Procreazione medicalmente assistitaFonte: L. 19 febbraio 2004 n. 40
06 Agosto 2024
Inquadramento Secondo l'Istituto Superiore della Sanità sono tecniche di riproduzione assistita tutti quei trattamenti o quelle procedure di laboratorio che includono la manipolazione in vitro di ovociti e spermatozoi o embrioni allo scopo di avviare una gravidanza, compresa, secondo la normativa vigente in Italia, la pratica di inseminazione assistita. Tali tecniche vengono tradizionalmente suddivise tra quelle di tipo omologo, che avvengono tramite l'unione dei gameti, maschile e femminile, appartenenti alla coppia, e quelle di tipo eterologo, nelle quali viene fatto ricorso anche a gameti estranei alla coppia. Entrambe le tipologie di tecniche erano praticate in Italia fino all'entrata in vigore della legge 19 febbraio 2004, n. 40; anche le tecniche di fecondazione eterologa erano infatti considerate lecite ed ammesse senza limiti né soggettivi né oggettivi ed erano praticate in 75 centri privati (Relazione della XII Commissione permanente della Camera dei deputati presentata il 14 luglio 1998 sulle proposte di legge n. 414, n. 616 e 816 della XII legislatura). Tali centri operavano nel quadro delle circolari del Ministero della Sanità emesse rispettivamente il 1° marzo 1985, il 27 aprile 1987 e il 10 aprile 1992 e dell'ordinanza dello stesso Ministero del 5 marzo 1997. I pochi e settoriali interventi che regolamentavano la materia tuttavia erano stati considerati presto insufficienti e inidonei a disciplinare quello che era lo stato del progresso scientifico in tema di procreazione; tema che aveva ed ha tuttora implicazioni, oltre che giuridiche, mediche, scientifiche, anche etiche, sociali e religiose. Dopo un iter legislativo particolarmente lungo e travagliato, è stata dunque promulgata la legge 19 febbraio 2004 n. 40, che, nel regolamentare l'accesso e gli effetti delle pratiche di procreazione medicalmente assistita, è stata fin da subito considerata estremamente restrittiva se non "repressiva" e resa oggetto di critiche da parte sia della dottrina sia della comunità scientifica. La magistratura amministrativa, civile e la Corte Costituzionale, chiamate a pronunciarsi sulla interpretazione e sulla legittimità della normativa, hanno inciso nel tempo in modo drastico sulle regole più severe e controverse, allargando così di molto le strette maglie del giuridicamente lecito nelle quali gli aspiranti genitori erano costretti a muoversi secondo l'impianto normativo originario della legge. Finalità e principi informatori della legge n. 40/2004 in materia di procreazione medicalmente assistita Secondo la formulazione originaria, la finalità della legge n. 40/2004 era indicata nel primo articolo della stessa legge, che sanciva che il ricorso alla procreazione medicalmente assistita «è consentito al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana», quando non vi fossero altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità (art. 1, l. 19 febbraio 2004, n. 40). Da tale norma emergeva che l'unica ed esclusiva finalità del ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita era quella di superare i problemi riproduttivi derivanti da documentata sterilità od infertilità; non era invece contemplata la possibilità che a tali tecniche si facesse ricorso per una personale scelta della coppia, ad esempio per evitare il rischio di trasmettere al nascituro malattie genetiche e dunque ereditarie. Proprio con riferimento a questa ultima ipotesi tuttavia la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2 e 4, comma 1, della legge in esame, nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all'art. 6, comma 1, lett. b), della legge 22 maggio 1978, n. 194, accertate da apposite strutture (C. cost. 5 giugno 2015, n. 96). Coerentemente, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo anche l'art. 13, della medesima legge, nella parte in cui contemplava come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni anche nei casi in cui questa fosse esclusivamente finalizzata ad evitare l'impianto nell'utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche (C. Cost., 11 novembre 2015, n. 229). L'accesso alle tecniche di PMA è dunque ora ammesso anche per le coppie fertili, quando esse siano portatrici di malattie genetiche trasmissibili, nei casi in cui siano stati accertati processi patologici, relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (art. 6, comma 1, lett. b) l. n. 194/1978). In proposito è stato precisato che, in caso di impossibilità della Struttura sanitaria pubblica di erogare tempestivamente e in forma diretta - nell'ambito di un intervento di procreazione medicalmente assistita, l'esame clinico e diagnostico sugli embrioni e il trasferimento in utero solo degli embrioni sani o portatori sani della patologia genetica da cui uno dei genitori risulta essere affetto, la stessa Struttura è tenuta ad assumere le necessarie iniziative per indirizzare la coppia in altra struttura (pubblica o privata convenzionata) attrezzata ad eseguire