Francesca Picardi
26 Aprile 2022

Ai sensi dell'art. 12 bis della l. 1° dicembre 1970, n. 898, «il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare dell'assegno ai sensi dell'art. 5, ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza».
Inquadramento

Ai sensi dell'art. 12 bis della l. 1 dicembre 1970, n. 898, «il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare dell'assegno ai sensi dell'art. 5, ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza». Lo stesso diritto è oggi attribuito anche alla parte dell'unione civile sciolta, a cui l'articolo in esame si applica in virtù dell'art. 1, comma 25, della l. 20 maggio 2016, n. 76, non risultando preclusivo il limite della compatibilità.

Tale disposizione ha posto notevoli problemi interpretativi e numerosi dubbi di legittimità costituzionale, oltre a suscitare non poche perplessità su un piano di giustizia sostanziale. Il suo fondamento è stato rinvenuto sia in ragioni di tipo assistenziale sia in ragioni di tipo compensative per l'apporto personale ed economico fornito dal coniuge alla formazione del patrimonio comune e dell'altro, trattandosi, peraltro, di un'entità economica maturata nel corso del rapporto di matrimonio. La quota dell'indennità spetta al coniuge al quale sia stato riconosciuto l'assegno divorzile e che non sia passato a nuove nozze a condizione che, al momento in cui sorge il diritto al trattamento di fine rapporto e, cioè, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, sia già intervenuta e passata in giudicato la sentenza di divorzio.

In evidenza

Il coniuge divorziato che percepisca l'assegno divorzile ha diritto ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro pari al quaranta per cento dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio

Presupposti

Il primo presupposto sembra precludere la nascita del diritto ove l'assegno divorzile sia già stato corrisposto in un'unica soluzione e non vi sia, quindi, né un soggetto creditore né un soggetto debitore. Del resto, come precisa la legge, «in tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico».

Ci si può, inoltre, chiedere se il diritto spetti anche qualora al momento della liquidazione del trattamento di fine rapporto l'ex coniuge non era titolare dell'assegno periodico, che gli è stato, però, riconosciuto, con decorrenza successiva, in sede di procedimento ex art. 9 l. n. 898/1970. La soluzione positiva è stata sostenuta in base al tenore letterale della disposizione, che non impone alcuna contestualità tra la riscossione del trattamento di fine rapporto e la titolarità del diritto all'assegno divorzile. La risposta negativa risulta, però, da un lato, più ragionevole, considerato che il lavoratore non può essere tenuto ad accantonare il trattamento di fine rapporto riscosso nell'eventualità di una richiesta di revisione delle condizioni di divorzio, e, dall'altro lato, più coerente con l'orientamento giurisprudenziale secondo cui la sussistenza delle condizioni previste dalla legge deve essere verificata al momento in cui matura per l'altro ex coniuge il diritto alla corresponsione del trattamento di fine rapporto stesso.

Recentemente la Suprema Corte ha, invece, precisato che, ai fini del riconoscimento del diritto in esame, è sufficiente che la titolarità dell'assegno divorzile sussista al momento in cui l'ex-coniuge maturi il diritto al trattamento di fine rapporto, essendo irrilevante la revoca successiva. Difatti, condizione per il riconoscimento della quota del trattamento di fine rapporto spettante all'ex coniuge, è che quest'ultimo sia già titolare di assegno divorzile o abbia presentato la relativa domanda al momento in cui l'altro ex coniuge abbia maturato il diritto alla corresponsione del trattamento, essendo irrilevante che la domanda di attribuzione della quota sia stata presentata dopo che l'assegno divorzile sia stato revocato, poiché la revoca opera "ex nunc" e non può incidere, elidendoli, tanto sul pregresso positivo accertamento del diritto all'assegno, su cui è caduto il giudicato "rebus sic stantibus", quanto sul correlato diritto alla quota del trattamento di fine rapporto (così Cass. 19 febbraio 2021, n. 4499, che, in applicazione di tale principio, ha rigettato il ricorso del marito avverso il provvedimento di merito con cui è stato confermato il riconoscimento della quota del 40% del suo trattamento di fine rapporto alla moglie, in accoglimento della domanda proposta da quest'ultima nel settembre 2014, dopo la revoca dell'assegno divorzile nel 2013, essendo stato percepito il trattamento di fine rapporto in data 2 novembre 2005, in epoca successiva alla presentazione, da parte della moglie, della domanda dell'assegno divorzile, accolta con la sentenza del 7 novembre 2005).

