Stop alla presunzione di responsabilità dei vertici societari: la Cassazione apre ad un serio accertamento del dolo
01 Dicembre 2016
Abstract
Il giudice di legittimità, con pronuncia datata settembre 2016, riabilita il significato dell'art. 2 d.lgs. 74/2000 nella parte in cui, incriminando la presentazione della dichiarazione fraudolenta mediante fatturazione, richiede la consapevolezza del sottoscrittore, sotto forma di dolo, in ordine alla fraudolenza della condotta dichiarativa. La dignità del profilo soggettivo, nella prassi giurisprudenziale, era stata degradata a puro simulacro formale, ritenendo congiuntamente sufficienti, ai fini del riconoscimento di una penale responsabilità, l'assunzione di un ruolo apicale – meglio precisato all'art. 1 lett. e) d.lgs. 74/2000 – e il conseguente obbligo di controllo in forza del quale chi sta al vertice non poteva non essere a conoscenza della violazione della normativa tributaria; si utilizzava quindi il ricorso ad una forma dilatata di dolo eventuale per nascondere una responsabilità presunta che, in certi casi, denotava i connotati tipici di una responsabilità di tipo oggettivo. La Cassazione, terza Sezione penale, 19 settembre 2016, n. 38717, ribalta questa tendenza restituendo valore all'iter di accertamento del dolo in capo al giudice di merito che, in concreto e caso per caso, è tenuto a verificare la specifica presenza della rappresentazione e volizione della condotta del soggetto agente, volta all'evasione fiscale. Si evidenzia che, non a torto, parte della dottrina riconduce il tema del dolo specifico fine dell'evasione fiscale presente nella disposizione in esame, nell'ambito dell'analisi della condotta, sebbene assuma la veste di elemento “soggettivo”, concernendo la natura teleologica della condotta e non la rappresentazione/volizione della stessa (PADOVANI). È proprio nel solco di questa complessa attività di dimostrazione che si inserisce la nuova proposta di agevolare la ricostruzione del giudice ed, in ottica anticipata, di tutelare i soggetti che rivestono una posizione di management aziendale nelle grosse realtà imprenditoriali – a volte perfino solcate dalla transnazionalità – attraverso il ricorso ad un sistema di prevenzione e controllo di gestione del rischio fiscale evocativo del modello di organizzazione e gestione per l'esclusione della responsabilità amministrativa dell'ente derivante da reato ai sensi del d.lgs. 231/2001.
L'art. 2 d.lgs. 74/2000, recependo le direttive della legge delega 205 del 1999, superava l'impostazione della normativa previgente – nello specifico l'art. 4, comma 1 lett. d) d.l. 429/1982 – volta all'incriminazione della condotta prodromica di emissione o utilizzazione di fatture o altri documenti non veritieri, rendendo irrilevante la condotta successiva di inserimento concreto in sede di dichiarazione. La fattispecie in esame punisce con trattamento sanzionatorio – da un anno e sei mesi a sei anni – che si distingue dalle altre ipotesi delittuose di seguito contemplate, aventi una cornice edittale più mite con previsione di soglie di punibilità. Le scelte di politica criminale adottate dal legislatore del 2000 sono ben sintetizzate dalle Sezioni unite, n. 27 del 2000, Di Mauro che, proprio in relazione alla fattispecie criminosa di dichiarazione fraudolenta, sintetizza gli elementi strutturali e fornisce un'analisi del delitto, descrivendo origine della norma, bene giuridico tutelato, soggetti attivi, materialità della condotta, momento consumativo ed elemento psicologico della stessa. Il giudice delle leggi infatti definisce il delitto in esame di tipo commissivo e di mera condotta, seppure teleologicamente diretto al risultato dell'evasione imposta […] ha natura istantanea e si consuma con la presentazione della dichiarazione; di conseguenza, il mero utilizzo di fatture false, oggi, è ricondotto ad un ante factum non punibile. Le Sezioni unite proseguono sottolineando che le linee ispiratrici della riforma, come si desume a chiare lettere sia