sia la diagnosi preimpianto sia il trasferimento degli embrioni, con oneri a carico del Servizio Sanitario Nazionale e, quindi, della Regione di residenza dei soggetti interessati (Trib. Milano, 21 luglio 2017). Secondo le più recenti Linee Guida, l'infertilità è definita come “assenza di concepimento, oltre ai casi di patologia riconosciuta, dopo un periodo variabile dai sei ai dodici mesi in base all’età della donna di regolari rapporti sessuali non protetti in coppia eterosessuale. Quando la diagnosi è completata e certificata da atto medico il trattamento della coppia sterile deve basarsi su tre principali opzioni: 1. Trattamento medico per ripristinare la fertilità in uno o entrambi i partner; 2. Trattamento chirurgico per ripristinare la fertilità in uno o entrambi i partner; 3. Accesso alle procedura di fecondazione assistita” (Linee Guida, d.m. 20 marzo 2024). Ai fini dell'accesso alle tecniche, la fertilità o la sterilità devono essere documentate da atto o certificato medico e ciò sia nei casi ‘inspiegati' sia nei casi dipendenti da causa accertata (art. 4, comma 1, l. n. 40/2004). I principi cui si deve ispirare l'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita secondo la legge 40 sono: i) il principio di gradualità, che impone l'applicazione delle tecniche caratterizzate dalla minore invasività possibile in relazione alla gravità della causa di infertilità o sterilità; proprio al fine di individuare una progressione di scelta, che inizi dalle opzioni terapeutiche più semplici, meno invasive e meno onerose, le tecniche di PMA sono state suddivise, in relazione al grado di complessità ed invasività, in tecniche di I, II e III livello. Secondo le più recenti Linee Guida, obiettivo primario di ogni trattamento è la nascita di un neonato vivo e vitale a termine senza pregiudizio della salute della donna. Spetta ai medici del centro di PMA, secondo scienza e coscienza, definire la gradualità delle tecniche utilizzando in prima istanza le opzioni terapeutiche più semplici, meno invasive e meno onerose, tenendo in debito conto l’età e la riserva ovarica della donna e l’età del partner, le problematiche specifiche emerse dall’iter diagnostico su entrambi i partner, le presumibili cause dell’infertilità/sterilità di coppia, i rischi inserenti le singole tecniche, sia per le donne che per il concepito, nel rispetto dei principi etici della coppia stessa e in osservanza della legge (Linee Guida, d.m. 20 marzo 2024). ii) il consenso informato. Il medico, prima che la coppia intraprenda un percorso di PMA e in qualsiasi fase di applicazione della stessa, deve informare la coppia con riguardo a: a) i problemi bioetici e i possibili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all'applicazione delle tecniche individuate; b) le possibilità di successo e i rischi derivanti, nonché le conseguenze giuridiche per la donna, per l'uomo e per il nascituro; c) la possibilità di ricorrere a procedure di adozione o di affidamento ai sensi della legge 4 maggio 1983, n. 184 e successive modificazioni; d) il grado di invasività delle tecniche nei confronti della donna e dell'uomo, in modo da garantire il formarsi di una volontà consapevole e consapevolmente espressa; e) i costi economici dell'intera procedura. La volontà di entrambi i soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è espressa per iscritto al medico responsabile della struttura e può essere revocata da ciascuno dei due fino al momento della fecondazione dell'ovulo (art. 6, comma 3, l. n. 40/2004). Tale ultima previsione è stata oggetto di critiche, sia perché non considera la possibile sopravvenienza di fatti che rendano sconsigliabile o inaccettabile per la madre la prosecuzione della pratica di PMA e la conseguente gravidanza (come la separazione tra i genitori o una malattia grave di uno di essi), sia perché tale divieto di revocare il consenso sarebbe incoercibile. La questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 3, l. n. 40/2004 è stata tuttavia dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza (Corte cost. 12 marzo 2010, n. 97). Ai principi di gradualità e di consenso informato, si affiancava, nell'impianto normativo originario, il divieto del ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo. Divieto che, fin da subito, è parso in contraddizione con la finalità delle tecniche di PMA individuata nel superamento dei problemi riproduttivi derivanti da sterilità o infertilità documentati. L'art. 4, comma 3, l. n. 40/2004, che sanciva il divieto del ricorso alle pratiche di tipo eterologo è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale con sentenza del 10 giugno 2014. Le più recenti linee Guida hanno precisato che anche l’accesso alla PMA eterologa (con donazione di gameti) deve essere basato sul principio di gradualità e che tale metodica è ammessa esclusivamente a fronte della sussistenza delle seguenti condizioni, certificate e documentate da atto medico: 1) presenza della diagnosi di una patologia che sia causa irreversibile di sterilità/infertilità assolute; il difetto di altri metodi terapeutici(Corte cost. 162/2014). Le indicazioni cliniche alla fecondazione con donazione di gameti sono: tutte le situazioni di infertilità/sterilità comprovata di uno dei due partner o di entrambi, in cui non si possa disporre di propri gameti competenti e quando la partner femminile sia Rh-negativo e gravemente isoimmunizzata e il partner maschile sia Rh-positivo (Linee Guida, d.m. 20 marzo 2024).
