Matrimonio: diritti e doveriFonte: Cod. Civ. Articolo 143
05 Agosto 2015
Inquadramento
Nel primo comma dell'art. 143 c.c., il legislatore del 1975 ha sancito il principio di uguaglianza dei coniugi, uguaglianza sostanziale e perfetta, da intendersi nel senso di identità di posizioni dei coniugi rispetto ai diritti e ai doveri nascenti dal matrimonio, la cui elencazione è contenuta nel secondo comma della medesima norma. Il matrimonio si fonda, dunque, sul principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi previsto dalla Costituzione all'art. 29 comma 2 Cost. con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare. Il marito e la moglie, a differenza che in passato, hanno, infatti, gli stessi diritti, che dovrebbero esercitare congiuntamente e di comune accordo, e gli stessi reciproci doveri: alla fedeltà, all'assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell'interesse della famiglia e alla coabitazione (art. 143 comma 2 c.c.). I doveri nascenti dal matrimonio tutelano esigenze fondamentali della persona dei coniugi, dovendosi, pertanto, rileggere l'art. 143 c.c. alla luce dei principi espressi dagli artt. 29 e 2 Cost., norme che inducono a ritenere che anche all'interno della famiglia trovi tutela la personalità dei suoi singoli membri, ponendosi la famiglia in funzione della persona. Ciò ha determinato un mutamento del contenuto dei diritti e dei doveri reciproci dei coniugi, i quali, nella nuova prospettiva costituzionale, da un lato, non devono ostacolare, nell'ambito familiare, il manifestarsi delle singole personalità dei membri della famiglia e, dall'altro, sono positivamente tenuti ad assecondare la soddisfazione degli interessi dell'altro coniuge (dovere di assistenza morale e materiale e dovere di collaborazione nell'interesse della famiglia). I concetti di fedeltà, assistenza, collaborazione, coabitazione vengono, dunque, ridefiniti alla luce del principio di tutela costituzionale della persona ed interpretati dalla giurisprudenza tenuto conto dell'evoluzione del contesto e dei costumi della società, nell'ambito della quale lo stesso concetto di famiglia fondata sul matrimonio ha perso negli ultimi anni, densi di profondi mutamenti del sentire sociale, quella centralità che fino a qualche anno fa era indiscussa (si pensi alla legge n. 76/2016 sulle unioni civili fra persone dello stesso sesso e sulle convivenze di fatto). L'obbligo di fedeltà caratterizza il matrimonio quale relazione personale tra gli sposi a carattere esclusivo e, prima delle pronunce di incostituzionalità, era preso in considerazione anche dal diritto penale che puniva l'adulterio (si riferiva all'infedeltà della moglie) e il concubinato (relativo all'infedeltà del marito che intratteneva una relazione stabile con un'altra donna). La Suprema Corte ha definito il dovere di fedeltà come l'obbligo di non tradire la fiducia reciproca fra i coniugi, non ledendo il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra gli stessi, che deve essere inteso non soltanto come astensione da relazioni extraconiugali (si veda, in merito, Cass, n. 9287/1997), ma come vero e proprio dovere di lealtà fra gli sposi; tale obbligo impone, dunque, di sacrificare gli interessi e le scelte individuali di ciascun coniuge che si rivelino in conflitto con gli impegni e le prospettive della vita in comune (in tal senso, Cass. n. 15557/2008). Ad oggi, la nozione di fedeltà è intesa in senso ampio, avendo confini più estesi rispetto alla mera dimensione dell'intimità