Nessuna pronuncia di addebito in caso di scoperta della propria omosessualità
08 Agosto 2017
Massima
L'allontanamento affettivo e sentimentale dal coniuge, generato dalla “scoperta” di una omosessualità prima mai colta né sperimentata (quanto meno a livello cosciente), non può essere fonte di addebito della separazione. Trattasi di circostanze non ascrivibili alla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, e quindi inidonee a giustificare la declaratoria di addebito, essendo il frutto di una maturazione personale che inevitabilmente porta con sé tormenti interiori e difficoltà di vivere il contesto familiare fino a quel momento aderito. Il caso
Un marito, a seguito della richiesta di separazione giudiziale avanzata dalla moglie, si è costituto in giudizio avanzando domanda di addebito. Il resistente ha dedotto che la crisi coniugale è stata determinata unicamente dalla condotta della consorte che, durante la convivenza matrimoniale, aveva conosciuto e iniziato a frequentare una giovane donna, nei cui confronti aveva maturato sentimenti di affetto, assumendo parallelamente un atteggiamento di ostilità verso il marito e di freddo distacco dalla vita coniugale. La ricorrente, che a sua volta, con la memoria integrativa, ha richiesto la pronuncia di addebito asserendo di aver subito in un'occasione percosse dal marito, ha sostenuto che il rapporto matrimoniale era stato vacillante nel corso degli ultimi anni e che più volte era stato intrapreso dai coniugi, senza esito, il percorso della separazione. Il Tribunale di Perugia ha rigettato le reciproche domande di addebito. La questione
La sentenza in commento affronta tre questioni, abbastanza comuni nei giudizi di separazione: 1) una di carattere processuale, consistente nell'individuazione del momento utile per la formulazione della domanda di addebito; 2) l'individuazione dei presupposti sostanziali per la declaratoria di addebito, ovvero quale debba essere il rapporto tra la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e la pronunzia di addebito (c.d. nesso di causalità); 3) l'incidenza della scoperta dell'omosessualità di un coniuge sulla pronunzia di addebito. Le soluzioni giuridiche
Quanto alla prima questione, il Tribunale ha evidenziato che la dichiarazione di addebito della separazione presuppone la dimostrazione in giudizio che la crisi del rapporto coniugale sia ricollegabile alla violazione volontaria e consapevole da parte di uno, o di entrambi i coniugi, dei doveri nascenti dal matrimonio e che sussista un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati e l'intollerabilità della convivenza. Sotto il profilo processuale, il Tribunale afferma che «è del tutto necessario indicare in modo puntuale e specifico, entro la memoria integrativa, le circostanze fattuali poste a sostegno della domanda. La parte deve cioè indicare condotte specifiche e puntuali che valgano ad integrare la violazione dei doveri matrimoniali e collocarle anche in modo preciso sotto il profilo del contesto temporale, atteso che tale ultimo aspetto è fondamentale ai fini della valutazione della sussistenza e quindi della prova di un elemento costitutivo stesso della domanda di addebito, ossia il nesso di causalità tra la condotta violativa dell'obbligo e la crisi coniugale». Quanto allaseconda e alla terza questione,il Giudice ha scrutinato le domande incrociate di addebito: quella del marito nei confronti della moglie, consistente nella scoperta da parte della donna della propria omosessualità, e quella della moglie nei confronti del marito, per asserite percosse e violazioni dei doveri coniugali. Il principio comune, utilizzato per affrontare entrambe le domande, è che non ogni comportamento “infedele” del coniuge costituisce violazione dei doveri matrimoniali e che è sempre necessario fornire la prova rigorosa del nesso di causalità tra violazione, cosciente e volontaria, dei doveri coniugali e intollerabilità della prosecuzione della convivenza. E dunque. a) La domanda di addebito formulata dal marito è stata respinta del Tribunale, giacché la mera scoperta della moglie, nel corso del matrimonio, della propria omosessualità non costituisce violazione dell'obbligo di fedeltà e, quindi, non rileva ai fini dell'addebito, ma solo come motivo di intollerabilità della convivenza. In particolare, il Tribunale ha rilevato come l'esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio, dovuta alla presa di coscienza di un cambiamento del proprio orientamento sessuale, tale da rendere impossibile la prosecuzione della convivenza, genera il diritto dello stesso a chiedere la separazione, ma non implica alcun addebito, difettando un presupposto fondamentale di tale pronuncia: la coscienza e la volontarietà di venire meno ai doveri nascenti dal matrimonio. In parte motiva, si legge: «l'allontanamento affettivo e sentimentale del coniuge, pur causato da sentimenti nutriti verso una donna, non può nel nostro caso considerarsi colpevole, nel senso che non può ritenersi connotato dalla coscienza e volontarietà di venire meno ai doveri nascenti dal matrimonio, ma frutto di una maturazione personale che inevitabilmente porta con sé tormenti interiori e difficoltà di vivere il contesto familiare fino a quel momento aderito. (…) nemmeno vi è mai stata alcuna relazione extraconiugale, è certamente da escludere che le modalità in cui si è manifestata questa affettività siano state oggettivamente irrispettose nei confronti del marito». Aggiungono poi i giudici che, indipendentemente da quanto sopra, la domanda avrebbe dovuto essere respinta per evidente difetto del nesso di causalità, osservando come non fosse stata comprovata, nel corso dell'istruttoria, l'esistenza di una relazione