Presupposti soggettivi di accesso alle tecniche L'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito, ai sensi dell'art. 5, l. n. 40/2004, a: i) coppie; ii) di soggetti maggiorenni; iii) di sesso diverso; iv) coniugate o conviventi; v) in età potenzialmente fertile; vi) viventi. Secondo il tenore letterale della norma, l'accesso alle tecniche di PMA è quindi precluso ai soggetti minorenni, ai single, alle coppie omosessuali, ai soggetti che per età non sarebbero "naturalmente" in grado di procreare così come è precluso la fecondazione assistita post mortem. Si deve tuttavia precisare, con riguardo al divieto di espletamento delle tecniche di PMA post mortem, che qualora il marito abbia acconsentito a ricorrere alle tecniche di PMA, confermando le proprie volontà fino al momento antecedente al proprio decesso e la moglie, in seguito, si sia sottoposta alle tecniche di PMA all'estero, la figlia nata all'estero ove si è formato l'atto di nascita, deve essere considerata come figlia di entrambi i genitori, anche in Italia, in applicazione dell'art. 8, l. n. 40/2004; legge che deve considerarsi costitutiva di un sistema alternativo, speciale, di norme di attribuzione dello stato di filiazione rispetto a quello codicistico, e che meglio realizza i diritti all'identità ed alla bigenitorialità (sempre ai fini identitari) del minore nato da tali tecniche (Cass. civ. S.U., sent. 15 maggio 2019, n. 13000). Non sono più escluse, invece, in virtù dell'intervento della Corte Costituzionale (C. Cost. 5 giugno 2015, n. 96), le coppie che, per quanto non infertili, siano portatrici di malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all'art. 6, comma 1, lett. b), l. n. 194/1978. Nel dettare i presupposti soggettivi di accesso alle tecniche di PMA il legislatore ha mirato a riprodurre quello che sarebbe il contesto "normale" di vita di un bambino nato da procreazione naturale; in questo senso è stata garantita, per il nascituro, la coesistenza di due genitori di sesso diverso. In proposito, quando sono state sollevate due questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 nella parte in cui, rispettivamente, limitano l'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle sole coppie di sesso diverso e sanzionano, di riflesso, chiunque applichi tali tecniche a coppie composte da soggetti dello stesso sesso, la Corte costituzionale ha affermato che l'esclusione delle coppie omosessuali dalla procreazione medicalmente assistita non è fonte di una distonia legislativa e neppure di una discriminazione basata sull'orientamento sessuale, dichiarando non fondate tali questioni (Corte costituzionale – 23 ottobre 2019, n. 221). In proposito è stato evidenziato che appartenga primariamente alla valutazione del legislatore e realizzi un bilanciamento non irragionevole la scelta di configurare le tecniche di PMA come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile, escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati (S. Stefanelli, Non è incostituzionale il divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita per le coppie omosessuali femminili, in IUS Famiglie, 5 febbraio 2020). Sotto un altro profilo, si è però evidenziato fin dai primi commenti dottrinali come, nel cercare di raggiungere un compromesso tra posizioni parlamentari contrapposte, il legislatore da un lato abbia escluso la possibilità per il single di ricorrere alle tecniche di PMA e dall'altro tale possibilità abbia concesso alla coppia convivente, senza prevedere un parametro di riferimento, temporale e sostanziale, che ne garantisca la stabilità e serietà. Le tecniche ammesse: la inseminazione omologa e la fecondazione assistita di tipo eterologo Mentre secondo la formulazione originaria della legge 19 febbraio 2004, n. 40 le tecniche di PMA di tipo omologo, ossia effettuate con gameti appartenenti entrambi alla coppia, erano pacificamente ammesse, ed anzi su di esse si basava l'intero impianto della disciplina, l'art. 4, comma 3 della stessa legge sanciva espressamente il divieto del ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo. Tale divieto è stato fin da subito considerato in netto contrasto con il dichiarato scopo della stessa legge di «favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana», posto che il diritto alla realizzazione della genitorialità veniva negato proprio alle coppie affette dalle patologie più gravi; coppie che, in ragione del divieto, dovevano ricorrere alle tecniche di PMA di tipo eterologo praticate presso centri esteri, dove tali tecniche erano permesse. L'art. 4, comma 3, l. n. 