La natura della dichiarazione del coniuge non acquirente per l'acquisto di immobili esclusi dalla comunione legale
27 Marzo 2017
Massima
In tema di rapporti patrimoniali tra coniugi, in regime di comunione legale, la dichiarazione resa dal coniuge non acquirente in ordine alla natura personale di un immobile acquistato ha portata confessoria dei presupposti di fatto relativi alla provenienza del denaro utilizzato per l'acquisto, sicché l'azione di accertamento negativo della natura personale del bene postula la revoca della confessione resa dal coniuge non acquirente per vizio del consenso derivante da errore di fatto o violenza. Il caso
D.V. chiedeva al Tribunale di Verona la pronuncia della separazione dalla moglie S.T. per responsabilità della stessa e che quindi gli venisse restituita la casa adibita ad abitazione coniugale. Successivamente la moglie adiva il medesimo tribunale chiedendo che fosse dichiarato che il terreno acquistato dal marito su cui era stata realizzata la casa rientrava nella comunione legale in quanto la dichiarazione resa ex art. 179 c.c. era stata simulata. I due procedimenti venivano riuniti ed il Tribunale adito pronunciava una sentenza con cui, rigettata la domanda di addebito proposta da entrambi i coniugi, dichiarava la separazione, poneva un assegno di mantenimento a carico del D.V. e rigettava la domanda di accertamento avanzata da S.T.. Proposto appello da entrambi i coniugi avverso detta sentenza, la Corte d'appello di Venezia, in riforma della stessa, addebitava la separazione a D.V. e dichiarava che il terreno, su cui era costruita l'abitazione, ricadeva nella comunione legale. Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione D.V.. La Suprema Corte con sentenza n. 12197/2012 cassava con rinvio la decisione della Corte d'appello di Venezia, nella parte in cui aveva ritenuto il terreno appartenente alla comunione legale, statuendo che l'azione di accertamento negativo proposta dalla S.T. richiedesse l'accertamento della revoca della confessione del coniuge non acquirente per errore di fatto o violenza e non la prova negativa dell'enunciato pagamento del prezzo del terreno con provvista esclusivamente propria. Una volta riassunto il giudizio, la Corte d'appello con sentenza n. 289/2014, osservando che l'originaria domanda proposta da S.T. (ovvero la domanda di simulazione) era del tutto diversa rispetto a quella volta a far valere l'errore di fatto o la violenza quale vizio di formazione della volontà, la riteneva inammissibile. Avverso detta pronuncia proponeva ricorso per cassazione S.T. articolato in quattro motivi ed in particolare: 1) violazione e falsa o omessa applicazione degli artt. 2730 e 2732 c.c. e 394 c.p.c. per aver attribuito alla revoca della confessione i caratteri della domanda giudiziale ed averla ritenuta inammissibile in quanto domanda nuova; 2) violazione, falsa, omessa applicazione degli artt. 384, comma 2, 394, 112, 115 e 132 c.p.c. (con conseguente nullità della sentenza per difetto di motivazione) dell'art. 2697 c.c. e degli artt. 2730 e 2732 c.c., degli artt. 177 e 179 c.c., dell'art. 934 c.c. per avere la Corte d'appello violato il principio di diritto enunciato dalla Cassazione e le norme disciplinanti la natura ed i presupposti della revoca della confessione; 3) violazione dell'art. 112 c.p.c. per omesso esame delle domande della ricorrente proposte anche in sede di rinvio; 4) violazione e omessa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., dell'art. 132 c.p.c. e per omesso esame in relazione alla pronuncia di integrale compensazione delle spese per tutti i gradi. La questione
La pronuncia in commento affronta il tema della natura della dichiarazione rilasciata dal coniuge non acquirente in sede di stipulazione del contratto d'acquisto di beni immobili esclusi dalla comunione legale ex art. 179, ultimo comma, c.c. e del relativo regime. Le soluzioni giuridiche