dalla reale portata delle disposizioni incriminatrici che dall'esplicita voluntas legis, segnalano dunque l'incompatibilità del nuovo sistema penal-tributario con il vecchio modello di tutela anticipata caratterizzato dalla repressione di violazioni strumentali e prodromiche all'evasione. Da qui la previsione di cui all'art. 6 d.lgs. 74/2000 in base alla quale il delitto di dichiarazione fraudolenta previsto all'art. 2 d.lgs. 74/2000 non è punibile a titolo di tentativo. Secondo la Relazione governativa al decreto (par. 3.1.5) lo scopo consiste nell'evitare, in assenza di una previsione testuale e specifica, di vanificare le scelte della riforma rendendo punibile la condotta meramente strumentale e prodromica tramite il ricorso alla disciplina generale del tentativo ai sensi dell'art 56 c.p. Il delitto de quo pertanto, avente struttura bifasica, si connota per due momenti distinti: una prima fase consta di una condotta propedeutica, penalmente irrilevante, caratterizzata dall'acquisizione di fatture per operazioni inesistenti o di equivalente documentazione fiscale fraudolenta; la seconda fase invece consiste nella sottoscrizione e presentazione della documentazione falsa in quanto contenente elementi passivi fittizi, perfezionante il reato (MIGLIO). Bene giuridico tutelato dalla norma penale non è tanto la trasparenza fiscale quanto l'interesse dell'erario alla riscossione totale delle imposte dovute dai contribuenti (vedi anche Corte cost. 49/2002). L'assetto originario della norma subiva poi due interpolazioni significative, grazie a due novelle recenti: la prima con l. 148/2011 che, in un'ottica generale di inasprimento del trattamento sanzionatorio, aboliva l'ipotesi attenuata di cui all'art. 2, comma 3, d.lgs. 74/2000; la seconda con d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (in attuazione alla legge delega 23/2014) che incideva sull'art. 2 d.lgs. 74/2000 espugnando dal testo dell'articolo il riferimento all'annualità della dichiarazione: grazie all'erosione menzionata, il delitto in questione si perfeziona con qualunque dichiarazione relativa alle imposte sui redditi e all'Iva, ampliando sicché il campo applicativo della norma (modifica operativa ovviamente ex nunc). Esposta in via preliminare l'evoluzione normativa della fattispecie incriminatrice in oggetto, risulta necessario trattare in modo più approfondito due aspetti inscindibilmente legati alla tendenza giurisprudenziale a concludere per una presunta colpevolezza del legale rappresentante della società: i soggetti che possono rendersi autori della condotta sanzionata, ossia la platea di destinatari a cui la normativa si rivolge e l'attribuibilità soggettiva della condotta descritta, necessaria ai fini di una responsabilità penale personale secondo quanto sancito da Costituzione all'art. 27, comma 1. I destinatari della disciplina: i soggetti attivi
La norma, pur recando la terminologia chiunque, tipica dei reati comuni, si rivolge, oltre a tutti i cittadini che, assumendo lo status di contribuente, sono tenuti a presentare le dichiarazioni relative, anche ai soggetti che lo stesso d.lgs. 74/2000 provvede ad indicare all'art. 1 lett. e) identificati in coloro che rivestono la qualifica di amministratore, liquidatore o rappresentante di società, enti o persone fisiche che agiscono per conto della società, ente o persona fisica di riferimento. Si ricorda che prima della riforma del 2015, i soggetti obbligati alla presentazione della dichiarazione annuale dei redditi erano indicati agli artt. 1, 13 d.P.R. 600/1973 e all'art. 2 d.P.R 917/1986, tenendo conto che dopo la riforma del 2015 il Legislatore ha allargato il novero delle dichiarazioni togliendo il riferimento all'annualità. Si tratta sicché di reato proprio (MANGIONE), il cui fine specifico, precipuamente identificato nell'evasione, non può essere attuato dal quisque de populo bensì da uno dei soggetti indicati. Non si tratta però di un'elencazione tassativa poiché il comma 2 dell'art. 2 d.lgs. 74/2000 nella