40/2004, è stato pertanto oggetto di diversi tentativi abrogativi, prima con un referendum che, tenutosi il 12 e 13 giugno 2005, non ha raggiunto il quorum sufficiente per la sua validità, e successivamente tramite eccezioni di illegittimità costituzionale della norma. La Corte Costituzionale, dopo una serie di pronunce non concludenti, ha dichiarato, a seguito delle questioni sollevate dai Tribunali di Milano, di Firenze e di Catania, l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, comma 3, l. n. 40/2004, e delle norme che ad essa facevano riferimento nella medesima legge, nella parte in cui stabiliva per la coppia avente i requisiti di cui all'art. 5, comma 1, della stessa legge, il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora fosse stata diagnosticata una patologia che fosse causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili (C. cost. 10 giugno 2014, n. 162). La Consulta, premesso che: i) la procreazione medicalmente assistita coinvolge plurime esigenze costituzionali ed incide su una molteplicità di interessi di tale rango; ii) tali interessi devono essere oggetto di bilanciamento che assicuri a ciascuno di essi un minimo di tutela legislativa; iii) la tutela dell'embrione non può essere assoluta di fronte alla tutela delle esigenze di procreazione; iv) il divieto in esame non era frutto di una scelta consolidata nel tempo, posto che fino alla promulgazione della legge in materia essa era ammessa e praticata in 75 centri privati, ed effettuato il giusto bilanciamento tra tutti gli interessi di rango costituzionale coinvolti, ha concluso che il divieto in esame cagionava in definitiva una lesione della libertà fondamentale della coppia destinataria della legge n. 40/2004, di formare una famiglia con dei figli, senza che la sua assolutezza fosse giustificata dalle esigenze di tutela del nato, le quali, secondo quanto veniva argomentato nella sentenza, dovevano ritenersi adeguatamente garantite. Le tecniche di PMA di tipo eterologo sono quindi ammesse dal 2014, e, rispetto ad esse devono essere garantite le medesime condizioni di accesso e di fruibilità previste per le tecniche di tipo omologo. A tal fine, la Conferenza delle Regioni e delle Provincie autonome ha approvato, in data 4 settembre 2014, un documento contenente le linee guida da seguire a livello nazionale con precise indicazioni cliniche e in virtù del quale, le tecniche di PMA sia di tipo omologo sia di tipo eterologo vengono inserite nei Servizi che lo Stato eroga ai cittadini gratuitamente o previo pagamento di un ticket. Viene pertanto proposto che i limiti di età e i cicli possibili nelle strutture sanitarie pubbliche previsti per le tecniche di tipo omologo vengano estese a quelle di tipo eterologo. Orientamenti a confronto
Il divieto della “maternità surrogata” La legge n. 40/2004 non menziona, tra le pratiche di PMA, la “surrogazione di maternità”, se non laddove sancisce la punibilità con la reclusione da 3 mesi a 2 anni e con una multa, «chiunque realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità» (art. 12, comma 6, l. n. 40/2004). La surrogazione di maternità è dunque vietata nel nostro ordinamento, seppur non si comprenda a quale fenomeno tale divieto con precisione si riferisca (essendovi completo silenzio sul punto) e quali siano le conseguenze rispetto allo status del nato, nel caso in cui tale tecnica sia stata effettivamente praticata in violazione di tale divieto; effetti invece previsti dalla legge n. 40/2004 per il caso di violazione del divieto di ricorrere a pratiche di PMA di tipo eterologo (art. 9, comma 1 e 3, l. n. 40/2004). Con riguardo al primo aspetto, con maternità surrogata si fa riferimento al caso in cui una donna (madre surrogata o gestante) si sottopone a fecondazione assistita, conduce la gravidanza e partorisce un bambino con l'intesa che lo stesso sarà riconosciuto come figlio della coppia "committente". Tale fenomeno si basa dunque sull'esistenza di un accordo, in virtù del quale la donna gestante rinuncia a riconoscere il bambino nato come proprio, e di conseguenza a qualsiasi diritto o potere sullo stesso bambino, mentre genitori vengono riconosciuti coloro che hanno "commissionato" la gestazione della gravidanza e che, in parte od integralmente, sono genitori biologici. Tale accordo, secondo l'ordinamento italiano, è nullo per violazione dell'art. 5 c.c., nonché per illiceità dell'oggetto e della causa. La surrogazione di maternità può essere realizzata con tre modalità: con gameti che provengono entrambi dalla coppia "committente", o con gameti appartenenti uno alla coppia (madre o padre committenti) e l'altro ad un terzo, o con gameti provenienti uno dalla coppia o da un terzo e l'altro dalla madre gestante. In questo ultimo caso, la madre gestante è anche madre biologica. Nei paesi in cui tale possibilità è ammessa è normalmente previsto che la stessa possa decidere sulla propria maternità fino alla nascita del bambino. Nella prevalenza degli Stati in cui tale pratica è ammessa, inoltre, è escluso che essa