fisica della coppia. Da un lato, non pare ormai possibile negare l'eventualità di formazione di coppie “libere” – nell'ambito delle quali i coniugi non reputano l'esclusività sessuale elemento imprescindibile della stabilità della relazione – tanto da indurre taluni a ritenere l'obbligo di fedeltà reciproca parzialmente disponibile a mezzo di accordo fra i coniugi (eventualmente da provarsi in giudizio, in caso uno dei coniugi, in sede di separazione, richieda l'addebito della separazione per la violazione del dovere di fedeltà); dall'altro lato, talvolta la separazione è addebitabile ad uno dei coniugi anche se lo stesso intrattenga con un terzo una relazione meramente platonica, incorrendo nella c.d. “infedeltà apparente” o “sentimentale” (cfr. Cass. n. 8929/2013, ove si è affermato che la relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione, ai sensi dell'art. 151 c.c., non solo quando si sostanzi in un adulterio, ma anche quando, in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell'ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e comporti offesa alla dignità e all'onore dell'altro coniuge, escludendo, peraltro, la Suprema Corte, nella fattispecie concreta, che la condotta della moglie integrasse gli estremi dell'adulterio in quanto, anche per la distanza tra i rispettivi luoghi di residenza, il legame con il terzo si era concretizzato solo in contatti telefonici o via internet e non era connotato da reciproco coinvolgimento sentimentale). La violazione del dovere di fedeltà può assumere rilievo nell'ambito della separazione personale dei coniugi fondando una pronuncia di addebito, qualora il coniuge “tradito” dimostri che la crisi matrimoniale irreversibile e l'impossibilità di prosecuzione della convivenza matrimoniale siano derivate, con nesso di causa diretto, dalla violazione del dovere di fedeltà dell'altro coniuge (cfr. Cass. n. 2059/2012). L'inosservanza dell'obbligo di fedeltà coniugale rappresenta, infatti, una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l'addebito della separazione al coniuge responsabile (cfr. in tal senso, Cass. n. 25618/2007). È evidente, peraltro, che l'infedeltà di un coniuge può essere rilevante ai fini dell'addebitabilità della separazione soltanto quando sia stata causa o concausa della frattura del rapporto coniugale e non anche quando risulti non avere spiegato alcuna concreta incidenza negativa sull'unità familiare e sulla prosecuzione della convivenza, essendo state l'una e/o l'altra già irrimediabilmente compromesse (si veda, in merito, Cass. n. 27730/2013; Cass., n. 13431/2008). La giurisprudenza più recente, coerentemente con l'evoluzione dei costumi sociali, si è occupata di ipotesi di infedeltà coniugale c.d. virtuale, ossia dei casi in cui uno dei due coniugi intrattiene un rapporto con una persona diversa dall'altro sposo attraverso gli strumenti che la moderna tecnologia mette a disposizione, ossia essenzialmente tramite chat online. Ebbene, partendo dal principio generale per il quale costituisce infedeltà virtuale ogni contenuto che comporti offesa alla dignità e all'onore dell'altro coniuge, la Suprema Corte ha affermato che affinché si concretizzi violazione dell'obbligo di fedeltà è sufficiente la ricerca di relazioni extraconiugali tramite internet da considerarsi “circostanza oggettivamente idonea a compromettere la fiducia tra i coniugi ed a provocare l'insorgere della crisi matrimoniale all'origine della separazione” (così, Cass. n. 9348/2018).