La previsione del secondo presupposto (e, cioè, il mancato passaggio a nuove nozze) appare, invero, superflua, tenuto conto che il nuovo matrimonio comporta già, n virtù del penultimo comma dell'art. 5 l. n. 898/1970, la cessazione dell'obbligo di corresponsione dell'assegno divorzile e, cioè, dell'altro fatto costitutivo del diritto alla quota del trattamento di fine rapporto. Alla luce della recente approvazione della l. n. 76/2016, ci si può, invece, chiedere se la costituzione di un'unione civile possa avere lo stesso effetto ostativo delle nozze. La soluzione dovrebbe essere positiva, tenuto conto dell'art. 1, comma 20, della legge Cirinnà, ai sensi del quale «al solo fine di assicurare l'effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall'unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso». L'effettività dei diritti ne comprende, difatti, anche i limiti. Peraltro, sembra coerente con il principio di uguaglianza assicurare il diritto de quo con lo stesso contenuto e gli stessi confini ai coniugi ed alle parti dell'unione civile.

Per quanto concerne la necessità del divorzio, è in realtà sufficiente che nel momento in cui maturi il diritto al trattamento di fine rapporto sia stata proposta la relativa domanda. Come chiarito, da ultimo, da Cass.6 giugno 2011, n. 12175, l'art. 12 bis l. n. 898/1970, in base a cui il coniuge ha diritto alla quota del trattamento di fine rapporto anche se questo "viene a maturare dopo la sentenza", implica che tale diritto è attribuito altresì ove il trattamento di fine rapporto sia maturato prima della sentenza di divorzio, ma dopo la proposizione della relativa domanda, quando invero ancora non possono esservi soggetti titolari dell'assegno divorzile, divenendo essi tali dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio ovvero di quella, ancora successiva, che lo abbia liquidato. Infatti, la precisazione in esame non avrebbe alcun concreto significato se non s'individuassero ipotesi in cui il diritto è riconosciuto nonostante il diritto al TFR sia maturato prima della sentenza di divorzio. L'anticipazione temporale non può, però, oltrepassare la proposizione della relativa domanda, a cui è consentito, in virtù della previsione dell'art. 4, comma 13, della l. n. 898/1970, che il Tribunale colleghi gli effetti della sentenza costitutiva di divorzio, atteso l'inscindibile collegamento esistente tra il diritto in esame, lo “status” di divorziato e l'assegno divorzile.

Nessuna quota dell'indennità di fine rapporto spetta, invece, al coniuge semplicemente separato, a favore del quale sia stato disposto un contributo per il mantenimento, se il rapporto di lavoro cessa prima della proposizione della domanda di divorzio.

In proposito, va ricordato che è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 bis, comma 1, l. n. 898/1970, in riferimento agli artt. 3, 29, comma 2, 31 e 38, comma 1, Cost., nella parte in cui non attribuisce anche al coniuge separato il diritto in esame. Si è, al riguardo, osservato che se l'indennità di fine rapporto è maturata in costanza di comunione legale, ove non sia in tutto o in parte utilizzata, rientra ex art. 177, lett. c), c. c. nella cd. comunione de residuo, per cui il coniuge ne gode ugualmente. Al contrario, nell'ipotesi di maturazione dopo il passaggio in giudicato della sentenza di separazione o l'emissione del decreto di omologazione della separazione consensuale, che comportano lo scioglimento della comunione legale, ma prima dell'introduzione del giudizio di divorzio, l'altro coniuge non può avanzare alcuna pretesa, salva la possibilità, ove ne sussistano i presupposti, di chiedere una modifica delle condizioni della separazione ex dell'art. 710 c.p.c.. La Corte Costituzionale con l'ord. 19 novembre 2002 n. 463 ha, però, dichiarato manifestamente inammissibile la questione, ritenendo che l'estensione al coniuge separato della misura patrimoniale in oggetto comporterebbe un'evidente ed indebita intromissione nella sfera di attribuzioni riservata alla discrezionalità del legislatore, atteso che si tradurrebbe in una pronuncia di tipo additivo volta ad introdurre, in mancanza di una soluzione costituzionalmente obbligata, un istituto diverso da quello di riferimento, che, per come è stato strutturato, presuppone, per la determinazione sia dell' an che del quantum debeatur, la configurabilità del credito per l'assegno divorzile già al momento della percezione dell'indennità di fine rapporto da parte dell'obbligato.