possa avvenire verso il pagamento di un prezzo, salvo il rimborso delle spese derivanti dalla gestazione e dal parto. Stante il divieto assoluto delle pratiche di surrogazione di maternità in Italia, si è posto il problema del riconoscimento della filiazione formata mediante tali pratiche di PMA realizzate all'estero secondo le norme del paese di origine, una volta che il bambino sia tornato in Italia con i genitori (in proposito, si veda il paragrafo conclusivo del presente commento). Lo statuto dei diritti dell'embrione L'embrione, fin dalla sua formazione tramite tecniche di PMA, riceve, dalla legge n. 40/2004, una protezione assoluta e parificabile ad un vero e proprio soggetto di diritto. La legge infatti vieta: - qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano così come la ricerca clinica e sperimentale su di esso salvo che sia volta a finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e dello sviluppo dell'embrione e qualora non vi siano disponibili metodologie alternative; - la produzione di embrioni umani a fini di ricerca o di sperimentazione o comunque diversi da quello previsto dalla stessa legge n. 40/2004; - ogni forma di selezione a scopo eugenetico di embrioni o gameti ovvero interventi diretti ad alterare il patrimonio genetico dell'embrione o del gamete ovvero a predeterminare caratteristiche genetiche; - interventi di clonazione e la fecondazione di un gamete umano con un gamete di specie diversa e la produzione di ibridi e chimere (art. 13, l. n. 40/2004). È vietata la crioconservazione o la soppressione degli embrioni, mentre ai fini dell'impianto era previsto che non dovesse essere creato un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto e comunque non superiore a tre (art. 14, l. n. 40/2004). Tuttavia, come ha fatto presente la Corte Costituzionale, a seguito di alcuni interventi della stessa Corte rivolti a dare corretto rilievo al diritto alla salute psicofisica della donna, il rapporto regola-eccezione relativo al divieto di crioconservazione originariamente impostato dalla legge n. 40/2004 si è, nei fatti, rovesciato: la prassi è divenuta quindi la crioconservazione - e con essa anche «la possibilità di creare embrioni non portati a nascita» (Corte cost., sent. n. 84/2016) - e l'eccezione l'uso di tecniche di impianto “a fresco” (Corte cost. – 24 luglio 2023, n. 161 ). Sempre a tutela dell'embrione, è previsto che il consenso alle tecniche di PMA non possa essere revocato successivamente alla fecondazione dell'ovulo. Divieto di revoca al consenso dell’impianto, che è stato confermato e ribadito dalla Corte di cassazione, al pari del divieto dell’esercizio dell’azione di disconoscimento di paternità dopo l’impianto (Cass. civ., 18 dicembre 2017, n. 30294). Deve però essere evidenziato che il divieto di revoca al consenso dell’impianto, successivamente alla fecondazione dell’ovulo, seppur non dichiarato costituzionalmente illegittimo, è stato messo in discussione e ritenuto non più corrispondente e satisfattivo delle esigenze su cui si fondava tale divieto al momento dell’entrata in vigore della legge 40/2004, per la quale, essendo vietata in origine anche la crioconservazione degli embrioni fecondati, il tempo intercorrente tra la fecondazione dell’ovulo e l’impianto del medesimo nell’utero della madre, era brevissimo. Invece, con il venir meno nei fatti del divieto di crioconservazione degli ovuli fecondati e addirittura della espansione di tale tecnica della crioconservazione è possibile che vi sia una scissione temporale, anche consistente, tra la fecondazione e l'impianto; scissione che, per effetto del divieto di revoca del consenso, si può ripercuotere sulla libertà dell'uomo di autodeterminarsi, quando, per il decorso del tempo, sia venuta meno quell'affectio familiaris sulla quale si era, in origine, fondato il comune progetto di genitorialità. Infatti, è oggi possibile che la richiesta dell'impianto degli embrioni crioconservati venga manifestata dalla donna (in virtù del proprio stato psicofisico) non solo a distanza di molto tempo da quel momento, ma anche in presenza di condizioni soggettive assai diverse da quelle che necessariamente dovevano esistere in concomitanza all'accesso alle tecniche in discorso, quali la convivenza tra gli aspiranti genitori, ad esempio che si siano nelle more separati e divorziati (Corte cost., 24 luglio 2023, n. 161; Trib. Siena, ord. 27 giugno 2024). Inoltre, il divieto di creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico impianto e comunque non superiore a tre è stato considerato in netto contrasto con il diritto alla salute della ‘madre', obbligata, ad ogni fallimento dell'instaurazione della gravidanza, a sottoporsi ad una nuova procedura di stimolazione ormonale ed a prelievi di ovociti, con tutte le complicanze per la donna che tali pratiche comportano. In considerazione di tale netto contrasto tra valori entrambi costituzionalmente protetti, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l'art. 14, comma 2, l. 40/2004, limitatamente alle