La Cassazione e il protocollo: tanto tuonò che … non piovve!

Francesco Mauro Iacoviello
01 Febbraio 2016

Il codice processuale non può fare a meno dei protocolli perché il processo penale è un congegno complicato e le norme processuali non bastano più. La Cassazione ora dà legittimazione ai protocolli processuali e questo è un passo importante perché riconosce la funzione endonormativa dei protocolli processuali e riconosce all'Avvocatura la funzione di coproduttrice di norme.
Abstract

Il codice processuale non può fare a meno dei protocolli perché il processo penale è un congegno complicato e le norme processuali non bastano più. La Cassazione ora dà legittimazione ai protocolli processuali e questo è un passo importante perché riconosce la funzione endonormativa dei protocolli processuali e riconosce all'Avvocatura la funzione di coproduttrice di norme.

Il passo successivo dovrà essere quello di dare contenuti sempre più rilevanti ai protocolli e di individuare sanzioni processuali per la loro violazione.

L'era dei protocolli

Dunque, anche la Cassazione si è piegata alla logica dei protocolli.

Da tempo siamo entrati nell'era dei protocolli: una novità sconosciuta fino a pochi anni fa e ora dilagante.

Perché i protocolli? Il fenomeno va indagato.

Il processo inquisitorio era una macchina solida e rozza e non si rompeva quasi mai. Per regolare quel processo bastava il codice processuale, integrato da norme di attuazione e regolamento di esecuzione.

Il processo di parti, invece, è un congegno raffinato, fatto da molteplici ingranaggi che si integrano e che creano ad ogni passo dei crocevia che impongono scelte decisionali tra una pluralità di alternative possibili (pensiamo alla scelta dei riti alternativi).

La legge non basta più a regolare la complessità del fenomeno processuale.

Il processo penale è una costruzione necessariamente incompleta: una sequenza di pieni e di vuoti. Gli spazi pieni sono quelli regolati da norme, gli spazi vuoti sono quelli anomici.

Un processo penale a regolazione parziale è davvero un ossimoro.

Ma questa è la realtà.

Ed è una realtà non solo nostra: nei paesi anglosassoni è tutto un fiorire di guidelines che integrano le norme processuali.

L'alternativa ai protocolli è l'anarchia del giudice e delle parti.

Allora ben vengano i protocolli.

Del resto, in qualsiasi campo del sapere specialistico (pensiamo alla medicina) ci sono protocolli.

Meglio cattive regole che un sano arbitrio.

I protocolli. Tipo e funzioni

I protocolli sono di due tipi: processuali e logici. I primi sono molto conosciuti, i secondi sono molto sconosciuti.

I protocolli processuali regolano i comportamenti delle parti nel processo e la struttura degli atti (pensiamo al protocollo che fissa l'ordine dei processi in udienza. Un protocollo processuale è quello firmato dal Primo Presidente della Cassazione perché delinea la forma e la struttura di un atto processuale, il ricorso appunto).

I protocolli logici sono invece una sequenza di operazioni mentali che il giudice – o una parte – deve seguire nel ragionare e nel decidere.

Essi possono riguardare questioni di diritto sostanziale (come impostare il discorso sulla causalità? come sviluppare l'argomento sulla esistenza o meno della colpa?) o di diritto processuale (quale metodo seguire nel valutare la chiamata di correo? quali operazioni concettuali in sequenza bisogna fare per affrontare il processo indiziario? quali passaggi logici sviluppare nel valutare la fondatezza di una eccezione di nullità ? ecc.).

I protocolli una perdita di tempo A che servono se non c'è una sanzione processuale per la loro violazione?

I protocolli possono essere unilaterali (cioè scendere autoritativamente dall'alto) o negoziali (cioè frutto di un accordo tra soggetti processuali: come nel caso del protocollo tra Cassazione e Consiglio nazionale forense).

Sta di fatto però che i protocolli sono sprovvisti di sanzione processuale nel caso di loro violazione.

Essi appartengono alla categoria del soft law. Puntano sulla moral suasion, cioè sulla persuasione dei soggetti destinatari.

Meglio convincere che minacciare.

In realtà, nel diritto processuale la minaccia è il modo migliore per persuadere.