parte in cui chiarisce che il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatori, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria include implicitamente anche i contribuenti la cui tenuta delle scritture contabili è prevista in via facoltativa (SANTAMARIA). Il testo della normativa reca la dicitura amministratore senza alcuna specificazione; in assenza di una definizione più dettagliata, quid iuris all'amministratore di fatto? E, nell'ambito di un consiglio di amministrazione, all'amministratore privo di deleghe e al membro esecutivo? Nei più recenti arresti giurisprudenziali si intravede la tendenza ad estendere la platea dei soggetti potenzialmente coinvolti nella responsabilità penal-tributaria sia per ciò che concerne i ruoli apicali (in giurisprudenza Cass. pen., Sez. V, 24 giugno 2014, n. 42889), sia in termini temporali (Cass. pen., Sez. III, 4 febbraio 2016, n. 4631). Nulla quaestio per l'equiparazione dell'amministratore di fatto all'amministratore di diritto, pacificamente delineata anche dalla giurisprudenza che ritiene il primo onerato dell'intera gamma di doveri che gravano sul secondo (Cass. pen., Sez. V, 19 novembre 2012, n. 45007). Per quanto concerne invece l'amministratore che, all'interno di un consiglio di amministrazione, pur nominato formalmente e consapevolmente coinvolto nella gestione effettiva della società, è privo di deleghe (MENARDO), è necessario distinguere una compartecipazione attiva di quest'ultimo alla realizzazione dell'illecito da parte del componente esecutivo dal caso in cui è possibile addebitargli in concorso una condotta omissiva consistita nel mancato impedimento alla commissione dei reati a fronte di una posizione di controllo rivestita ex lege. Anche per questa categoria il problema si riduce all'accertamento dell'elemento soggettivo ed il rischio in capo al giudice, chiamato a questo onerosa verifica, è quello di mascherare, mediante una “frode delle etichette”, una condotta meramente colposa – rilevante solo sul piano di una responsabilità civile – in un comportamento penalmente rilevante grazie all'ausilio del dolo eventuale e della formula di accettazione del rischio. La stessa giurisprudenza, lontana dall'assumere una direzione consolidata, ha assunto una posizione garantista con la pronuncia sul caso Bipop Carire (Cass. pen., Sez. V, 19 ottobre 2010, n. 41136, v. nota di CENTONZE) richiedendo, per una responsabilità concorsuale dell'amministratore privo di deleghe, la necessità di dimostrare la conoscenza e non la mera conoscibilità del comportamento illecito, prova raggiunta mediante la percezione da parte degli stessi di c.d. segnali d'allarme aventi specifiche caratteristiche tali da essere perspicui e peculiari in relazione all'evento illecito. L'atteggiamento successivo (Cass. pen., Sez. V, 19 ottobre 2016, n. 41136) però regredisce nello standard probatorio, ritenendo sufficiente dimostrare che l'amministratore privo di deleghe avesse avuto percezione dei sintomi d'illecito o che le attività incriminate fossero talmente anomale da non potere sfuggire alla suo controllo. La giurisprudenza è talmente ondivaga che arriva addirittura ad obliterare un accertamento serio del momento volitivo (Cass. pen., Sez. V, 7 marzo 2014, n. 32352) mediante l'ausilio di indicatori ulteriori, accontentandosi della possibilità che l'imputato fornisca una giustificazione “convincente” in ordine alla sua condotta omissiva. Nel silenzio del Legislatore, dottrina ha invece espugnato dal novero dei destinatari della disciplina i sindaci (PRICOLO), il curatore fallimentare, il commissario liquidatore e il commissario straordinario (NAPOLEONI). Diversamente per il liquidatore ex artt. 2276 e 2489 c.c., nominato in caso di scioglimento della società, che, in virtù del richiamo testuale operato dalla lett. c) dell'art. 1 d.lgs. 74/2000, viene sottoposto alla medesima disciplina prevista per coloro che amministrano, rappresentano e gestiscono l'ente; scelta confermata dagli stessi giudici di legittimità