L'art. 143 comma 2 c.c., come detto, prevede che derivino, fra gli altri, due obblighi reciproci, a carico dei coniugi, di assistenza morale e materiale e di collaborazione nell'interesse della famiglia. Anche i doveri suddetti devono essere interpretati alla luce dei principi costituzionali di cui agli artt. 2,3,29 Cost., per cui il dovere di assistenza costituisce espressione della solidarietà matrimoniale, ovvero dell'impegno di vita assunto dai coniugi con il matrimonio e il dovere di collaborazione è anch'esso riconducibile ad una ratio solidaristica. L'obbligo di assistenza morale e materiale completa, con l'obbligo di fedeltà, l'impegno di vita che si costituisce con il matrimonio, mentre il dovere di collaborazione rende comunitario ciò che rimarrebbe sul piano individuale. Con specifico riferimento al dovere di assistenza, si deve poi distinguere tra assistenza morale e assistenza materiale. Sotto il primo profilo, viene in gioco la rilevanza dei dirittidella personalità del coniuge. In altre parole rileva la sfera spirituale, psicologica e affettiva di questo. Sul versante materiale dell'assistenza, si individua il sostegno reciproco nei bisogni della vita quotidiana: e dunque, l'aiuto nell'attività di lavoro e studio, nonché l'assistenza in caso di malattia. In materia di violazione dell'obbligo di assistenza materiale fra i coniugi va altresì evidenziato che la Suprema Corte ha affermato che il sistema delineato dal diritto di famiglia non attribuisce, in costanza di matrimonio, al coniuge non proprietario alcun potere sulla proprietà esclusiva dell'altro coniuge, né gli conferisce il potere di impedirgli il compimento degli atti di disposizione che non condivide. La condotta del coniuge che disponga dei beni di sua proprietà esclusiva senza tener conto del parere o dei desideri dell'altro coniuge e degli altri membri della famiglia può costituire, se del caso, motivo per addebitargli una eventuale separazione personale, non potendo formare oggetto di un provvedimento giudiziale coercitivo-inibitorio, salvo che gli atti di disposizione comportino la concreta violazione degli obblighi di assistenza economico-materiale della famiglia incombenti sul coniuge proprietario, o costituiscano addirittura attuazione di un disegno preordinato a sottrarsi alla loro osservanza, nel qual caso i familiari, suoi creditori, sono legittimati all'esercizio di azioni cautelari o di conservazione delle garanzie patrimoniali (in tal senso, Cass. n. 5420/2002; Cass. n. 5415/1992). In una prospettiva solidaristica della famiglia, può dirsi inadempiente il coniuge che non accetti la sterilità dell'altro, fino al punto di obbligarlo a sottoporsi a lunghe, pesanti e costose terapie, le quali, dimostratesi vane, abbiano indotto, quest'ultimo, a rifiutarsi di portarle avanti (cfr., in tal senso, Trib. Lecce 14 ottobre 1994, in Foro It.,I, 1995); parimenti inadempiente è stato considerato il marito che ha fatto mancare ogni assistenza alla moglie malata di mente, lasciandola vivere per 4 anni del tutto isolata, chiusa nel salotto di casa (in tal senso, Trib. Firenze 13 giugno 2000, in Fam. e Dir.,2001,161).
Il dovere reciproco alla collaborazione rappresenta il dovere di contribuire al cosiddetto ménage familiare, a tutto quello che serve per lo svolgimento organizzativo della vita della famiglia e nell'interesse della stessa. Con esso si tende a sottolineare, da un lato, che la gestione della famiglia deve essere il frutto di consultazione e dialogo continuo tra i coniugi; dall'altro, che questi devono essere pronti a sacrificare i propri interessi individuali per quelli della famiglia. Rilevando sicuramente anche sul piano economico, il dovere di collaborazione è da mettere in relazione con il dovere di contribuzione ai bisogni della famiglia, ex art. 143 comma 2 c.c.. Si comprende, quindi, che potrà violare l'obbligo in questione il coniuge che persisterà nel nascondere all'altro la misura dei redditi percepiti personalmente, essendo rilevante come il reddito di un coniuge sia direttamente riferibile all'interesse comune, più che all'interessesingolo dell'altro coniuge, assumendo, l'aspetto comunitario, una forte