parole «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre» (Corte Cost. 8 maggio 2009, n. 151). Similmente l'impossibilità di effettuare una diagnosi preimpianto e dunque di selezionare, ai fini dell'impianto, gli embrioni sani nel caso in cui la coppia sia portatrice di malattie genetiche, così come quando vi siano embrioni danneggiati o malformati che non possono non essere impiantati, è stata considerata contraddittoria con la possibilità per la donna di interrompere la gravidanza in un secondo momento, secondo quanto previsto dalla legge n. 194/1978. Tale contraddizione è stata tuttavia mitigata dagli interventi dei giudici di merito, amministrativi e della Corte Europea dei diritti dell'uomo sul punto, oltre che dall'intervento della Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1 e 2, e 4, comma 1, legge n. 40/2004 nella parte in cui non consentivano il ricorso alle tecniche di PMA alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità previsti nella normativa sulla interruzione volontaria di gravidanza (C. cost. 5 giugno 2015, n. 96). La Corte Costituzionale ha invece dichiarato che la disciplina relativa al divieto assoluto di qualsiasi ricerca clinica o sperimentale che non sia finalizzata alla tutela dell'embrione, esprimendo una scelta di elevata discrezionalità, per i profili assiologici che la connotano, si sottrae al sindacato della Corte Costituzionale (Corte Cost., 13 aprile 2016, n. 84). Benché la questione di legittimità dell'art. 13, l. n. 40/2004, nella parte in cui fa divieto di sottoporre l'embrione a diagnosi per l'accertamento di eventuali patologie prima dell'impianto, è stata dichiarata una prima volta manifestamente inammissibile (C. cost. 9 novembre 2006, n. 369), a seguito dell'intervento della Corte Edu - che ha ritenuto il divieto esistente in Italia di diagnosi preimpianto, richiesto dalla coppia portatrice di malattie genetiche, non solo contraddittorio rispetto agli altri valori e norme dell'ordinamento, ma una illecita ingerenza rispetto alla vita privata e familiare, ai sensi dell'art. 8 CEDU (Corte Edu, 28 agosto 2012) - e della sentenza della Corte Costituzionale, con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2 e 4, comma 1, della legge in esame, nella parte in cui non consentivano il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo anche l'art. 13, della medesima legge, nella parte in cui contemplava come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni anche nei casi in cui questa fosse esclusivamente finalizzata ad evitare l'impianto nell'utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche (C. Cost., 11 novembre 2015, n. 229). Orientamenti a confronto
La tutela del nascituro Secondo quanto previsto dagli artt. 8 e 9, della legge n. 40/2004, i figli nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di PMA hanno lo stato di figli della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime (art. 8, l. n. 40/2004); l'accertamento della paternità è dunque automatico, in virtù del consenso prestato all'applicazione delle tecniche, non solo per i figli nati all'interno del matrimonio ma anche per quelli delle coppie conviventi per i quali è normalmente richiesto un atto volontario di riconoscimento. La norma successiva escludeva poi la possibilità, nonostante il divieto di tecniche di PMA di tipo eterologo, per il coniuge od il convivente che avesse espresso il consenso per il ricorso a tali pratiche, di esercitare l'azione di disconoscimento o di impugnare il riconoscimento (art. 9, comma 1, l. n. 40/2004). Tale previsione - che, a seguito della riforma della normativa in tema di azioni di stato (d.lgs. n. 154/2013) deve essere riferita (nonostante il silenzio dello stesso decreto legislativo) all'azione di cui all'art. 243-bis c.c., e non più all'azione di cui all'art. 235, comma 1, nn. 1 e 2 c.c. – ricalca quello che era l'orientamento consolidato della giurisprudenza di merito e di legittimità (Cass. 16 marzo 1999, n. 2315) a tutela del nato dalle tecniche di PMA di tipo eterologo. La Corte di legittimità ha peraltro affermato in proposito che, anche dopo il venir meno del divieto di fecondazione eterologa, permane, qualora la coppia abbia fatto ricorso a tale tecnica di PMA, il divieto di esercitare l'azione di riconoscimento di paternità così come il divieto di revocare il consenso prestato in un momento successivo alla fecondazione dell'ovulo, revoca che non apparirebbe compatibile con la tutela costituzionale degli embrioni, più volte affermata dalla Consulta (Cass. civ., 18 dicembre 2017, n. 30294). Diverso è invece il caso in cui la donna abbia fatto ricorso alle tecniche di PMA all'insaputa del marito, fattispecie che rappresenta una nuova azione di disconoscimento di paternità che può essere esercitata dal marito nell'arco temporale di un anno, dal momento della conoscenza certa dell'avvenuto ricorso da parte della moglie a tali tecniche procreative (Cass. civ. sez. I, 28 marzo 2017, n. 7965). L'art. 9, comma 2, l. n. 40/2004, prosegue disponendo che la