Al fine di esaminare la questione posta all'attenzione della Corte nella pronuncia in esame, occorre premettere che, nel nostro ordinamento, il regime di comunione legale è strutturato su di un doppio binario. Il sistema traccia, invero, una linea di confine tra beni che rientrano nella comunione (art. 177 c.c.) e beni esclusi dalla comunione (art. 179 c.c.). Nulla vieta alle parti di ampliare l'oggetto della comunione legale, facendovi rientrare alcuni dei beni personali. Tuttavia, per espresso divieto di legge (art. 210, comma 2, c.c.), i beni di cui all'art. 179, comma 1, lett. c, d ed e, c.c. non possono essere compresi nella comunione convenzionale. Merita un esame specifico la sesta e ultima categoria di beni qualificati come personali dall'art. 179 c.c.. Si tratta dei “beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto” (art. 179, comma 1, lett. f, c.c.). A questa fattispecie ci si riferisce usualmente indicandoli come beni personali “per surrogazione”, nel senso che al bene personale originario se ne sostituisce (surroga) un altro che mantiene la medesima natura personale. La ratio di questa disposizione è di consentire che i beni personali possano essere liberamente trasferiti e sostituiti con altri e ciò al fine di garantire la libertà di autodeterminazione economica del coniuge titolare unico di detti beni. Pertanto, il coniuge può utilizzare le somme provenienti dall'alienazione di un bene personale, ai fini della surrogazione reale di cui all'art. 179, comma 1, lett. f, c.c.. La legge contiene una specificazione, stabilendo che nell'atto di acquisto debba essere espressamente dichiarato che il bene è comprato con il ricavato. In merito alla forma della dichiarazione resa dall'acquirente, la legge non prescrive requisiti particolari. Teoricamente la dichiarazione potrebbe, pertanto, essere resa anche in forma orale. Per ragioni probatorie è però ovviamente preferibile che la dichiarazione venga resa in forma scritta. Il legislatore detta poi una disciplina particolare per i beni immobili e i mobili registrati (art. 179, comma 2, c.c.), rendendo più difficile escludere detti beni dalla comunione legale. Sotto il profilo della ratio, l'intento è quello di predisporre particolari cautele contro il rischio di esclusione dalla comunione di beni che di solito risultano avere un valore particolarmente elevato. L'esclusione è possibile solo al ricorso di diversi presupposti fissati dalla legge, che vanno oltre la mera dichiarazione all'atto d'acquisto stabilita dal comma 1 dell'art.179 c.c. per i mobili. Occorre che sussistano cumulativamente i presupposti fissati dalla lett. c (deve trattarsi di bene strettamente personale) oppure dalla lett. d (bene per l'esercizio della professione) oppure dalla lett. f (bene acquistato in surrogazione) del comma 1 dell'art. 179 c.c.; 2) nell'atto di acquisto il contraente dichiari tale esclusione; 3) all'atto di acquisto partecipi anche l'altro coniuge. La valenza della dichiarazione rilasciata dal coniuge non acquirente in sede di stipulazione del contratto di acquisto da parte dell'altro coniuge, è stata a lungo controversa in dottrina ed in giurisprudenza. L'art. 179, ultimo comma, c.c. dispone che «l'acquisto di beni immobili, o di beni mobili elencati nell'art. 2683 c.c. effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall'atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l'altro coniuge». La ratio della norma, come unanimemente riconosciuto in dottrina, è quella di permettere al coniuge non acquirente di esercitare un controllo preventivo in tutti quei casi in cui un cespite patrimoniale di considerevole importanza (la norma si applica solo ai beni immobili e mobili registrati), è sottratto alla comunione legale ed entra a far parte del patrimonio personale dell'altro coniuge. Controversa è in particolare la natura della dichiarazione effettuata dal coniuge non acquirente. Si è osservato a riguardo (vedi in particolare G. Castellani, Sulla natura della dichiarazione del coniuge non acquirente ex art. 179 c.c., in Giurisprudenza Italiana, 2012) che le difficoltà connesse all'interpretazione dell'art. 179 cpv c.c. sembrano derivare dal fatto che tale articolo pone una regola unitaria per disciplinare vicende che presentano differenze sostanziali, cosicchè al problema di effettuare una lettura sistematicamente coerente del contenuto della norma, si affianca quello di valorizzare al massimo la funzione della medesima. La summa divisio è fra l'orientamento che ne sostiene la negozialità e quello che, al contrario, la nega, salva poi l'esistenza di specifiche differenze fra le varie posizioni degli autori che esprimono questo secondo orientamento. La questione non è puramente formale poiché dal riconoscimento della negozialità della dichiarazione discenderebbero, oltre