E in effetti sotto le levigate parole del Protocollo della Cassazione affiora una ruvida minaccia: se scrivi poco ti leggiamo, se scrivi molto giriamo le pagine e diamo uno sguardo a caso: in fondo quello che ci interessa è il motivo di ricorso, non gli argomenti che lo sostengono!.

Minaccia che perde progressivamente efficacia a seconda delle motivazioni psicologiche del ricorrente.

La minaccia è:

  • forte se il ricorrente punta davvero a vincere il processo;
  • meno forte se il ricorrente punta ad una sconfitta onorevole (superare lo scoglio della Settima penale e incassare un rigetto anziché l'ignominiosa inammissibilità);
  • quasi flebile se il ricorso fiorito di argomenti ripetuti è l'inevitabile effetto di una coazione a ripetere del ricorrente o di un'ansia da prestazione o – perché no? – di un alibi morale (ho fatto un ricorso meraviglioso e quelli manco lo hanno letto! come è caduta in basso la giustizia …).

Ma poi, a pensarci bene è troppo sbrigativa l'affermazione che per la violazione dei protocolli non ci sia nessuna sanzione processuale.

Innanzitutto, i protocolli creano una prassi processuale assistita dalla consapevolezza della sua doverosità (consuetudo iuris ac necessitatis): cioè si crea una consuetudine che è fonte di norme processuali.

In questo modo i protocolli diventano – in quanto norma consuetudinaria – vincolanti anche per chi non li ha sottoscritti (nel caso nostro pensiamo ai pubblici ministeri ricorrenti o all'imputato che ricorre personalmente)

Certo le nullità non possono essere create dalla consuetudine.

Ma così il discorso non è chiuso.

I protocolli processuali entrano nel contenuto della diligenza professionale e dove viene in rilievo la diligenza professionale (o meglio, la sua violazione) ecco che vengono in rilievo i protocolli.

Un po' come succede in campo medico: la violazione dei protocolli diagnostici o terapeutici concreta la colpa professionale.

Per non perderci tra le nuvole dei discorsi astratti, scendiamo sulla terra del processo.

C'è una norma che dice: la nullità non può essere eccepita da chi vi ha dato o ha concorso a darvi causa (art. 182, comma 1, c.p.p.).

Ora, facciamo il caso che il ricorrente sviluppi un autonomo motivo di ricorso in poche righe, mimetizzate dentro un'argomentazione fluviale riguardante altro motivo di ricorso.

La Cassazione non si accorge di questo motivo seminascosto e dunque non lo tratta.

Potrà il ricorrente azionare la procedura del ricorso straordinario per errore di fatto?

Direi proprio di no.

Il ricorso non va trattato come un brano della Divina Commedia che va chiosato dal giudice parola per parola.

Se il giudice non ha percepito l'esistenza del motivo sarà pure un po' colpa sua ma la colpa maggiore è del ricorrente che ha fomentato l'errore di percezione.

E poiché il rimedio ex art. 625-bis c.p.p. è il rimedio contro una nullità della sentenza della Cassazione e questa nullità è una nullità generale non assoluta, ecco che scatta la preclusione: il ricorrente vi ha dato causa, dunque non è legittimato ad eccepire la nullità.

Piccole gocce di pioggia

Scorrendo le clausole del Protocollo si ha un sospetto: che la Cassazione abbia fatto quel protocollo più per imitazione che per convinzione.

Poiché qualcosa di simile avevano fatto la Corte Edu e il Consiglio di Stato, la Cassazione ha pensato bene di non essere da meno.

Certo fa impressione vedere il Primo Presidente della Corte di Cassazione che si preoccupa della larghezza dei margini dei fogli dei ricorsi e del tipo di carattere (a proposito, entusiasta del Protocollo, ho subito adottato il carattere Verdana e lo trovo in verità esteticamente sgradevole..).

E che dire dell'invito ad indicare il codice fiscale del ricorrente? Forse si pensa che la sentenza abbia qualcosa in comune con una fattura?

La verità è che per trovare un accordo a tutti i costi lo si è trovato su dettagli innocui.

E infatti, vediamo come viene trattato il punto più cruciale di tutti: il vizio di motivazione.

Il protocollo suddivide così la struttura del motivo: a) epigrafe; b) esposizione specifica del motivo; c) oggetto, contenuto, implicazioni del vizio dedotto.

