Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina

23 Aprile 2015

Inserito nel titolo dedicato ai «Delitti contro la famiglia» e nel capo relativo ai «Delitti contro l'assistenza familiare», il reato in esame, che ricalca in parte la lettera di una disposizione già contenuta nel Codice Zanardelli del 1889 (art. 390 c.p.), nel corso dei decenni è stato oggetto di una interpretazione dottrinale e giurisprudenziale che ne ha, via via, circoscritto la portata
Inquadramento

Inserito nel titolo dedicato ai «Delitti contro la famiglia» e nel capo relativo ai «Delitti contro l'assistenza familiare», il reato in esame, che ricalca in parte la lettera di una disposizione già contenuta nel Codice Zanardelli del 1889 (art. 390 c.p.), nel corso dei decenni è stato oggetto di una interpretazione dottrinale e giurisprudenziale che ne ha, via via, circoscritto la portata limitandone il campo di applicazione, fornendo in questo senso un'esegesi che potesse rispondere al mutamento di costumi. Tale lettura evolutiva è stata resa possibile tenendo in debita considerazione non solo la delicatezza del bene tutelato dalla norma e i soggetti attivi e passivi, ma anche il tenore propriamente letterale della disposizione, che a tratti appare vago e indefinito.

Nel suo complesso, la fattispecie disciplinata dall'art. 571 c.p. punisce coloro che abusano dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di persone sottoposte alla loro autorità, o loro affidate per ragioni «di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l'esercizio di una professione o di un'arte», cagionando un pericolo di una malattia nel corpo o nella mente. La pena prevista è la reclusione fino a sei mesi. Il secondo comma stabilisce due circostanze aggravanti: se dal fatto derivano lesioni, si applicano le pene previste agli artt. 582 e 583 c.p., ridotte di un terzo; se dal fatto deriva la morte, si applica la pena della reclusione da 3 a 8 anni.

Oggetto tutelato

Si è accennato, poco sopra, al fatto che l'evoluzione dei tempi ha portato la giurisprudenza e il legislatore – il quale ha approvato leggi e regolamenti che hanno puntualmente disciplinato la possibilità di comminare sanzioni nei confronti, per esempio, dei propri dipendenti, nell'ambito di un rapporto di lavoro – a circoscrivere la portata dell'art. 571 c.p.. Se, quindi, è ormai possibile affermare che uno dei pochi contesti di concreta applicazione del reato in esame sia quello familiare o parafamiliare (per esempio la scuola), appare del tutto condivisibile la posizione dell'articolo nell'economia complessiva del codice, dovendosi identificare l'oggetto tutelato proprio nell'assistenza familiare. Altri orientamenti intendono invece che la fattispecie tuteli l'incolumità fisica del soggetto passivo, ponendo particolarmente l'accento sulle circostanze previste dal secondo comma e dall'inciso «se dal fatto deriva una malattia nel corpo o nella mente».

Soggetti attivi e passivi

Non v'è dubbio che la fattispecie in esame sia un reato proprio, nonostante l'utilizzo, da parte del legislatore, del termine «chiunque». Unici soggetti attivi, infatti, possono essere coloro che intrattengono con il soggetto passivo un rapporto basato sull'autorità, oppure su un affido per «ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia ovvero per l'esercizio di una professione o di un'arte»: solo all'interno di questo rapporto di subordinazione del soggetto passivo può assumere rilievo, ai fini del reato, una condotta (criminosa) posta in essere dal soggetto attivo.

Deve quindi escludersi, come puntualmente messo in luce dalla dottrina (si veda Rancari, Riflessi penalistici dell'autorità maritale: in tema di abuso dei mezzi di correzione, in Archivio penale, XIV, parte II, 1958) che il codice abbia inteso prevedere una sorta di tertiumgenus di reato, a metà strada tra il reato proprio e il reato comune.

Ai fini pratici, tuttavia, potrebbe risultare più opportuno focalizzarsi non tanto sull'identità dei soggetti attivi e passivi, quanto piuttosto sul rapporto che deve intercorrere tra di loro.