Oggetto

E' stato chiarito che la locuzione indennità di fine rapporto comprende tutti i trattamenti di fine rapporto, derivanti sia da lavoro subordinato, sia da lavoro parasubordinato, comunque denominati, che siano configurabili come quota differita della retribuzione, la cui riscossione sia sospensivamente condizionata alla risoluzione del rapporto di lavoro. Così, ad esempio, Cass. 17 dicembre 2003, n. 19309 ha incluso nell'ambito applicativo dall'art. 12 bis l. n. 898/1970 l'indennità premio di servizio, prevista dall'art. 2 l. n. 152/1968, per i dipendenti degli enti locali, in quanto costituisce una parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, la cui corresponsione è differita alla data di cessazione del rapporto. La disposizione “de qua” non si estende, invece, ad eventuali importi erogati, in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, ma ad altro titolo, come gli incentivi per l'anticipato collocamento in quiescenza (in questo senso, Cass. 17 aprile 1997, n. 3294). Da segnalare anche Cass. 30 dicembre 2005, n. 28874, secondo cui In materia di attribuzione di una quota dell'indennità di fine rapporto al coniuge titolare dell'assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze, l'art. 12-bis della legge n. 898 del 1970 ricomprende, nella locuzione indennità di fine rapporto anche le indennità di risoluzione del rapporto di agenzia, di cui agli artt. 24 e seguenti dell'Accordo nazionale agenti di assicurazione del 28 luglio 1994, senza che rilevi la circostanza che le stesse siano parametrate all'incremento del monte premi, agli incassi e alle provvigioni, e che non abbiano carattere prevalentemente retributivo. Infatti, al fine di stabilire se una determinata attribuzione in favore del lavoratore rientri o meno fra le indennità di fine rapporto contemplate dal predetto art. 12-bis, non è determinante il carattere strettamente o prevalentemente retributivo dell'attribuzione, ma, piuttosto, il correlarsi della stessa all'incremento patrimoniale prodotto, nel corso del rapporto, dal lavoro dell'ex coniuge, che si è giovato del contributo indiretto dell'altro coniuge.

Al contrario il diritto di cui all'art. 12 bis l. cit., essendo riferito ad una retribuzione in senso tecnico, tipica del rapporto di lavoro subordinato, pubblico o privato che sia, non può operare riguardo ad istituti di diversa natura, preminentemente previdenziale ed assicurativa, aventi origine in regimi professionali di natura privata, come l'indennità di cessazione dal servizio corrisposta ai notai, accomunata agli altri trattamenti di fine rapporto solo dalla scadenza al momento della cessazione dell'attività (così Cass. 11 aprile 2003, n. 5720).

Soggetto passivo

Obbligato alla corresponsione della percentuale dell'indennità di fine rapporto all'ex coniuge è il lavoratore e non il suo datore di lavoro, trattandosi di un diritto che trova fondamento nel rapporto di coniugio e, quindi, è configurabile solo tra le relative parti.

Del resto, una diversa interpretazione sarebbe inconciliabile con il tenore lessicale della disposizione, che parla del diritto ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto non semplicemente spettante, ma percepita dal proprio ex coniuge. Ne consegue che soggetto obbligato è necessariamente l'ex coniuge e non l'erogatore del trattamento di fine rapporto, il quale, nel momento in cui sorge il diritto ex art. 12 l.n. 898/1970, con la riscossione dell'importo da parte del lavoratore, ha già adempiuto la propria prestazione.

A ciò si aggiunga che la legge non prevede alcuna forma di tutela rafforzata del diritto in esame, a differenza di quanto avviene per il mantenimento o l'assegno divorzile, sicché non è configurabile alcun tipo di azione verso il datore di lavoro, quale terzo debitor debitoris.