rilevanza nel caso della presenza di prole, che i coniugi hanno il dovere di mantenere, istruire ed educare. Inoltre, specifico àmbito di cui il dovere di collaborazione si fa carico è quello inerente l'attività necessaria per il normale svolgimento della vita familiare. In questo senso, costituiranno violazione del dovere di collaborazionecondotte non conformi all'indirizzo familiare, o non concordate. Deve ritenersi, quindi, che il cardine esegetico, alla luce del quale studiare la rilevanza autonoma del dovere di collaborazione sia la regola dell'accordo, prevista dall'art. 144 c.c.. Appare, inoltre, rilevante osservare come la giurisprudenza di legittimità abbia riconosciuto un certo rilievo, con riferimento alla violazione del dovere di collaborazione nell'interesse della famiglia, alla scelta del coniuge inerente la propria attività lavorativa, qualora effettuata contro il gradimento dell'altro, affermando che la stessa sarebbe valutabile ai fini di riconoscere l'addebito della separazione qualora questa sia stata intrapresa senza sottostare al metodo dell'accordo «in tema d'indirizzo della vita familiare, in relazione cioè alla violazione dell'ampio dovere di collaborazione gravante su entrambi i coniugi» (cfr. Cass. n. 2882/1985). Il dovere di collaborazione può assumere anche connotati non patrimoniali; in giurisprudenza, si è affermato non potersi pronunciare l'addebito a carico della moglie che, senza aver preventivamente conseguito il consenso del marito, abbia deciso di interrompere la gravidanza, esercitando un diritto che compete esclusivamente alla donna e che non è limitato dallo stato coniugale di questa (così, Trib. Monza, 26 gennaio 2006, in Foro It.,2006,1203 ss.). Peraltro la scelta unilaterale di abortire avrebbe potuto violare l'obbligo di collaborazione, se il concepimento fosse stato voluto e concordato dai coniugi, nell'àmbito della normale programmazione della vita coniugale.
Obbligo di coabitazione
Tale dovere - inteso, secondo il significato letterale dell'espressione, come fatto materiale dell'abitare sotto lo stesso tetto - deve tuttavia essere rapportato, in primis, all'art. 45 c.c. che, al comma 1, attribuisce a ciascuno dei coniugi la facoltà di avere un proprio domicilio autonomo rispetto alla residenza della famiglia e va interpretato anche in relazione all'art. 144 c.c. che sottopone la fissazione della residenza familiare al principio dell'accordo tra i coniugi. Ciò che conta ai fini del rispetto e dell'attuazione del dovere di coabitazione è che venga fissata, da parte dei coniugi, una sede della vita in comune, nella quale essi svolgano effettivamente la vita coniugale, a prescindere dall'assiduità della presenza fisica in essa. Si è altresì evidenziato come il dovere di coabitazione si ponga in rapporto strettamente funzionale rispetto ai doveri coniugali da cui è preceduto nell'elencazione contenuta nel comma 2 dell'art. 143 c.c., in particolare con quelli di assistenza morale e materiale e di collaborazione. Infatti, è evidente che l'assistenza e la collaborazione reciproca tra i coniugi sono costantemente condizionate dalla maggiore o minore intensità con la quale essi si trovino a vivere sotto lo stesso tetto. Il coniuge che si allontana ingiustificatamente dalla residenza familiare e rifiuta di tornarvi perde, a richiesta dell'altro coniuge, il diritto all'assistenza morale e materiale e, ai sensi dell'art. 146 u.c. c.c., è sottoposto all'eventuale sequestro dei beni, nella misura atta a garantire l'adempimento dell'obbligo di contribuzione (art. 143 comma 3 c.c.) e dell'obbligo di mantenimento del genitore verso i figli (art. 147 c.c. ). La violazione dell'obbligo di coabitazione resta esclusa dalla dimostrazione, con onere a carico di chi ha posto in essere l'abbandono, che quest'ultimo sia stato determinato dal comportamento dell'altro coniuge o, comunque, si sia verificato in conseguenza dell'intollerabilità della prosecuzione della convivenza (cfr. Cass. n. 12373/2005). Il profilo strutturale della violazione in oggetto, presentando la rilevante caratteristica dell'unilateralità, contribuisce, invero, a fondare l'addebito quando non possa escludersi