Le motivazioni della Cassazione sul terremoto dell'Aquila
01 Dicembre 2016
Abstract
Con la sentenza in commento, la suprema Corte si pronuncia sulla drammatica vicenda del terremoto dell'Aquila, che si caratterizza, oltre che per il clamore mediatico, per la complessità delle tematiche giuridiche affrontate. La vicenda processuale
Volendo brevemente ripercorrere gli snodi processuali della vicenda, va ricordato che con sentenza del 22 ottobre 2012 il tribunale dell'Aquila aveva condannato a titolo di cooperazione colposa in omicidio e lesioni i componenti della Commissione Grandi Rischi – organo esclusivamente consultivo della Protezione Civile in base alla l. 225/1992 – per non aver correttamente analizzato il rischio sismico culminato nella scossa del 6 aprile 2009 e, quindi, per aver tranquillizzato la popolazione con un inadeguato ridimensionamento mediatico della paura del terremoto, così inducendola a non abbandonare preventivamente degli edifici strutturalmente inadatti ad ammortizzare scosse di forte entità. In breve, la complessa pronuncia di primo grado sosteneva che se le attuali conoscenze non consentivano di lanciare fondati allarmi per scosse imminenti, la corretta valutazione di prevedibilità del rischio, che gli imputati non avevano compiuto, e la completa informazione in tal senso, che gli imputati non avevano fornito, avrebbero evitato, o contribuito a evitare, la morte o il ferimento delle persone indicate nel capo d'imputazione, o ne avrebbero comunque diminuito il numero. La regola cautelare violata – si afferma- non esigeva una risposta in termini di certezza scientifica sulla previsione del terremoto, ma una valutazione del rischio in termini di completezza e adeguatezza. In parziale riforma della sentenza di primo grado, la Corte d'appello dell'Aquila, in data 10 novembre 2014, aveva assolto quasi tutti gli imputati dai reati loro ascritti per insussistenza del fatto, ridimensionando anche gli altri addebiti. A sostegno delle assoluzioni, la Corte d'sppello evidenziava il carattere "informale" -negato in primo grado – della riunione – tenutasi presso la Regione Abruzzo il 31 marzo 2009 – dei membri della Commissione Grandi Rischi, confermato del resto dalla presenza di soli quattro titolari a dispetto della necessaria presenza di almeno dieci componenti ai fini della relativa valida costituzione (cfr. art. 3, d.p.c.m. 23582/2006). Ciò posto, i giudici di seconde cure esaminavano i pareri espressi da ciascun imputato, traendone la conclusione della piena correttezza scientifica di quanto da costoro sostenuto e dell'assoluta assenza di qualsivoglia contenuto tranquillizzante delle valutazioni dagli stessi operate in ordine alla prevedibilità di fenomeni sismici a breve termine. Solo un imputato era ritenuto responsabile in appello, in considerazione dell'imprudente propalazione pubblica di comunicazioni mediatiche dal contenuto avventatamente rassicurante, avendo rimarcato nel corso di un'intervista televisiva – rilasciata "prima" della riunione – la "normalità" della situazione, richiamando la contestata tesi dello "scarico di energia" per conferirle significato propizio. Proprio queste comunicazioni pubbliche, ritenute dal giudice d'appello sconsiderate e quindi rimproverabili per negligenza e imprudenza, avevano prevedibilmente indotto la cittadinanza a tralasciare le tradizionali precauzioni fino a quel momento osservate, così esercitando – quanto meno in talune delle vittime – una efficienza causale sulla decisione di rimanere in casa dopo le prime due scosse di terremoto verificatesi nella notte tra il 5 e il 6 aprile 2009: quelle che hanno preceduto di poco la scossa distruttiva delle 03.32. Nel caso di specie, la Corte territoriale riteneva applicabile ai delitti colposi il modello delle rappresentazioni sociali tipiche della ricostruzione della c.d. causalità psichica, sul presupposto della prevedibile influenzabilità dei processi decisionali della persona per effetto della divulgazione pubblica di comunicazioni istituzionali, segnatamente qualora le stesse siano ricondotte alla forza argomentativa di soggetti scientificamente qualificati. La Cassazione ha sostanzialmente confermato la sentenza di appello