in una recente pronuncia (Cass. pen., Sez. III, 23 giugno 2015, n. 30492). Infine, la responsabilità del c.d. prestanome, ovvero colui che formalmente è investito della qualifica ma che di fatto non si occupa della gestione della società, è stata dalla Cassazione recentemente ritenuta sussistente alla stregua dell'amministratore di fatto (Cass. pen. Sez. III, 27 novembre 2013, n. 47110; Cass. pen. Sez. III, 28 maggio 2012, n. 20286; Cass. pen., Sez. III, 3 ottobre 2013, n. 41148, con nota di BRANDI) grazie al meccanismo del dolo eventuale (a fronte della carica rivestita egli non poteva non essere a conoscenza della situazione e rappresentarsela), superando quell'orientamento previgente, maggiormente conforme ai principi costituzionali, di una responsabilità penale di tipo personale ossia colpevole e consapevole della difficoltà intrinseca in sede di accertamento di questo tipo di elemento psicologico, secondo il quale era quantomeno necessario dimostrare la partecipazione effettiva alla gestione societaria illecita (Cass. pen., n. 7203/2008 e Cass. pen., 19049/2010). Infine, trattandosi di reato proprio, risulta pacifico, alla luce dei principi generali in tema di concorso di persone nel reato, l'estensione della responsabilità penale dell'extraneus che, con il suo contribuito causale, essendo a conoscenza della qualifica dell'intraneus, volontariamente ne agevoli il compimento o lo istighi alla commissione del delitto (TOMA). In conclusione, per quanto concerne le realtà aziendali articolate, è evidente che la norma pone come destinatari naturali i soggetti che assumono una posizione di vertice nella gestione e controllo senza alcuna distinzione fra i ruoli che in verità, pur a questo livello, vi sono; la stessa giurisprudenza non prende in considerazione, a livello normativo, l'organigramma aziendale e la suddivisione di responsabilità nelle grandi società dove la tendenza a delegare è immanente. Tale tipo di considerazione, pur non trovando spazio nella normativa, deve servire al giudice di merito nell'accertamento del caso concreto ma il rischio – che si è tradotto in realtà – è la mancata considerazione delle differenze delle mansioni che si traduce di fatto in una presunta colpevolezza del ruolo apicale. Il dolo di evasione fiscale e il suo difficile accertamento
Mentre con riferimento all'oggetto della condotta vi è copiosa giurisprudenza, non può dirsi lo stesso in relazione al requisito di colpevolezza che la norma richiede per l'attribuzione soggettiva di responsabilità. Dal tenore letterale dell'articolo è desumibile che il delitto in esame è punibile a titolo di dolo specifico: l'agente deve rappresentarsi la fraudolenza della condotta e volerne gli effetti, volti a conseguire un'evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, dichiarando il falso indicando elementi passivi fittizi. L'art. 1 d.lgs. 74/2000 alla lett. d), fornendo una serie di definizioni, chiarisce che il fine di evadere le imposte comprende anche il fine di conseguire un indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito. Alla stregua dei principi generali (DOLCINI - MARINUCCI) non risulta poi necessario che lo scopo a cui tende l'autore della condotta (nel caso di specie, l'evasione) effettivamente si realizzi per ritenere consumato il reato (v. anche Cass. pen., Sez. III, 7 ottobre 2011, n. 36394). Ne discende che parte della dottrina e giurisprudenza (Cass. pen., Sez. unite 28 ottobre 2010, n. 1235) riconduce il delitto esaminato alla categoria dei reati di pericolo concreto sulla base dell'assunto che non importa se effettivamente l'offesa al bene giuridico si realizzi essendo sufficiente che quest'ultimo abbia corso un serio ed effettivo pericolo (PRICOLO, 47). Tuttavia, non si devono confondere due piani differenti: l'evasione – in qualità non di evento bensì di fine peculiare della condotta – può anche non realizzarsi in concreto, essendo sufficiente che si ponga come scopo dell'agente; tuttavia, trattandosi di reati dichiarativi, che