madre del nato non può, a seguito di tecniche di PMA, dichiarare la volontà di non essere nominata. Infine, la normativa prevede che, in caso di ricorso alle tecniche di tipo eterologo, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato né può far valere alcun diritto od essere titolare di obblighi nei suoi confronti (art. 9, comma 3, l. n. 40/2004). La normativa non prende invece in considerazione gli effetti sul nato qualora le parti, pur in violazione dell'originario divieto di PMA di tipo eterologo e di "maternità surrogata", abbiano fatto ricorso alla donazione di ovociti o alla gestazione ad opera di una donna che, d'accordo con i "committenti", abbia "prestato l'utero" a tal fine. Casi in cui il problema della identificazione della madre rischia di rimanere insoluto. Il riconoscimento dello status di figlio formato all'estero in violazione della normativa italiana: cenni In relazione alle coppie che varcano i confini italiani per accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ed in particolare a quelle di maternità surrogata - laddove esse siano ammesse e diano luogo, in virtù di specifico accordo, ad un vincolo parentale diverso da quello strettamente biologico, e che si potrebbe definire "istituzionale" o "sociale" – si pone il problema della riconoscibilità dello stato di filiazione creato all'estero sulla base di norme confliggenti con quelle italiane; riconoscibilità che sarebbe preclusa, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, appunto dal limite dell'ordine pubblico internazionale. Il nocciolo della questione è infatti l'individuazione dell'estensione del limite dell'ordine pubblico rispetto all'interesse del minore all'unicità ed alla identità dello stato di figliazione in uno Stato diverso da quello di nascita. Sul punto si erano confrontati diversi ed opposti orientamenti giurisprudenziali: da un lato, quello secondo cui il limite dell'ordine pubblico avrebbe dovuto essere valutato non in termini astratti, ma con riferimento agli effetti che l'applicazione di tale limite avrebbe prodotto nel caso specifico ed inoltre tale limite dovrebbe essere inteso come «il complesso dei principi di civiltà essenziali ad un dato ordinamento e come la proiezione normativa dei diritti inviolabili dell'uomo» (con l'effetto di far prevalere l'interesse del minore all'unicità dello status sul rispetto dell'ordine pubblico; tra le altre: App. Bari 13 febbraio 2009, Trib. Pisa, 22 luglio 2016, App. Trento, 23 febbraio 2017, App. Venezia, 6 luglio 2018, Trib. Milano, 15 novembre 2018), dall'altro, quello fatto proprio dalla Corte di Cassazione, secondo cui l'ordine pubblico, anche ai fini internazionalistici, comprenderebbe «anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e irrinunciabili» (Cass. 11 novembre 2014, n. 24001) quali il divieto di maternità surrogata; orientamento che la stessa Corte, ha confermato, una prima volta, seppur ampliando la portata della valutazione di ‘compatibilità', in relazione alle più recenti delle sentenze della stessa Corte. La Corte ha così statuito che, in tema di riconoscimento dell'efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l'ordine pubblico, richiesta dagli artt. 64 e ss. della legge n. 218 del 1995, dev'essere valutata alla stregua non solo dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti, nonché dell'interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale ed ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell'ordinamento in un determinato momento storico (Cass. civ. S.U., sent. 8 maggio 2019, n. 12193). Nello specifico, le Sezioni Unite non hanno riconosciuto l'efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui era stato dichiarato il rapporto di filiazione tra il minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d'intenzione munito della cittadinanza italiana, essendo di ostacolo a tale riconoscimento il divieto della surrogazione di maternità previsto dall'art. 12, comma 6, l. n. 40/2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l'istituto dell'adozione. La corte ha precisato che la tutela di tali ultimi valori, doveva ragionevolmente prevalere sull'interesse del minore, stante anche la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale e all'interesse del minore alla conservazione del contesto familiare, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l'adozione in casi particolari, prevista dall'art. 44, comma 1, lett. d), l. n. 184/1983. La Corte di legittimità ha dunque nella stessa decisione, da un lato escluso la riconoscibilità del rapporto di filiazione tra un minore ed un adulto privo di qualsiasi legame genetico ed adottivo con il medesimo, e dall'altro indicato la strada ritenuta, a questo punto, pacificamente ammissibile, della adozione del minore da parte del partner del genitore biologico ai sensi dell'art. 44, lett. d, l. n. 184/1983. In tale sentenza, la Corte ha poi evidenziato la differenza sostanziale che la fattispecie sottoposta al suo esame presentava rispetto a quella sottoposta alla stessa Corte, anni