Dove è la novità? Da nessuna parte.

Anzi, c'è una evidente sovrapposizione della prescrizione b) con quella c).

Se si fosse riprodotto l'art. 581 c.p.p. le cose sarebbero state più chiare.

Scendiamo nel dettaglio.

Il protocollo cita solo l'epigrafe, che deve indicare il vizio dedotto, le norme violate e il riferimento all'art. 606 c.p.p. o ad altra norma.

Sta di fatto che – con frequenza costantissima – nei ricorsi il vizio di motivazione viene introdotto con questa titolazione: violazione di legge e vizio di motivazione.

Ci sono intrecci profondi tra violazione di legge e vizio di motivazione. Il ricorrente lo sa e usa una epigrafe omnibus come un antibiotico ad ampio spettro.

Questa prassi consolidata viola il protocollo? Di impulso, si direbbe di sì. Ragionandoci un attimo, si direbbe di no.

Il legislatore fissa delle regole legali di giudizio (pensiamo a quella sulla chiamata di correo) e degli standards probatori (gravi indizi ecc.).

Il vizio di motivazione – che è vizio del ragionamento – non è scindibile dal vizio di violazione di legge processuale (le norme sugli standards probatori e sulla valutazione delle prove).

Ancora: la sentenza impugnata qualifica il fatto come tentato omicidio, il ricorrente impugna ritenendo che si tratti di lesioni.

Siamo nella qualificazione giuridica del fatto (quaestio iuris) o nel vizio di motivazione (quaestio facti)?

Siamo – per così dire – nel motivo alternativo.

Il protocollo sorvola sul motivo fondamentale che fomenta la lungaggine dei ricorsi.

Il protocollo invece individua il punto critico della prolissità dei ricorsi nell'incombente timore del ricorrente di violare il principio di autosufficienza del ricorso.

In realtà, questo principio ha limitate – se non marginali – applicazioni nella giurisprudenza penale della Corte e quando viene utilizzato serve più a motivare che a decidere.

Ma c'è un paradosso.
Di solito, il ricorrente non rispetta il principio di autosufficienza – e fa ricorsi sul punto sorprendentemente laconici – proprio nei motivi concernenti la violazione di norme processuali: pensiamo al motivo relativo all'inutilizzabilità delle intercettazioni.

Ma – si ripete – la lunghezza dei ricorsi riguarda normalmente il motivo relativo al vizio di motivazione.

E qui il principio di autosufficienza gioca un ruolo limitato.

Esso rileva in due casi: a) omessa valutazione di una prova; b) travisamento della prova.

Dunque, esso rileva quando c'è un vizio di informazione, non un vizio di argomentazione.

Ma la ridondanze dei ricorsi trova il proprio fertilizzante invece nel vizio di argomentazione: qui si susseguono e si ripetono argomentazioni: a) non pertinenti; b) pertinenti ma irrilevanti; c) pertinenti ma non decisive; d) pertinenti ma ripetitive.

Col motivo sul vizio di motivazione spesso il ricorrente punta più alla persuasione emotiva che al convincimento razionale.

Il protocollo avrebbe dovuto colpire la calda confusione per favorire la fredda argomentazione.

Ma per farlo, occorreva prima costruire una teoria dell'inammissibilità del ricorso.

Invero, non ha molto senso invocare ricorsi brevi quando la stessa Cassazione non ci dice in parole chiare e con giurisprudenza ferma quando un ricorso è inammissibile e quando no.

Specificità e decisività sono concetti fondamentali (ben più dell'autosufficienza e della completezza su cui tanto insiste il protocollo): tanto fondamentali quanto ancora ondivaghi e oscuri.

È chiaro che nel dubbio io scrivo a più non posso e ci metto di tutto. Come dire: scrivete, scrivete, qualche cosa azzeccherete!

In conclusione

Il lato positivo della vicenda è che la Cassazione – organo di nomofilachia – abbia dato legittimazione ai protocolli processuali, strumento irrinunciabile per il processo penale di oggi e di domani.

Altro aspetto di grande rilievo è che l'Avvocatura sia stata riconosciuta come co-produttrice di norme protocollari.

Il lato negativo è che il protocollo ha un contenuto minimo e verte su punti innocui.

Ma un passo è stato compiuto. Il futuro è tutto da costruire.

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