che una sua maggiore valorizzazione nel quadro della fattispecie acquisitiva, importanti conseguenze in punto di revoca della dichiarazione e di rilevanza dei vizi del consenso. L'orientamento che sostiene la negozialità della dichiarazione muove dal tenore letterale dell'art. 179 c.c., il quale richiede che il coniuge non acquirente sia “parte” dell'atto d'acquisto e rileva come la scelta di utilizzare tale termine si correli più facilmente alla natura negoziale della dichiarazione. Secondo il contrario orientamento, prevalente in dottrina e in giurisprudenza, la dichiarazione in oggetto non avrebbe natura negoziale e si configurerebbe, invece, come mera dichiarazione di scienza avente carattere ricognitivo o confessorio ovvero, per altri, come atto giuridico volontario e consapevole, cui il legislatore attribuisce la valenza di testimonianza privilegiata, ricollegandovi l'effetto di una presunzione iuris et de iure di esclusione della contitolarità dell'acquisto. Per questo secondo orientamento, pertanto, quando il bene acquistato da uno dei coniugi non rientra tra quelli personali ai sensi dell'art. 179 c.c., esso cade comunque in comunione, quand'anche l'altro coniuge abbia consapevolmente prestato il consenso all'esclusione del coacquisto (vedi Cass. civ., sez. II, 6 marzo 2008 n. 6120; Cass. civ., sez. I, 19 febbraio 2000, n. 1917; Cass. civ., sez. I, del 27 febbraio 2003, n. 2954). Le Sezioni Unite, con sentenza del 28 ottobre 2009 n. 22755, hanno composto il contrasto, prendendo posizione tanto sulle modalità di partecipazione del coniuge non acquirente, quanto sulla natura di tale intervento, muovendo dall'assunto che l'esclusione dell'acquisto di un bene immobile dalla comunione legale esige due condizioni, ciascuna necessaria ma da sola non sufficiente, e cioè: è necessario che il bene acquistato da uno soltanto dei coniugi rientri tra quelli qualificati "personali" dall'art. 179 c.c.; è necessario che il coniuge non acquirente presenzi all'atto e presti il proprio consenso. Di conseguenza, ove si verifichi solo la prima, ma non la seconda, di tali condizioni, l'acquisto cadrà ugualmente in comunione, anche se abbia effettivamente ad oggetto un bene personale del coniuge acquirente. Più articolata è la soluzione data all'ipotesi in cui un bene non personale sia acquistato dal coniuge di persona che, partecipando all'atto, dichiari di consentire all'esclusione di quel bene dalla comunione legale. In questo caso, la sola dichiarazione di "rifiuto del coacquisto" non basta di per sè ad escludere dalla comunione beni che non siano personali, e pertanto anche il coniuge che ha dato il proprio consenso all'acquisto può chiedere che sia accertata la proprietà comune dell'acquisto stesso. Tuttavia resta il problema di stabilire quale sia il valore giuridico della dichiarazione di consenso, ed in particolare se essa possa essere considerata una confessione in senso tecnico. A tal riguardo le S.U. hanno operato una distinzione in ragione delle diverse cause che per la legge impediscono la caduta in comunione dell'acquisto. L'art. 179 c.c., infatti, stabilisce che sono beni personali di uno solo dei coniugi, e che pertanto non cadono in comunione i beni acquistati con denaro proveniente dalla vendita di beni personali; i beni destinati all'esercizio della professione e quelli di uso "strettamente personale". La prima di tali categorie di beni, hanno osservato le Sezioni Unite, si distingue dalle altre perché la loro natura personale è teoricamente accertabile in modo oggettivo (essere stati acquistati con denaro personale). Pertanto, quando il coniuge non acquirente, partecipando all'atto, dichiara che il bene acquistato dall'altro coniuge è "personale" perché acquistato con denaro personale, riconosce un fatto a sè sfavorevole e favorevole al destinatario della dichiarazione. Compie, quindi, una confessione stragiudiziale, revocabile solo nei limiti di cui all'art. 2732 c.c.. Non così per quanto concerne i beni da destinare all'esercizio della professione. La dichiarazione con la quale uno dei coniugi dichiara di consentire che il bene acquistato dall'altro coniuge sia destinato all'esercizio della professione di questi non è ammissione di un fatto, ma ricognizione di un intento. Tale dichiarazione, pertanto, non può formare oggetto di confessione, e la sua eventuale falsità resta priva