Quantificazione

La percentuale spettante all'ex coniuge, secondo quanto stabilito dall'art. 12 bis, comma 2, l.n. 898/1970, è pari al quaranta per cento dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.

Ne consegue che, alla luce del primo e del secondo comma dell'articolo in esame, occorre dividere l'indennità percepita per il numero degli anni di durata del rapporto di lavoro e moltiplicare il risultato ottenuto per il numero degli anni in cui il rapporto di lavoro e quello matrimoniale sono coincisi, calcolando successivamente il 40 per cento su tale importo (sul punto Cass. 6 luglio 2007, n. 15299).

In proposito la giurisprudenza ha sottolineato che il legislatore si è ancorato ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad un elemento incerto e precario come la cessazione della convivenza, escludendo, pertanto, anche qualsiasi rilevanza della convivenza di fatto che abbia preceduto le nuove nozze del coniuge divorziato titolare del trattamento di fine rapporto. La piena ragionevolezza di tale scelta, sebbene molto contestata in dottrina, è stata riconosciuta anche dalla Corte Costituzionale che, con la sentenza del 17 gennaio 1991 n. 23, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 bis l. n. 898/1970, atteso che il criterio della cessazione della convivenza, proposto dal giudice remittente, sarebbe non solo incoerente con l'indirizzo seguito dal legislatore in tema di misure patrimoniali e con le esigenze di certezza perseguite, ma anche inidoneo a cogliere il modo in cui si articolano, in concreto, il contributo personale del coniuge economicamente più debole e le esigenze di solidarietà in ambito familiare. Del resto, si è evidenziato che verosimilmente, in caso di breve convivenza matrimoniale, seguita da un lungo periodo di separazione, verrà a mancare il presupposto per l'attribuzione della percentuale dell'indennità di fine rapporto di lavoro percepita dall'ex coniuge, cioè, il presupposto della spettanza dell'assegno divorzile, posto che la giurisprudenza esclude che l'assegno divorzile possa consistere in una rendita di carattere puramente parassitario.

(Segue) Le anticipazioni

E' sorto il dubbio se, in presenza di anticipazioni già riscosse dal coniuge lavoratore prima del divorzio, il diritto di cui all'art. 12 bis l. n. 898/1970 debba essere calcolato sull'importo globale, comprensivo di tali importi già introitati, o solo sul saldo percepito successivamente allo scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. Secondo la giurisprudenza di legittimità, si deve far riferimento all'indennità di fine rapporto o a quella sua parte percepita dopo l'instaurazione del giudizio di divorzio, senza ricomprendere, pertanto, eventuali anticipazioni che siano state riscosse anteriormente durante la convivenza matrimoniale o la separazione personale e che siano, quindi, definitivamente entrate nell'esclusiva disponibilità dell'avente diritto (da ultimo, Cass. 29 ottobre 2013, n. 24421).

In dottrina era stata sostenuta l'opposta soluzione, anche in ragione del riferimento all'indennità “che viene a maturare dopo la sentenza” di divorzio, identificata con quella i cui presupposti siano sorti successivamente, ma che è stata, almeno in parte, riscossa anteriormente. Si erano, tuttavia, sottolineate le iniquità conseguenti a tale interpretazione, che consentiva al coniuge economicamente più debole di beneficiare, in costanza di matrimonio, dell'anticipazione riscossa dal “partner”, e altresì di pretendere, dopo il divorzio, un'ulteriore parte dell'importo già speso per l'acquisto, ad esempio, di una casa comune.

(Segue) La base di calcolo e le ritenute fiscali

Va, infine, ricordato che la Suprema Corte ha chiarito, come già auspicato dalla dottrina, che la percentuale del quaranta per cento spettante all'ex coniuge deve essere calcolata sull'indennità di fine rapporto al netto e non al lordo delle ritenute fiscali, visto che altrimenti l'obbligato dovrebbe corrisponderla in relazione ad un importo da lui non percepito siccome gravato dal carico fiscale (Cass. 29 ottobre 2013, n. 24421).

In questo senso induce la lettera della legge, che fa riferimento all'indennità di fine rapporto percepita (e, quindi, già ridotta in considerazione delle ritenute fiscali) e non a quella spettante.