si perfezionano con la presentazione della dichiarazione (e, da recente riforma, non più solamente annuale ma qualunque tipo di dichiarazione), questa è sufficiente a realizzare la lesione del bene giuridico tutelato, trattandosi quest'ultimo dell'interesse dell'erario alla percezione dei tributi. Nel caso in cui il contribuente indica in dichiarazione elementi passivi fittizi nel tentativo di tamponare carenze di bilancio mancherà l'elemento soggettivo dell'evasione ma la condotta materiale sarà pienamente integrata e dunque la lesione al bene giuridico tutelato cagionata. In questo caso parlare di una inesigibilità o meno della condotta richiesta e di conseguenza della sua punibilità senza mettere in discussione la piena configurazione del reato nella sua materialità. Giurisprudenza di merito ha poi chiarito che l'evasione a cui il soggetto attivo tende deve necessariamente agevolare la propria – e non altrui – realtà societaria (tribunale Genova – Gip, 24 marzo 2003, dove si afferma che in caso di prestazione realmente effettuata da A a favore di B, che sia poi oggetto di fatturazione da parte di C, deve escludersi che B possa realizzare il reato ex art. 2, 1° comma, d.lgs. n 74 del 2000 per difetto nella sua condotta sia dell'elemento oggettivo sia dell'elemento soggettivo. Risulta demandato al giudice di merito il compito di accertare la presenza o meno della consapevolezza del soggetto agente in ordine alla fraudolenza della dichiarazione oltre, ovviamente, allo scopo specifico di evasione richiesto dalla disciplina. Il fine specifico dell'evasione, a titolo esemplificativo, è stato escluso in un caso in cui il tribunale di Lucera (21 luglio 2009), chiamato a giudicare della responsabilità di una S.R.L. per un illecito amministrativo derivante dal reato di truffa aggravata commesso dall'amministratore, ha escluso il dolo in quanto le operazioni ricondotte fittiziamente alla società erano poi state effettuate escludendo sicché la possibilità di realizzare una evasione. Con riguardo alla verifica dell'elemento psicologico si registra la mancanza di orientamento giurisprudenziale e dottrinale univoco, sanato solo recentemente con la pronuncia della suprema Corte n. 38717 del 2016 la quale finalmente sembra aprire ad un accertamento ragionevole del dolo, superando quella mera presunzione di responsabilità che invece ha contraddistinto per lungo tempo l'orientamento giurisprudenziale. La posizione del giudice delle leggi – ed a monte, della giurisprudenza di merito – era indirizzata nel senso di ritenere compatibile il dolo (specifico) richiesto dalla norma con la forma del dolo eventuale; questa linea era ad esempio confermata da pronuncia di Cassazione dell'11 febbraio 2015, n. 19012 che condivideva in toto le considerazioni fatte in sede cautelare dal tribunale del riesame di Salerno ritenendo che l'imputato, in qualità di rappresentante legale della società, era tenuto ad adempiere in sede di contabilità ad una serie di obblighi di controllo, intrinseci alla sua posizione apicale, in mancanza dei quali la Corte territoriale, evocando la teoria dell'accettazione del rischio, riconosceva un ipotesi di dolo eventuale. La Cassazione avallava l'indirizzo ritenendo che il dolo eventuale fosse compatibile con la struttura della norma incriminatrice richiamata così come confermato da un precedente orientamento giurisprudenziale. Non solo, anche la pronuncia citata nel paragrafo precedente in merito al liquidatore della società come destinatario della norma (Cass. pen., Sez. III, 23 giugno 2015, n. 30492), ribadiva il dictum della giurisprudenza secondo il quale sotto il profilo soggettivo si richiedeva quantomeno che l'agente versasse in una situazione di dolo eventuale ossia si rendesse inadempiente ad una serie di obblighi minimi connessi al suo ruolo professionale e di conseguenza, ne accettasse il rischio di risponderne in sede penale. Il giudice di legittimità, invero, nel caso a mani, cassava l'ordinanza cautelare impugnata, precisando