extraconiugale tra la moglie e un'altra donna e non fosse, inoltre, stato dimostrato il nesso causale tra la “scoperta” da parte della moglie della propria omosessualità e l'intollerabilità della convivenza coniugale, visto che il marito, dopo averne preso atto, aveva mantenuto per un lungo tempo un comportamento “inerte” (non avendo mai attivato di propria iniziativa, negli anni successivi, la procedura legale di separazione). Sul punto, anche la giurisprudenza di merito ha ribadito che “«in sede di separazione personale dei coniugi qualora la moglie richieda l'addebito del fallimento del sodalizio coniugale al marito per persistente violazione del dovere di fedeltà connesso a tale vincolo, grava su di lei l'onere di provare non solo l'effettiva sussistenza della condotta colpevole del marito ma anche l'essenzialità rivestita da tale condotta nel fallimento del rapporto coniugale. Tale onere della prova è da ritenersi assolto - con conseguente accoglimento della domanda di addebito al marito - qualora la moglie riesca a dimostrare che la solidità del vincolo matrimoniale non aveva mai subito minacce di alcun genere, per cui il medesimo non sarebbe mai arrivato a rottura definitiva se il marito non avesse intrattenuto una stabile e duratura relazione extraconiugale»(Cfr. Trib. Bari, 21 settembre, 2006 n. 2338 - Il merito2007, 6, 38). b) Quanto poi all'incidenza della scoperta dell'omosessualità di un coniuge sulla pronunzia di addebito, il Tribunale perugino ha negato che la presa di coscienza da parte del coniuge, nel corso del rapporto matrimoniale, della propria omosessualità, pur configurando fatto idoneo a comportare l'intollerabilità della convivenza, giustifichi una pronuncia di addebito. Nello specifico, il Tribunale argomenta la propria posizione partendo dal seguente principio: l'addebito può essere attribuito solo in caso di inosservanza dolosa o colposa dei doveri matrimoniali. Deve, pertanto, trattarsi di inosservanza intenzionale o dovuta a negligenza del coniuge. Proprio alla luce di tale principio, il Tribunale di Perugia ha ritenuto che la condotta della moglie che scopre la propria omosessualità non possa essere censurata con la pronuncia di addebito, poiché frutto di un modo di essere della persona: in altre parole, la persona che è omosessuale non può essere “rimproverata” perché fa l'omosessuale.Infatti, la scoperta della propria omosessualità non costituisce una “colpa” per il coniuge, né può essere valutata in termini di violazione di uno dei doveri nascenti dal matrimonio: va considerata piuttosto una - non addebitabile - “evoluzione” personale e, conseguentemente, del rapporto matrimoniale. A ciò si aggiunga che, nel caso in esame, è emerso come la moglie non avesse mai intrattenuto una relazione extraconiugale con un'altra donna, ma solo intessuto un rapporto di amicizia dal quale erano scaturiti, poi, sentimenti particolarmente affettuosi, che avevano comportato uno stravolgimento emotivo importante nella sua sfera psicologica (tant'è che tale “scoperta” l'aveva portata a decidere di intraprendere un percorso psicoterapico). In conclusione, per i Giudici del Tribunale di Perugia, ove in uno dei due coniugi dovesse verificarsi un'inaspettata “slatentizzazione” della omosessualità, l'allontanamento affettivo dall'altro coniuge, in conseguenza di tale “scoperta”, non potrebbe considerarsi fonte di responsabilità, in quanto non caratterizzato dalla coscienza e dalla volontarietà di venire meno ai doveri nascenti dal matrimonio ma «frutto di una maturazione personale che inevitabilmente porta con sé tormenti interiori e difficoltà di vivere il contesto familiare fino a quel momento aderito». Osservazioni
Le motivazioni della sentenza in esame appaiono del tutto condivisibili. La semplice consapevolezza della propria omosessualità («sino a quel momento mai colta, né sperimentata, quanto meno a livello cosciente») non può costituire una condotta riprovevole e, di conseguenza, addebitabile. Non può essere ravvisata, del resto, alcuna colpa, intesa come coscienza e volontà di infrangere i doveri del matrimonio, nel coniuge che scopre (in maniera inevitabilmente graduale) di avere un diverso orientamento sessuale e, per tale ragione, sente come intollerabile la prosecuzione della convivenza. Anzi, proprio l'ammissione al coniuge della nuova tendenza sessuale può considerarsi espressione di quel dovere di lealtà che (per quanto sia impossibile confinare in una definizione giuridica) dovrebbe ispirare tutti i comportamenti di un coniuge nei confronti dell'altro. Dovere di lealtà che oggi assume una valenza forse ancora più pregnante dello stesso dovere di fedeltà: ne è conferma anche la circostanza per cui il legislatore, nel delineare gli obblighi delle coppie unite civilmente (l. n. 76/2016), non ha espressamente previsto l'obbligo di fedeltà. Scelta questa che non può essere interpretata come una semplice dimenticanza del legislatore, quanto piuttosto come una precisa scelta di ricondurre e assorbire tale obbligo nel più generale e ampio dovere di lealtà e assistenza morale, previsto - questo sì - anche per le coppie unite civilmente (v. A. Figone, Matrimonio e unioni civili: differenze e analogie, in ilFamiliarista.it). Ciononostante, malgrado tutte le considerazioni sopra esposte, qualcuno potrebbe comunque obiettare che un individuo omosessuale sa perfettamente di esserlo o comunque avrebbe dovuto accorgersene prima di sposarsi. A parere di chi scrive, un simile ragionamento non può essere condiviso, poiché risponderebbe a una sorta di automatismo irragionevole, pressoché apodittico, tra il dato oggettivo dell'inclinazione omosessuale e quello soggettivo della consapevolezza della stessa. |