A ciò si aggiunga che, ove si aderisse alla contraria interpretazione, il prelievo fiscale sulla quota dell'indennità corrisposta all'ex coniuge graverebbe sulla residua quota spettante al coniuge lavoratore, a cui, in questo modo, verrebbe attribuita una percentuale di fatto inferiore al sessanta per cento riservatagli dall'art. 12 l. n. 898/1970.

Il problema della trasmissibilità “iure hereditatis”

Risulta controverso se la posizione in esame sia di carattere personale e si estingua con la morte dell'obbligato o, al contrario, abbia carattere esclusivamente patrimoniale e sia trasmissibile agli eredi dell'obbligato.

A favore della prima tesi milita l'intrasmissibilità “mortis causa” dell'assegno divorzile, che è il fondamentale presupposto del diritto in esame, la lettera della legge, che si riferisce all'indennità “percepita” dall'ex coniuge e non dai suoi eredi, e la previsione degli istituti di cui agli artt. 9 e 9 bis l. n. 898/1970 a tutela dell'ex coniuge in caso di decesso dell'altro.

A favore della trasmissibilità “mortis causa” del diritto può, invece, osservarsi, da un lato, che tale diritto ha ad oggetto una parte della retribuzione, sebbene differita, e, quindi, un elemento reddituale imputabile gli anni pregressi ed anteriori al decesso e, dall'altro, che i presupposti dell'istituto prescindono dalle cause della cessazione del rapporto di lavoro.

In questo secondo senso si è orientata la giurisprudenza di merito, sottolineando che il contributo conferito dal coniuge economicamente più debole nell'ambito del matrimonio sussiste indipendentemente dalla circostanza accidentale della morte dell'altro (Trib. Genova 8 gennaio 1991, in Giur. merito 1992, I, 323).

Successivamente anche la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto che, ai sensi dell'articolo 12 già citato, l'ex coniuge titolare di assegno ha diritto, se non passato a nuove nozze, ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto dell'altro coniuge, non rilevando che la stessa maturi per morte di questi o per altra causa (Cass. 20 settembre 2000, n. 12426).

Si è, difatti, sottolineato che l'art. 12 bis l. n. 898/1970 riguarda tutti i casi in cui il trattamento di fine rapporto spetti al lavoratore, senza che rilevi in contrario che l'art. 2122 c.c. non indichi tra gli aventi diritto alla indennità di fine rapporto l'ex coniuge, essendo tale disposizione codicistica anteriore alla entrata in vigore della legge sul divorzio e limitandosi, pertanto, a disciplinare l'attribuzione del trattamento di fine rapporto in caso di morte del lavoratore, sicché sarebbe irragionevole un'opzione ermeneutica che escluda il diritto dell'ex coniuge ad una quota della indennità per il servizio già prestato, maturata dall'altro coniuge, per effetto di una circostanza accidentale, quale il decesso di quest'ultimo in costanza del rapporto di lavoro.

Appare, al contrario, radicalmente esclusa la trasmissibilità “mortis causa” del diritto “de quo”, posto che con il decesso del beneficiario si estingue il diritto all'assegno divorzile e, quindi, viene meno uno dei presupposti dell'art. 12 della l. n. 898/1970.

Aspetti processuali

Processualmente si è ammessa la proposizione della domanda ex art. 12 bis l. 898/1970, in deroga al regime delle preclusioni processuali, nello stesso giudizio di divorzio, in un caso in cui, nel corso di tale procedimento, era intervenuta la cessazione del rapporto di lavoro. A questa conclusione si è giunti, da un lato, valorizzando l'evidente connessione tra la domanda di attribuzione di una quota del TFR e quella di assegno divorzile, il cui riconoscimento condiziona l'accoglimento della prima, e, dall'altro lato, assecondando le ragioni di economia processuale, in ossequio alle quali appare troppo gravoso imporre l'instaurazione di un giudizio separato tra le medesime parti, avente ad oggetto la sola domanda di attribuzione dell'indennità di fine rapporto, nonostante la sua liquidazione durante il giudizio di divorzio (v. Cass. 14 novembre 2008, n. 27233). In dottrina tale orientamento è, tuttavia, osteggiato, in base alla considerazione che il diritto in esame presuppone il passaggio in giudicato della sentenza che attribuisce l'assegno divorzile e, quindi, non sembra poter essere azionato prima della conclusione del giudizio di divorzio.