che il tribunale di merito avrebbe dovuto indicare gli elementi in ordine alla sussistenza del dolo quanto meno eventuale, cioè della conoscenza o della conoscibilità, attraverso una diligente verifica della contabilità e dei bilanci, ovvero da altri elementi desumibili delle compiute indagini preliminari, della fittizietà delle poste e delle falsità delle fatture inserite in dichiarazione. Il ricorso alla c.d. accettazione del rischio per configurare il dolo eventuale però difettava di prendere in considerazione l'ultima evoluzione giurisprudenziale che, a seguito del noto caso Thyssenkrupp (Cass. pen., Sez. unite, 24 aprile 2014, n. 38343), provvedeva a tracciare una linea di confine fra tale specie di dolo e colpa cosciente (superando la teoria dell'accettazione del rischio), ritenendo presente il primo quando l'agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l'evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso che si verifichi. L'esatta definizione del dolo eventuale è fondamentale per individuare i confini tra ciò che rientra nel penalmente rilevante e ciò che non lo è poiché, non essendo prevista una corrispondente fattispecie colposa, in virtù del principio di legalità, l'eventuale condotta colposa esulerebbe dal diritto penale. L'errore in cui incorre la giurisprudenza si inseriva in questo solco: essa ricorreva alla figura del dolo eventuale per punire in modo automatico fatti che ben avrebbe potuto l'agente, in virtù della carica professionale ricoperta, prevedere, omettendo in toto qualsiasi serio e approfondito esame sulla reale rappresentazione e volizione dell'evento, ritenendo sufficiente ricorrere alla formula dell'accettazione del rischio che così facendo, si svuotava di qualsiasi significato, non necessitando alcuna dimostrazione e riconoscendo in capo al soggetto in posizione apicale una responsabilità in re ipsa che tanto ricorda un sillogismo. A fortiori, l'accertamento risultava ancor più complesso quando si trattava di condotta concorsuale in presenza della quale, una presunta colpevolezza di colui che ricopre ruolo apicale appariva la via più semplice. In conclusione, consolidata giurisprudenza, riduceva la dimostrazione del dolo all'automatica assunzione della carica apicale ovvero in capo al contribuente su cui gravava l'onere di sottoscrivere la dichiarazione fiscale senza alcuna considerazione in ordine a quelle realtà aziendali complesse in presenza di gruppi di società (dove alcune delle controllate situate all'estero), per le quali appariva evidente la difficoltà materiale di un'adeguata verifica sulla correttezza dei documenti da inserire nella dichiarazione. Uno spiraglio ad un accertamento del profilo soggettivo effettivamente conforme ai principi costituzionali è stato finalmente recuperato dalla pronuncia esaminanda e prima ancora da Cass. pen., n. 9448 del 2016 che sottolineava l'esigenza di un accertamento mediante elementi probatori e non meramente indiziari (AMBROSI). Cavalcando l'onda del rinnovamento, con la pronuncia n. 38717, la suprema Corte provvede ad annullare la sentenza della Corte d'appello di Ancona ritenendo che in tale sede i giudicanti si erano limitate a ritenere sussistente la responsabilità del legale rappresentante solamente sulla base di due ordini di motivi: un interesse intrinseco dell'imputato all'evasione, ontologicamente connesso alla posizione ricoperta in azienda ed, in virtù del proprio ruolo, l'assunto sillogistico che egli non poteva non sapere, accettandone il rischio. La Cassazione rifiuta questo ragionamento ritenendo insufficiente la mera vesta formale dell'agente alla luce delle dimensioni della realtà aziendale in cui era inserito richiedendo un accertamento in concreto della sua consapevolezza mediante l'audizione dei testi che la tesi difensiva aveva messo a disposizione, non potendo dedurne a priori la responsabilità. La giurisprudenza, quantomeno di legittimità, ha operato quindi una svolta fondamentale recidendo quell'automatismo che mascherava, mediante il ricorso al dolo eventuale, una sorta di responsabilità a titolo oggettivo del legale rappresentante – ovvero degli altri soggetti indicati all'art. 1 d.lgs. 74/2000 – ascoltando le esigenze fattuali e recependo la difficoltà che la gestione di una società di enormi dimensioni può generare a livello di organizzazione e di suddivisione dei compiti, essa ha segnato una battuta d'arresto e l'inizio di un nuovo modus operandi in sede di accertamento dell'elemento psicologico. In conclusione