  • La norma parla, in primo luogo, di rapporto di autorità. Tale può essere considerato quello intercorrente tra genitori e figli. Già dagli anni Settanta, invece (si veda, per esempio, Cass. pen., sez. V, 28 ottobre 1971, n. 1105, per cui «il marito ha una posizione di preminenza rispetto alla moglie […] ma deve rispettarne la personalità sia morale che fisica»), può ritenersi superato l'orientamento giurisprudenziale per cui tale rapporto sussisteva anche tra marito e moglie. È ben vero che il termine «autorità» pare anacronistico, soprattutto alla luce della riforma del diritto di famiglia del 1975 che ha abolito la patria potestà, ma è proprio in questo caso che si percepisce concretamente l'interpretazione evolutiva data dalla giurisprudenza alla lettera testuale della norma, da cui va (e deve andare) esente ogni impostazione gerarchica: soggetto attivo non è più, quindi, solo il padre, ma può esserlo anche la madre; in secondo luogo, non è configurabile il delitto de quo qualora il soggetto passivo sia il figlio già divenuto maggiorenne, anche se ancora convivente, «trattandosi di persona non più sottoposta all'autorità del genitore» (Cass. pen., sez. VI, 10 gennaio 2011, n. 4444). A titolo di esaustività va ricordato che nella giurisprudenza dei primi decenni del Novecento v'è traccia dell'operatività del reato in questione nei rapporti tra padroni e servi domestici. È inutile precisare che tale circostanza va, oggi, esclusa con forza.
  • In secondo luogo, la norma parla di persona affidata per ragione di educazione e di istruzione. È il caso di docenti e insegnanti (anche dei parroci o dei catechisti), i quali evidentemente detengono un potere disciplinare e correttivo nei confronti dei discenti loro affidati. È da escludersi, comunque, che tali soggetti attivi possano fare ricorso a coercizione fisica (si è parlato, alternativamente, di vis modica o di vis modicissima) nell'ambito dei loro poteri autoritativi.
  • La disposizione passa quindi all'affido per ragione di cura. Se, da una parte, è facilmente immaginabile un rapporto di tal fatta (si pensi, ad esempio, alle relazioni tra i pazienti e i medici o gli infermieri di un ospedale, o ancora tra gli anziani e gli operatori di una casa di cura o riposo), è invece più difficile immaginare che tali relazioni siano improntate a una supremazia del personale ospedaliero o di cura rispetto ai pazienti e agli ospiti della struttura. Si ritiene pertanto che l'evoluzione dei costumi abbia completamente svuotato di significato la previsione qui in esame, dovendosi ritenere che il personale sanitario, generalmente inteso, non detenga un potere tale da ritenersi legittimato ad usare (e quindi, potenzialmente, ad abusare di) mezzi di correzione o di disciplina.
  • La normativa pone poi l'accento sull'affido per ragioni di vigilanza o custodia. È il caso degli educatori dei campeggi (cfr. Cass. pen., sez. VI, 8 maggio 1990, n. 15903). È invece da escludere che la norma possa essere applicata agli agenti di polizia penitenziaria (soggetti attivi) e ai detenuti di un carcere (soggetti passivi), dal momento che – anche in tale circostanza – la legge circoscrive tassativamente i casi in cui possono essere posti in essere interventi correttivi. In caso di violenze sui detenuti, seppur animate da ius corrigendi, potranno sussistere reati di altra natura (lesioni, etc.) ma non quello in esame.
  • Infine, v'è da esaminare il rapporto di affido per l'esercizio di una professione o di un'arte. La Corte di legittimità ha escluso (cfr. Cass. pen., sez. VI, 22 gennaio 2001, n. 10090) che il reato in esame possa essere applicato anche nel rapporto tra lavoratore e proprio dipendente/sottoposto, dal momento che la legge prevede tassativamente i casi in cui possano essere utilizzati strumenti coercitivi tra detti soggetti.
Elemento oggettivo e natura del reato

