orientamento della Cassazione

Dopo talune pronunce che avevano condiviso l'indirizzo più restrittivo e, quindi, escluso la possibilità per l'interveniente di introdurre nuove domande dopo la scadenza del termine per la proposizione della domanda riconvenzionale (Cass. civ., sez. II, 19 ottobre 1988, n. 5685; Cass. civ., sez. III, 12 giugno 1986, n. 3907), la giurisprudenza di legittimità si è decisamente orientata a favore della linea ricostruttiva “mediana” imperniata sulla distinzione tra preclusioni assertive e preclusioni probatorie.

Il principio di diritto consolidato nella giurisprudenza di legittimità è, quindi, che la formulazione della domanda costituisce l'essenza stessa dell'intervento principale e litisconsortile, sicché la preclusione sancita dall'art. 268 c. p. c. non si estende all'attività assertiva del volontario interveniente, nei cui confronti, perciò, non è operante il divieto di proporre domande nuove ed autonome in seno al procedimento «fino all'udienza di precisazione delle conclusioni», configurandosi solo l'obbligo, per l'interventore stesso ed avuto riguardo al momento della sua costituzione, di accettare lo stato del processo in relazione alle preclusioni istruttorie già verificatesi per le parti originarie (Cass. civ., sez. I, 22 dicembre 2015, n. 25798; Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2014, n. 11681; Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2008, n. 25264; Cass. civ., sez. III, 14 febbraio 2006, n. 3186; Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2005, n. 15787; Cass, civ., sez. II, 3 novembre 2004, n. 21060; Cass. civ., sez. III, 25 febbraio 2003, n. 2830; Cass. civ., sez. I, 14 maggio 1999, n. 4771).

Tale linea interpretativa è chiaramente volta a contemperare contrapposte esigenze di rango costituzionale, vale a dire la tutela del diritto del terzo ex art. 24 Cost. e la garanzia della tempestiva definizione del giudizio tra le parti originarie, ove già pervenuto ad una fase matura di sviluppo, in conformità al parametro della ragionevole durata di cui all'art. 111 Cost..

La barriera delle preclusioni istruttorie è, comunque, sempre ritenuta superabile in concreto attraverso il rimedio della rimessione in termini, ai sensi dell'art. 184-bis c.p.c., ove si dimostri che la decadenza sia ascrivibile a ragioni non imputabili al terzo stesso (si può pensare al caso, ad esempio, in cui le parti abbiano operato in modo da nascondere l'instaurazione del giudizio).

Lo scrutinio della Corte Costituzionale

Non sono mancate argomentate critiche al consolidato indirizzo nomofilattico sull'applicazione dell'art. 268 c.p.c., dubitandosi della ragionevolezza e della compatibilità con il diritto di azione di una soluzione che consente al terzo bensì di spiegare le proprie domande ma non di assolvere il relativo onere probatorio, così esponendo l'interveniente alla pronuncia di rigetto per carenza di prova.

Si osserva, in particolare, che l'intervento volontario è volto a prevenire quei contrasti tra le decisioni e quei pregiudizi alle posizioni dei terzi che il sistema processuale è già chiaramente orientato a fronteggiare ex post attraverso la riunione tra le cause connesse pendenti avanti al medesimo ufficio giudiziario (art. 274 c.p.c.), l'intervento del terzo in grado di appello (art. 344 c.p.c.) e l'opposizione del terzo (art. 404 c.p.c.).

Si è, quindi, dubitato della conformità con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. dell'art. 268, comma 2, c.p.c., che - così come applicato dalla Suprema Corte - non consente a tutte le parti – non solo l'interveniente ma anche le parti originarie - in caso di intervento principale o litisconsortile, successivo alla maturazione delle preclusioni probatorie, di produrre documenti e di indicare mezzi di prova rispetto alla domanda formulata con l'atto di intervento.

Con ordinanza n. 215 in data 31 maggio 2005 la Corte Costituzionale (C. Cost., 31 maggio 2005 n. 215) ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sulla base di due ordini di considerazioni: da una lato il simultaneo processo non è imposto da alcuna norma di rango costituzionale in quanto resta integro il potere del terzo di agire autonomamente in giudizio per far valere il proprio diritto, eventualmente esperendo anche i rimedi previsti per evitare i pregiudizi derivanti dal giudizio inter alios (ex artt. 274, 344 e 404 c.p.c.); dall'altro i limiti al diritto alla prova derivano da una scelta operata spontaneamente dal terzo, qualora opti per l'intervento in un giudizio già in fase avanzata, e si giustificano in ragione del parametro della ragionevole durata del giudizio stesso.

In conclusione

La soluzione invalsa nella giurisprudenza di legittimità è, in realtà, solo apparentemente contraddittoria, in quanto ammette bensì il terzo a spiegare una autonoma domanda fino al momento in cui il giudizio non sia posto in fase decisoria ma, nel contempo, tutela le legittime aspettative delle parti originarie ad una sollecita definizione del processo una volta che sia stato già delineato il thema probandum.

Certamente l'intervento operato dopo che siano già maturate le preclusioni probatorie espone il terzo al rischio di non poter assolvere l'onere della prova; ma tale rischio, lungi dal costituire una lesione al diritto di azione, è solo una delle variabili da ponderare al momento della scelta tra l'intervento nel giudizio inter alios – con il vantaggio di trovare un contraddittorio già instaurato ed un materiale probatorio già in parte versato – e la promozione di un autonomo giudizio nel quale, invece, possono essere compiutamente formulati i mezzi di prova.

È da richiamare, quindi, l'autoresponsabilità del terzo in ordine alla strategia processuale da adottare, la quale sarà, in particolare, condizionata – ove il giudizio sia in fase avanzata - dalla valutazione della idoneità delle prove fornite dalle parti originarie a dimostrare anche le ragioni dell'interveniente.

Qualche dubbio sulla ragionevolezza di tale diritto vivente è, tuttavia, prospettabile in ordine all'intervento principale laddove il terzo sia legittimato all'opposizione ai sensi dell'art. 404, c.p.c. e, quindi, all'intervento in grado di appello ai sensi dell'art. 344 c.p.c. (si pensi all'ipotesi classica di colui che si ritiene proprietario del medesimo bene che è oggetto dell'azione di rivendica inter alios): il terzo in tal caso vanta, in effetti, una posizione radicalmente incompatibile con quella dedotta nel giudizio pendente, suscettibile di essere fatta valere anche in sede di gravame, ordinario o straordinario, sicchè non appare congruo che nel giudizio di primo grado lo stesso soggetto possa subire, invece, un trattamento deteriore in ordine all'assolvimento dell'onere della prova. In tal senso potrebbe, quindi, essere utilmente riconsiderata la compatibilità in parte qua di tale soluzione con il parametro dell'art. 3 Cost..

Guida all'approfondimento

PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2002, 382 e s.;

TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1996, 93 e s.;

CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, Profili generali, II, Padova, 2004, 408;

LUISO, in Consolo-Luiso-Sassani, Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996, 227;

BALENA, La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1994, 236 ss;

OLIVIERI, La ragionevole durata del processo di cognizione (qualche considerazione sull'art.111, 2°comma, Cost.), in Foro it,2000, V, 251 e ss;

HENKE, Il termine per l'intervento del terzo nel processo civile di primo grado: una questione irrisolta, in Riv. dir. proc., 2010, 1316;

CARRATTA, La ragionevole durata del processo compromessa dal terzo (interveniente) “incomodo” secondo la cassazione, in Corr. Giur., 2006, 235.

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