Ad ogni modo, qualora il rapporto di lavoro del coniuge nei cui confronti è stato chiesto l'assegno divorzile sia ancora in corso, la giurisprudenza ha escluso che la controparte possa avanzare in sede di giudizio di divorzio la relativa richiesta come condanna condizionata del terzo datore di lavoro ad eseguire direttamente nei suoi confronti l'eventuale, futuro versamento della quota del TFR (del problema si è occupata Cass. 23 marzo 2004, n. 5719). Si è, difatti, obiettato che la condanna condizionata, pur essendo ammessa nel nostro ordinamento, in omaggio al principio di economia dei giudizi, non deve essere subordinata al verificarsi di un evento, come il mancato passaggio a nuove nozze, il cui accertamento possa esigere un nuovo esame nel merito. Inoltre, si è osservato che la legge non prevede, per l'adempimento "in executivis" dell'obbligo di corrispondere la quota dell'indennità in parola, le stesse opportunità concesse all'avente diritto, nei confronti dei terzi debitori dell'obbligato, per l'adempimento degli oneri relativi al mantenimento ed all'assegno divorzile.

Resta, comunque, il dubbio relativamente all'individuazione del rito a cui è soggetta la domanda ex art. 12 bis l. n. 898/1970 proposta successivamente alla conclusione del giudizio di divorzio. Invero, l'assenza di una specifica disposizione potrebbe indurre alla scelta del rito ordinario. Parte della giurisprudenza di merito si è, però, orientata nel senso del rito camerale ex art. 737 c.p.c., ritenendo, da un lato, che tale regola generale sia desumibile per tutte le controversie successive al divorzio dall'art. 9 l. n. 898/1970 e, dall'altro lato, che il caso in esame integri, sia pure in senso lato, una modifica delle condizioni di divorzio (Per il rito camerale, v. Trib. Genova 8 gennaio 1991, in Giur. merito 1992, I, 323; per il rito ordinario, invece, Trib. Napoli 3 luglio 1987, in Giust. civ. 1987, I, 2373).

Casistica

Da aggiungere come terzo caso:

Il diritto spetta, se al momento della percezione del TFR, sia stato riconosciuto all'ex-coniuge l'assegno divorzile o presentata la relativa domanda, accolta in sede di divorzio, nonostante un'eventuale revoca successiva di detto assegno (Cass. 19 febbraio 2021, n. 4499).

La quota di tfr spettante all'ex coniuge

Il diritto non spetta se, al momento della percezione del TFR, sia intervenuta solo la separazione

C. Cost., 19 novembre 2002, n. 463

Il diritto spetta se, al momento della percezione del tfr, sia già stata proposta la domanda di divorzio, anche se non è ancora stata pronunciata la sentenza

Cass. 6 giugno 2011, n. 12175

Non rilevano le anticipazioni di tfr riscosse anteriormente all'instaurazione del giudizio di divorzio durante la convivenza matrimoniale o la separazione

Cass. 29 ottobre 2013, n. 24421

La percentuale spettante all'ex coniuge deve essere calcolata sull'indennità di fine rapporto al netto e non al lordo delle ritenute fiscali

Cass. 29 ottobre 2013, n. 24421

La domanda va proposta con rito ordinario o camerale?

Per il rito camerale, v. Trib. Genova 8 gennaio 1991, in Giur. merito 1992, I, 323; per il rito ordinario, invece, Trib. Napoli 3 luglio 1987, in Giust. civ. 1987, I, 2373

Riferimenti

L. Barbiera, I diritti patrimoniali dei separati e dei divorziati, Bologna, 1998;

F.Camilletti, Alcune considerazioni sul diritto dell'ex coniuge divorziato a concorrere sull'indennità di fine rapporto e sulla pensione di reversibilità, in Res.civ.prev. 2016, 638ss;

A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, vol. III. Il divorzio, Milano, 1988;

F. Petrucci, Profili fiscali, Riv. dir. trib. 1997, II, 623;

M. Seri, Tassabilità della percentuale del t.f.r. percepita dal coniuge separato, in Corr. trib. 1994, 2440.

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