V'è ora da circoscrivere la portata dell'elemento oggettivo del reato. Appare opportuno muovere dalla lettera del testo e, conseguentemente, dal termine «abuso». Non vi può essere abuso se, come logica premessa, non c'è un uso. In questo senso, la giurisprudenza di legittimità ha tratteggiato con icastica precisione questo assunto: «L'esercizio del potere di correzione al di fuori dei casi consentiti, o con mezzi di per sé illeciti o contrari allo scopo, deve ritenersi escluso dall'ipotesi di abuso e va inquadrato nell'ambito di diverse fattispecie incriminatrici» (Cass. pen., sez. VI, 23 novembre 2010, n. 45467). Ancora, «l'abuso dei mezzi di correzione presuppone un uso consentito e legittimo di tali mezzi tramutato per eccesso in illecito (abuso). Ne consegue che non è configurabile tale reato qualora vengano usati mezzi di per sé illeciti sia per la loro natura che per la potenzialità del danno» (Cass. pen., sez. V, 9 maggio 1986, n. 10841). Di conseguenza, è possibile ritenere che sussista il reato di abuso quando il soggetto attivo abbia trasceso un potere disciplinare che gli spetta; qualora tale potere non gli spetti, o qualora l'azione non sia inquadrabile – né come uso né, conseguentemente, come abuso – nell'ambito di un potere disciplinare, perché comunque illecita, il soggetto sarà punibile per un'altra tipologia di reato (per esempio lesioni, ingiurie, percosse, maltrattamenti).

Quanto alla portata del concetto di «mezzi di correzione o di disciplina», è anche qui chiarificatore un richiamo alla giurisprudenza di legittimità. La Cassazione è infatti intervenuta, in tempi piuttosto risalenti e mantenendo, successivamente, la medesima linea, riempiendo di significato un'espressione figlia del tempo in cui era stata formulata e difficilmente sovrapponibile ai canoni pedagogici odierni: «Con riguardo ai bambini il termine “correzione” va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. In ogni caso non può ritenersi tale l'uso della violenza finalizzato a scopi educativi: ciò sia per il primato che l'ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetti titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di convivenza utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice. Ne consegue che l'eccesso di mezzi di correzione violenti non rientra nella fattispecie dell'art. 571 c.p. giacché intanto è ipotizzabile un abuso (punibile in maniera attenuata) in quanto sia lecito l'uso» (Cass. pen., sez. VI, 18 marzo 1996, n. 4904).

Affinché sia integrato il reato de quo è inoltre indispensabile che dalla condotta del soggetto agente derivi «il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente». La giurisprudenza ha chiarito che la nozione di «malattia» ha confini più ampi di quelli relativi all'imputabilità o ai fatti di lesione personale, «estendendosi fino a comprendere ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo, dallo stato d'ansia all'insonnia, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento» (cosi Cass. pen., sez. VI, 7 febbraio 2005, n. 16491; più recentemente, Cass. pen., sez. III, 22 ottobre 2009, n. 49433). Tali condizioni non devono essere necessariamente accertate con una perizia, ma possono essere desunte anche dalla natura stessa dell'abuso, secondo le regole della comune esperienza; «il pericolo può ritenersi, senza bisogno di alcuna indagine eseguita sulla base di cognizioni tecniche, quando la condotta dell'agente presenti connotati tali da risultare suscettibile in astratto di produrre siffatta conseguenza. Né occorre, trattandosi di tipico reato di pericolo, che questa si sia realmente verificata, atteso che l'esistenza di una lesione personale è presa in considerazione come elemento costitutivo della ipotesi diversa e più grave prevista dal secondo comma dell'art. 571 c.p.» (così Cass. pen., sez. VI, 1 aprile 1998, n. 6001).

La giurisprudenza è concorde nel ritenere il reato in oggetto una fattispecie non necessariamente abituale, «sicché ben può ritenersi integrato da un unico atto espressivo dell'abuso, ovvero da una serie di comportamenti lesivi dell'incolumità fisica e della serenità psichica del minore che, mantenuti per un periodo di tempo apprezzabile e complessivamente considerati, realizzano l'evento, quale che sia l'intenzione correttiva o disciplinare del soggetto attivo» (Cass. pen., sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 18289; così anche Cass. pen., sez. V, 15 dicembre 2009, n. 2100).