L'apertura giurisprudenziale potrebbe essere l'occasione per una rivoluzione in sede di accertamento dell'elemento psicologico necessario ai fini della attribuzione di responsabilità tramite un'effettiva verifica del fine specifico dell'evasione. Sul punto, non può considerarsi agevole tale dimostrazione mancando degli indici di riferimento sicuri e certi per ricostruire, nelle grandi realtà, la rappresentazione e volizione. E, proprio perché la ricostruzione ex post di ciò appare probatio diabolica – che è bene ricordarsi, comunque grava in capo all'accusa e non all'imputato – ci si chiede se è possibile procedere in modo rivoluzionario: è opportuno dotare la società di un sistema di rilevazione del rischio fiscale tale per cui in presenza di questo e di una conseguente verifica della sua efficienza il giudice esonera il rappresentante sociale da una responsabilità di tipo penale? È su tale solco che si inserisce il d.lgs. 128/2015, attuativo dell'art. 6 della legge delega fiscale n. 23 del 2014, che, nell'ambito del sistema tributario nazionale, istituisce un regime di adempimento collaborativo con l'obiettivo di instaurare un rapporto fiduciario tra amministrazione e contribuente ispirato a ragioni di certezza di diritto attraverso un dialogo continuo ed in particolare una comune valutazione delle situazioni suscettibili di generare rischi fiscali. Se tale sistema è stato pensato nell'ambito di accertamenti di natura fiscale tributaria ci si domanda se è possibile utilizzare lo stesso schema, volto a delineare un sistema di controllo interno, anche in sede penale, da parte di quei soggetti che in posizione apicale sono chiamati a rispondere di comportamenti fiscalmente scorretti che superano la soglia del penalmente rilevante. In un'altra ottica, di altro non si tratterebbe che di trasporre, sul piano dei reati tributari, quel modello pensato per limitare la responsabilità in capo all'ente persona giuridica di un reato commesso da un suo dipendente. In particolare, il d.lgs. 231 del 2001 ha introdotto la possibilità che le società si dotino di un efficace modello di organizzazione e di gestione volto a prevenire una serie di reati elencati, affidando il compito di vigilare sul funzionamento e sull'osservanza dei modelli ad un organismo indipendente. Con riferimento ai soggetti dotati di funzioni di rappresentanza e direzione dell'ente, la normativa prevede che, fornita la prova della dotazione di questo meccanismo, l'ente è esonerato da responsabilità configurando però un'inversione dell'onere probatorio che non ricade in capo all'accusa bensì è lo stesso ente a dover dimostrare di essersi dotata di un modello di organizzazione e controllo. Del pari, si potrebbe immaginare un analogo sistema specificatamente strutturato per monitorare, individuare e contenere i rischi fiscali. Tale modello dovrebbe in primis identificare la propensione al rischio della realtà in cui opera ed individuare una specifica strategia fiscale; fatto ciò, è necessario suddividere i ruoli e i compiti all'interno del management aziendale in modo tale che siano delineati in maniera cristallino le mansioni di ciascuno, cosicché poter ricondurre in maniera altrettanto chiara le responsabilità in caso di carenze o inesattezze delle incombenze. È ben possibile che, all'interno di realtà non a conduzione familiare le competenze si intreccino e una scissione netta fra gli incarichi diventi evanescente; a tal proposito è comunque possibile non irrigidire la società mantenendo