una giusta causa, rinvenibile in situazioni di fatto, avvenimenti o comportamenti altrui, incompatibili con la protrazione della convivenza (così, Cass. n. 1202/2006). In particolare, la Suprema Corte ha recentemente ribadito il principio secondo il quale non configura alcuna violazione dell'obbligo di coabitazione, l'allontanamento di un coniuge della casa familiare giustificato dall'assenza di una vita sessuale appagante e serena, in quanto l'allontanamento dalla casa coniugale è stato determinato dall'assenza - comprovata in fase istruttoria - di una vera e propria intesa sessuale con l'altro coniuge. Il mancato appagamento sessuale, dunque, può giustificare un abbandono della casa coniugale da parte del coniuge insoddisfatto, senza che ciò comporti a suo carico una pronuncia di addebito in sede di separazione (in tal senso, Cass. n. 8773/2012). L'obbligo di coabitazione previsto dall'art. 143 c.c. non deve, peraltro, intendersi assoluto e necessariamente fonte di responsabilità o di addebito della separazione, non potendosi escludere che i coniugi possano avere la residenza in due abitazioni differenti: per motivi personali o professionali, infatti, è consentito l'allontanamento dalla casa coniugale purché questa decisione sia temporanea e concordata. Invero, si ha violazione dell'obbligo di coabitazione quando uno dei coniugi decide unilateralmente di abbandonare la casa coniugale spostando la propria residenza, oppure quando i due non raggiungono un accordo in merito alla residenza familiare scegliendo vivere in due indirizzi separati. Nel dettaglio, si ha un mancato accordo sulla residenza familiare quando per motivi lavorativi o di salute uno dei coniugi vorrebbe trasferirsi ma l'altro si oppone a questa decisione. In tal caso entrambi possono chiedere la separazione con addebito ai danni dell'altro e spetterà al giudice valutare se la richiesta di una parte - oppure il dissenso dell'altra - a trasferirsi sia giustificabile oppure no. Qualora mantenere la residenza disgiunta sia una decisione concordata allora non scatta alcuna violazione dei doveri matrimoniali. Come anticipato, infatti, la legge consente di vivere separatamente dal momento che - per i motivi suddetti - la presenza di due residenze anagrafiche non implica automaticamente la violazione dell'obbligo di coabitazione.
Obbligo di contribuzione economica
Il principio di uguaglianza dei coniugi si esprime anche sul piano dei rapporti patrimoniali con l'affermazione che essi sono tenuti in base alle proprie sostanze e alla capacità di lavoro a contribuire ai bisogni della famiglia. Allo stesso modo, ciascun coniuge deve adempiere all'obbligo di mantenere, istruire ed educare i figli, secondo la capacità di lavoro professionale o casalingo. Questo significa che, da un lato, entrambi i coniugi devono attivarsi per porre a frutto la loro capacità di lavoro (l'inerzia costituisce inadempimento degli obblighi che derivano dal matrimonio) e, dall'altro, l'attività casalinga, anche se non produce reddito, costituisce un modo per contribuire al soddisfacimento dei bisogni della famiglia. Violazione degli obblighi matrimoniali, addebito e risarcimento del danno da illecito c.d. endofamiliare
È acquisizione condivisa dalla giurisprudenza e dalla dottrina che nel sistema delineato dal legislatore del 1975 il modello di famiglia-istituzione, al quale il codice civile del 1942 era rimasto ancorato, è stato superato da quello di famiglia-comunità, i cui interessi non si pongono su un piano sovraordinato, ma si identificano con quelli solidali dei suoi componenti. Si tratta di un disegno della “nuova famiglia” completato e arricchito dalla l. n. 219/2012 e dal d.lgs. n. 154/2013 che hanno ulteriormente amplificato il “valore” del singolo membro nella comunità familiare, in particolare, sottolineando come i genitori non esercitano una “potestà genitoriale”, ma sono titolari di una “responsabilità genitoriale”: concetto che già in sé richiama il dovere piuttosto che il diritto. La famiglia si configura, dunque, come sede di autorealizzazione e di crescita, segnata dal reciproco rispetto ed immune da ogni distinzione di ruoli, nell'ambito della quale