Elemento soggettivo

Chiarita anche la natura di pericolo del reato in esame, è ora da analizzare l'aspetto dell'elemento soggettivo. Una giurisprudenza risalente, ormai superata, riteneva indispensabile il dolo specifico, ossia il fine di aver agito nell'esercizio dello ius corrigendi; tale interpretazione è stata oggetto di revirement da parte della Corte di cassazione per la quale è oggi sufficiente il mero dolo generico per l'integrazione del reato de quo.

Orientamenti a confronto

Elemento soggettivo

Deve sussistere un dolo specifico

Il carattere distintivo tra le incriminazioni previste dall'art. 571 c.p. e dall'art. 572 c.p. consiste nel fatto che la prima è punibile a titolo di dolo generico ed implica l'uso di mezzi o modi di trattamento sempre e di per se stessi illeciti, mentre la seconda postula l'eccesso nell'uso dei mezzi giuridicamente leciti, che, tramutando l'uso in abuso, lo fa diventare illecito; inoltre, il reato di cui all'art. 571 c.p. è qualificato da un dolo specifico che si concreta nell'aver agito nell'esercizio dello ius corrigendi, cioè al particolare fine correttivo (Cass. pen., sez. I, 29 giugno 1977, n. 13404)

È sufficiente il dolo generico

Ai fini dell'integrazione della fattispecie prevista dall'art. 571 c.p., è sufficiente il dolo generico, non essendo richiesto dalla norma il fine specifico, ossia un fine particolare e ulteriore rispetto alla consapevole volontà di realizzar la condotta di abuso (Cass. pen., sez. VI, 7 febbraio 2005, n. 16491; Cass. pen., sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 18289; si veda anche Cass. pen., sez. VI, 22 settembre 2005, n. 39927)

Circostanze

È opinione diffusa che le circostanze previste dal capoverso (lesioni o morte del soggetto passivo) siano aggravanti, e non fattispecie autonome. A sostegno di tale tesi, il fatto che l'elemento soggettivo del reato sia lo stesso in entrambi i casi. A variare è solamente l'ulteriore evento che si cagiona (da pericolo di malattia a lesioni o morte). Ancora, è quindi possibile sostenere che se il fine del soggetto attivo sia quello di cagionare lesioni o la morte, si rientrerà necessariamente nelle previsioni dei reati puniti dall'art. 582 c.p. (lesioni) e art. 575 c.p. (omicidio).

Dottrina e giurisprudenza ritengono che non siano applicabili, al reato in esame, alcune circostanze attenuanti e aggravanti comuni, dal momento che sono già parte sostanziale e integrante della fattispecie di cui all'art. 571 c.p.; in particolare, per quanto riguarda le aggravanti:

  • non sono applicabili le aggravanti di cui all'art. 61 c.p. n. 9 prima parte («l'aver commesso il fatto con abuso dei poteri») e all'art. 61 c.p. n. 11 prima parte («l'aver commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche»);
  • non è inoltre applicabile l'aggravante di cui all'art. 61 n. 4 c.p. («l'aver adoperato sevizie, o l'aver agito con crudeltà verso le persone»), dal momento che, in presenza di tali elementi, il comportamento deve necessariamente essere inquadrato in altre fattispecie penalmente perseguite che non siano quelle di cui all'art. 571 c.p., che presuppone un uso lecito di mezzi di educazione, incompatibili con qualsiasi approccio crudele o comportante sevizie.

Per quanto riguarda le attenuanti:

  • non è applicabile quella prevista dall'art. 62 n. 1 c.p. («l'aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale»);
  • non è applicabile quella prevista dall'art. 62 n. 2 c.p. («l'aver reagito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui»; si veda, come obiter dictum, Cass. pen., sez. VI, 7 novembre 1997, n. 3789).
Profili processuali

La competenza per giudicare il reato ex art. 571 c.p. è del tribunale monocratico, ad esclusione della seconda ipotesi del secondo comma (morte del soggetto passivo), nel qual caso è competente la corte d'assise.