nel contempo una certa flessibilità se viene instaurato un dialogo tra i vari ruoli apicali in ottica di interazione costante. Risulta quindi necessaria una mappatura generale dei rischi fiscali che deve prevedere un iter procedurale dettagliato di rilevazione, contenimento e controllo di questi ultimi in relazione ai singoli settori di cui la società si occupa, identificandoli per ogni attività. Al pari di quanto previsto dal d.lgs. 231/2001 è necessario prevedere un organismo esterno dotato di poteri di vigilanza sull'osservanza delle strategie e delle procedure di rilevazione dei rischi che periodicamente tengono aggiornati l'organo di gestione. Chiaramente qualsiasi tipo di modello di gestione del rischio deve adattarsi alle peculiarità della realtà imprenditoriale a cui in concreto andrà ad attuarsi e al tipo di attività che ne rappresenta l'oggetto sociale. Ben potrebbe pensarsi per quelle società che già si sono dotate di un modello simile alla luce della disciplina prevista dal d.lgs. 231/2001, di una sezione apposita che si occupi in particolar modo del rischio fiscale in ottica globale di un sistema orientato alla prevenzione e alla neutralizzazione di reati in generale. Fin tanto che non venga introdotta una previsione simile è però auspicabile l'adozione da parte della società, in una visione di cooperative compliance traslata in sede penale, di un modello del tipo descritto con il vantaggio, a differenza della 231/2001 che l'onere probatorio, a fronte di un reato tributario rimane in capo all'accusa, secondo i principi generali. Ciò diviene un privilegio rispetto al sistema delineato dalla normativa 231/2001 che prevede per i soggetti in posizione apicale un' inversione dell'onere della prova in quanto grava su di essi documentare l'assenza di una c.d. colpa di organizzazione: la dimostrazione che, pur avendo adottato un efficace modello di organizzazione ed essersi avvalso di un organismo esterno di vigilanza, l'ente non avrebbe potuto impedire la commissione del reato in quanto tali modelli sono stati elusi in modo fraudolento (Cass. pen., Sez. V, 18 dicembre 2013, n. 4677). Ricorrendo a questo sistema di gestione dei rischi, quindi, si semplificherebbe in sede di accertamento la prova dell'elemento soggettivo della condotta di fraudolenta dichiarazione, senza dover ricorrere a meccanismi di presunzione di responsabilità che poco si conciliano con il nostro sistema costituzionale. AMBROSI, Fatture false, il reato si accerta con prove e non con indizi, in ilSole24Ore; BRANDI, Di fatto, di diritto o prestanome, all'amministratore onori e oneri, in Fiscooggi.it; CENTONZE, La Suprema Corte di Cassazione e la responsabilità degli amministratori non esecutivi dopo la riforma del diritto societario, in Cass. pen.,2008, 103; MANGIONE, La Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Art. 2 d.lgs n. 74 del 2000, in Musco (a cura di), Diritto penale tributario, Milano 2002, p. 20; MARINUCCI, DOLCINI, Manuale di diritto penale. Parte Generale, Milano, 2015, p. 318; MENARDO, La responsabilità penale omissiva degli amministratori privi di delega. Recenti approdi giurisprudenziali e spunti di riflessione, in Dir. pen. cont.; MIGLIO, La Cassazione conferma la struttura bifasica del delitto di dichiarazione fraudolenta (art. 2 d.lgs. 74/2000), in giurisprudenzapenale.it; NAPOLEONI, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario nel d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, Milano 2000, 473; PADOVANI, Elementi obiettivi ed elementi soggettivi. Il dolo specifico, in Diritto penale Giuffrè, 2006, 105 ss.; PRICOLO, Art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, in Caraccioli, Giarda, Lanzi (a cura di), Diritto e procedura penale tributaria. Commentario al Decreto Legislativo 10 marzo 2000 n. 74, Padova 2001, p. 89; SANTAMARIA, La frode fiscale, Milano, 2002, p. 427; TOMA, La dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti tra dottrina e giurisprudenza, in Dir. e Prat. Trib., 2013, 4, p. 10897 |