addietro, e citata dai giudici di merito, nei precedenti gradi di giudizio, nella quale era stata riconosciuta la trascrivibilità dell'atto di nascita della prole nata da una madre che aveva apportato - al progetto di genitorialità - i gameti e da una seconda madre che aveva portato avanti la gravidanza; fattispecie che quindi doveva essere qualificata come fecondazione eterologa piuttosto che come maternità surrogata e che comunque presupponeva un legame anche biologico con la prole a parte di ciascuna delle madri (Cass. civ., 30 settembre 2016, n. 19599, conforme: App. Perugia, 22 agosto 2018; Trib. Genova, 8 novembre 2018). Una posizione ferma e netta rispetto al divieto di maternità surrogata è stata poi ribadita nel 2022 dalla Corte di legittimità, a Sezioni Unite, con una decisione sulla quale si sono nuovamente divise le posizioni della dottrina (Cass. civ., sez. un., 30 dicembre 2022, n. 38162). La Corte, stigmatizzando in modo deciso le pratiche di gestazione per altri, ha affermato che “poiché la pratica della maternità surrogata, quali che siano le modalità della condotta e gli scopi perseguiti, offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, non è automaticamente trascrivibile il provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori l’originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il genitore di intenzione, che insieme al padre biologico ne ha voluto la nascita ricorrendo alla surrogazione nel Paese estero, sia pure in conformità alla lex loci”. Rispetto alla posizione del figlio, la Corte ha affermato che anche il bambino nato da maternità surrogata ha il diritto fondamentale di vedere riconosciuto, anche giuridicamente, il legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e sviluppatosi con colui che ha condiviso il progetto genitoriale, ma ciò potrebbe avvenire anche grazie alla possibilità di fare ricorso all’adozione in casi speciali ai sensi dell’art. 44, lett. d), l. n. 184/1983. Allo stato dell’evoluzione del nostro ordinamento nel suo complesso, dunque, lo strumento che consentirebbe di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame che si è creato con il partner, che ha condiviso il progetto procreativo e ha concorso nella crescita del bambino fin dalla sua nascita, sarebbe esclusivamente quello dell’adozione in casi particolari ai sensi dell’art. 44, lett. d), legge n. 184/1983 (Cass. civ., sez. un., 30 dicembre 2022, n. 38162). D’altra parte, il ricorso a tale forma di adozione, che era stato considerato in precedenza come discriminante rispetto ai figli nati in condizioni diverse, in quanto attributivo di uno status di figlio con effetti minori rispetto a quello proprio degli altri figli, è stato giudicato in questa occasione come adeguato, alla luce dell’avvenuto intervento della Consulta che, con una pronuncia di illegittimità Costituzionale, ha consentito il formarsi di rapporti civili tra l’adottato ed i parenti dell’adottante (Corte cost. 28 marzo 2022, n. 79), anche per i casi di adozione in casi speciali, così facendo venire meno la maggiore criticità che presentava il ricorso alla forma di adozione in esame rispetto al principio dell’unicità dello stato di figlio. Tuttavia, con ordinanza del 26 giugno 2024 il tribunale di Lucca ha deciso di investire nuovamente la Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale (essendovi stata già la decisione di detta Corte n. 32/2021 sul punto che ha dichiarato la questione inammissibile ‘per il rispetto dovuto alla prioritaria valutazione del legislatore circa la congruità dei mezzi adattati a raggiungere un fine costituzionalmente necessario’), considerata non manifestamente infondata, degli artt. 8 e 9 l. 40/2004, nonché dell’art. 250 c.c., laddove attribuisce alla madre ed al padre la possibilità di riconoscere il figlio, nella misura in cui impediscono al nato nell’ambito di un progetto di procreazione medicalmente praticata da una coppia di donne l’attribuzione dello status di figlio riconosciuto anche dalla c.d. madre intenzionale che, insieme alla madre biologica, abbia prestato il consenso alla pratica fecondativa e comunque laddove impongono la cancellazione dell’atto di nascita del riconoscimento compiuto dalla madre intenzionale. Tale rimessione della decisione del Tribunale di Lucca si è ritenuta necessaria a causa del disomogeneo intervento dei Sindaci nella loro qualità di Ufficiali dello stato civile, che hanno adottato, nel silenzio del legislatore, soluzioni diverse per casi speculari, e dei non univoci e non del tutto risolutivi approdi interpretativi della giurisprudenza. Infatti i Sindaci quali Ufficiali dello Stato civile hanno, in alcuni casi, rifiutato l’iscrizione anagrafica anche della madre intenzionale nell’atto di nascita dei minori nati in Italia, dando conseguentemente origine ai giudizi di impugnazione del diniego da parte della madre intenzionale; in altri casi, hanno invece ritenuto legittima l’iscrizione, originandosi i giudizi di impugnazione da parte della Procura della Repubblica. Casistica
|