Il reato è sempre procedibile d'ufficio. L'arresto è facoltativo solo se dal fatto del reo derivi la morte del soggetto passivo, così come nelle sole medesime circostanze è consentito il fermo. La citazione può essere diretta a giudizio per l'ipotesi prevista dal primo comma, e per l'ipotesi del secondo comma relativa all'art. 582 c.p. (qualora dal fatto derivi una lesione personale).

Casistica

Modalità

Non integrano il delitto previsto dall'art. 571 c.p. le condotte di un insegnante di asilo nido non violente e tipicamente affettuose (baci sulle labbra e abbracci molto intensi ai bambini), non potendo esse essere interpretate, per la loro connotazione di piccolo eccesso o mancanza di misura nella relazione tra l'educatore e il minore, come abuso in ambito scolare materno-infantile (Cass. pen., sez. VI, 12 febbraio 2013, n. 11795)

Integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell'insegnante che umili, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno causandogli pericoli per la salute, atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall'ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell'altrui personalità (Cass. pen., sez. VI, 14 giugno 2012, n. 34492; caso in cui la Cassazione ha confermato la sentenza di condanna nei confronti di un insegnante che aveva costretto un alunno a scrivere più volte, sul proprio quaderno, la frase «sono un deficiente»)

Non possono ritenersi preclusi quegli atti, di minima valenza fisica o morale che risultino necessari per rafforzare la proibizione, non arbitraria né ingiusta, di comportamenti oggettivamente pericolosi o dannosi rispecchianti la inconsapevolezza o la sottovalutazione del pericolo, la disobbedienza gratuita, oppositiva e insolente; integra quindi la fattispecie criminosa in questione l'uso – in funzione educativa – del mezzo astrattamente lecito, sia esso di natura fisica, psicologica o morale, che trasmodi nell'abuso sia in ragione dell'arbitrarietà o intempestività della sua applicazione sia in ragione dell'eccesso nella misura, senza tuttavia attingere a forme di violenza (Cass. pen., sez. VI, 7 novembre 1997, n. 3789; nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto sussumibile nell'alveo dell'art. 571 c.p. la condotta, nei confronti del figlio, di un genitore che aveva effettuato alcune lievi percosse e tirate di capelli, escludendo altresì che tale comportamento potesse essere ricondotto all'art. 572 c.p.)

Modalità del reato e rapporto con il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p.

L'uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore, anche lì dove fosse sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell'ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti (Cass. pen., sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53425; caso in cui la Cassazione ha qualificato come ex art. 572 c.p. la condotta di una maestra di scuola materna che aveva fatto più volte ricorso alla violenza, fisica e psicologica, seppur con finalità educative, in danno dei suoi allievi).

Ugualmente, Cass. pen., sez. VI, 10 maggio 2012, n. 36564: la Cassazione ha ritenuto qualificabile come reato ex art. 572 c.p. la condotta, nei confronti di un figlio, di un genitore, il quale aveva compiuto reiterati atti di violenza con lo scopo di insegnargli «come stare al mondo».

Rapporto con il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p.

Integra il delitto di maltrattamenti in famiglia e non quello di abuso dei mezzi di correzione la consumazione da parte del genitore nei confronti del figlio minore di reiterati atti di violenza fisica e morale, anche qualora gli stessi possano ritenersi compatibili con un intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui l'agente è portatore (Cass. pen., sez. VI, 7 ottobre 2009, n. 48272).

Per la configurabilità del reato di maltrattamenti l'art. 572 c.p. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che avviliscono la sua personalità; ne consegue che deve escludersi che l'intenzione dell'agente di agire esclusivamente per finalità educative sia elemento dirimente per fare rientrare gli abituali atti di violenza posti in essere in danno dei figli minori nella previsione di cui all'art. 571 c.p., in quanto gli atti di violenza devono ritenersi oggettivamente esclusi dalla fattispecie dell'abuso dei mezzi di correzione, dovendo ritenersi tali solo quelli per loro natura a ciò deputati (Cass. pen., sez. VI, 22 settembre 2005, n. 39927)