i singoli componenti conservano le loro essenziali connotazioni e ricevono riconoscimento e tutela, prima ancora che come “membri”, come persone. Ne consegue che il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume i connotati di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia, cosi come da parte del terzo, costituisce il presupposto logico della responsabilità civile. In questa direzione, la sentenza della Corte di Cassazione n. 9801/2005 ha ampliato le frontiere della responsabilità civile nelle relazioni familiari e, oggi, il principio di indefettibilità della tutela risarcitoria trova spazio applicativo anche all'interno dell'istituto familiare, pur in presenza di una specifica disciplina dello stesso (Cass. n. 15481/2013). La Suprema Corte (cfr. Cass. n. 8862/2012; Cass. n. 18853/2011) ha specificato che i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio non sono di carattere esclusivamente morale ma hanno natura giuridica, come si desume dal riferimento contenuto nell'art. 143 c.c., alle nozioni di dovere, di obbligo e di diritto e dall'espresso riconoscimento nell'art. 160 c.c., della loro inderogabilità, nonché dalle conseguenze di ordine giuridico che l'ordinamento fa derivare dalla loro violazione, cosicché deve ritenersi che l'interesse di ciascun coniuge nei confronti dell'altro alla loro osservanza abbia valenza di diritto soggettivo. Ne deriva che la violazione di quei doveri non trova necessariamente la propria sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quali la sospensione del diritto all'assistenza morale e materiale nel caso di allontanamento senza giusta causa dalla residenza familiare ai sensi dell'art. 146 c.c., l'addebito della separazione, con i suoi riflessi in tema di perdita del diritto all'assegno e dei diritti successori, il divorzio e il relativo assegno, con gli istituti connessi. Discende, infatti, dalla natura giuridica degli obblighi suddetti che il comportamento di un coniuge non soltanto può costituire causa di separazione o di divorzio, ma può anche, ove ne sussistano tutti i presupposti secondo le regole generali, integrare gli estremi di un illecito civile; fermo restando che la mera violazione dei doveri matrimoniali non può di per sé ed automaticamente integrare una responsabilità risarcitoria, dovendo, in particolare, quanto ai danni non patrimoniali, riscontrarsi la concomitante esistenza di tutti i presupposti ai quali l'art. 2059 c.c., riconnette detta responsabilità, secondo i principi da ultimo affermati nella sentenza n. 26972/2008 delle Sezioni Unite della Suprema Corte, la quale ha ricondotto sotto la categoria e la disciplina dei danni non patrimoniali tutti i danni risarcibili non aventi contenuto economico. In definitiva, pertanto, l'analisi della recente giurisprudenza di legittimità in merito al risarcimento del danno da illeciti c.d. endofamiliari consente di evidenziare come la violazione di obblighi nascenti dal matrimonio (obblighi reciproci fra i coniugi e obblighi dei genitori nei confronti dei figli) se da un lato giustifica la pronuncia di addebito a carico di un coniuge (o le diverse espresse sanzioni previste dall'ordinamento), dall'altro può configurare un comportamento che, incidendo su beni essenziali della vita, che trovano tutela anche costituzionale, può produrre un danno ingiusto, con conseguente diritto anche al risarcimento del danno morale ex artt. 2043 e 2059 c.c.. L'illecito endofamiliare è stato altresì riconosciuto dalla giurisprudenza nelle ipotesi di danno per mancato riconoscimento di paternità, attribuito al padre che abbia generato ma non riconosciuto il figlio, purchè sia provata la consapevolezza della procreazione che, pur non identificandosi con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, richiede comunque la maturata conoscenza dell'avvenuta procreazione, non evincibile tuttavia in via automatica dal fatto storico della sola consumazione di rapporti sessuali non protetti con la madre, ma anche da altri elementi rilevanti, specificatamente allegati e provati da chi agisce in giudizio (così Cass n. 22496/2021). Casistica
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