di effetti: il bene acquistato cadrà dunque in comunione se non viene destinato all'esercizio della professione dell'acquirente, a nulla rilevando che l'altro coniuge abbia prestato il proprio "rifiuto del coacquisto". Tale indirizzo sia in punto di non negozialità della dichiarazione resa dal coniuge non acquirente. risulta confermato anche nella sentenza della Cassazione, sez. III, 6 novembre 2012, n. 19153 e appare ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità. É appunto aderendo a tale interpretazione che si è pronunciata la Cassazione nella sentenza in commento, riconoscendo alla dichiarazione resa dal coniuge non acquirente, circa l'appartenenza della casa familiare costruita sul terreno acquistato quale bene personale, valore di confessione stragiudiziale, di talché l'azione di accertamento negativo proposta necessariamente deve tradursi nell'accertamento della revoca di detta confessione per errore di fatto o violenza ex art. 2732 c.c. (e non come erroneamente ritenuto della non veridicità dell'enunciato pagamento del prezzo del terreno con provvista propria). Peraltro, va rilevato che la casa costruita sul suolo di proprietà di un coniuge (nel caso di specie adibita ad abitazione coniugale) non rientra nella comunione legale dei beni (anche se l'altro coniuge non proprietario ha partecipato alle spese di costruzione, potendo in tal caso solo vantare un diritto di credito in relazione alle somme spese) in quanto la c.d. accessione prevale sulla comunione; quindi, il coniuge proprietario del suolo acquista anche la piena proprietà dell'immobile edificato sul medesimo. Osservazioni
Secondo l'interpretazione accolta dalla Cassazione circa la natura della dichiarazione resa dal coniuge non acquirente, sembra doversi ritenere che la tutela che l'art. 179 cpv c.c. appresta allo stesso si riduca alla necessità di un controllo formale sulla sussistenza dei presupposti sostanziali fissati dalla norma, in costanza dei quali il coniuge avrebbe un vero e proprio diritto soggettivo ad includere il bene acquistato nel proprio patrimonio personale. Tale interpretazione appare ispirata non già dal favor communionis bensì dall'esigenza di tutelare l'autonomia del coniuge acquirente e di garantire la libera circolazione della ricchezza. A riguardo, si osserva, tuttavia, che le norme sul regime patrimoniale della famiglia e, più in particolare, sulla comunione legale, appaiono finalizzate a garantire, anche sul piano patrimoniale, i principi di solidarietà tra i coniugi e di comune determinazione degli indirizzi della vita familiare, che caratterizzano l'intera disciplina del diritto di famiglia. Il rispetto sostanziale di tali principi imporrebbe, pertanto, di porre dei limiti alla libertà, per il singolo coniuge, di disporre del proprio patrimonio personale, anche considerando che spesso la disuguaglianza patrimoniale dei coniugi si accompagna a disparità sul piano informativo che rischiano di rendere poco efficace un controllo meramente certificativo del coniuge non acquirente. Proprio in tali evenienze, si è sottolineato in dottrina, il riconoscimento della natura negoziale della dichiarazione garantirebbe una maggior tutela del coniuge non acquirente, il quale sarebbe legittimato a chiedere l'annullamento della propria dichiarazione per errore o altro vizio del consenso. Mentre la possibilità di esercitare tale sindacato risulterebbe preclusa se si spoglia la dichiarazione del coniuge non acquirente di ogni valore dispositivo e, quindi, negoziale. Inoltre l'art. 2732 c.c. pone dei limiti piuttosto stringenti alla possibilità di revocare la confessione stragiudiziale, consentendola solo in caso di errore oppure di violenza. Il caso di errore non ricorre quando il coniuge non acquirente è consapevole che l'altro coniuge compra con beni che non sono personali: si tratta della fattispecie più ricorrente nella prassi (ove i coniugi intendono trarre benefici fiscali dalla falsa dichiarazione). L'ipotesi poi di violenza in danno dell'altro coniuge, costretto a rilasciare la dichiarazione, deve reputarsi di ricorrenza del tutto marginale. Alla luce di questa giurisprudenza può in definitiva ritenersi che, una volta che il coniuge non acquirente ha rilasciato la dichiarazione, risulta difficile ricondurre il bene alla comunione legale.
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