rigettando tutti i ricorsi (RISICATO). Si è trattato di un'occasione, per la suprema Corte, di soffermarsi su una serie di temi cruciali rispetto all'accertamento della condotta colposa e dei nessi di causalità psicologica. Ora, una corretta analisi della sentenza in esame impone preliminarmente l'individuazione della regola cautelare in rilievo nel caso di specie. La suprema Corte, in proposito, si sofferma sulla definizione dei criteri discretivi tra la natura propriamente cautelare delle regole che disciplinano la condotta commissiva dell'agente in un ben determinato contesto di rischio e l'indole meramente precauzionale di talune misure di condotta che, lungi dal fornire adeguate garanzie circa l'evitabilità dell'evento lesivo prefigurato, valgano quanto meno a scongiurare l'eventuale aggravamento dei rischi connessi alla verificazione di detto evento, in assenza di alcun concreto riscontro circa la relativa potenziale idoneità a impedire l'evento. I difensori dei ricorrenti avevano infatti rilevato in particolare come, riguardo all'obiettiva imprevedibilità scientifica di un terremoto di portata distruttiva, l'eventuale adozione di misure di protezione assuma la consistenza specifica di misure precauzionali del tutto "irrilevanti" sul piano penalistico: diversamente, si rischierebbe una contaminazione tra colpa e principio di precauzione in chiave espansiva della punibilità, con conseguente rischio di violazione del principio di stretta legalità. Sul punto, la Suprema Corte afferma che la regola cautelare, fondata sulla prevedibilità ed evitabilità dell'evento, ha riguardo ai casi in cui la verificazione di questo, in presenza della condotta colposa, può ritenersi, se non certa, quantomeno possibile sulla base di elementi d'indagine dotati di adeguata concretezza e affidabilità, sia pure di solo di consistenza empirica e non scientifica. Essa, invece, non può essere individuata sulla scorta del principio di precauzione, che ha riguardo ai casi in cui si è rimasti al livello del “sospetto” che, in presenza di certi presupposti, possano verificarsi effetti negativi (in particolare sulla salute dell'uomo) – e dunque quando manchi in senso assoluto una possibile spiegazione dei meccanismi causali o non si disponga di concreti elementi di indagine (sia pure di consistenza empirica e non scientifica) idonei a formulare attendibili e concrete previsioni circa il ricorso di eventuali connessioni causali tra la condotta sospetta e gli eventi lesivi. Detto altrimenti, il concetto di prevedibilità rilevante ai fini della costruzione della norma cautelare richiede di essere ancorata non già al parametro dell'elevata credibilità razionale che l'evento, in presenza di una data condotta, si verifichi, bensì alla possibilità – concreta e non ipotetica – che la condotta sia in grado di determinare l'evento. Il Collegio richiama così l'orientamento già fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la soglia oltre la quale l'agente può prevedere le conseguenze lesive della sua condotta non è costituita dalla certezza scientifica, ma dalla probabilità o anche solo dalla possibilità (purché fondata su elementi concreti e non solo congetturali) che queste conseguenze si producano (Cass. pen., Sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675). Così, il principio di colpevolezza, quale rovescio della medaglia del principio di stretta legalità, può dirsi rispettato nel momento in cui sia rappresentabile ex antela verificazione di eventi dello stesso tipo di quelli che la regola cautelare violata mirava ad prevenire, anche laddove sulla pericolosità della condotta non sussista, al momento dei fatti, pieno consenso da parte della comunità scientifica. Su queste basi, la sentenza in commento rileva che del tutto correttamente la corte territoriale ha riconosciuto la prevedibilità degli eventi lesivi collegati alla condotta informativa contestata all'imputato (riconducendone lo spettro al discorso sulla colpa), evidenziando la concretezza della possibilità (e dunque non il mero 'sospetto') che 'l'imprudente informazione pubblica relativa al rischio sismico (proprio del territorio aquilano) valesse a prefigurare la possibilità di una riduzione della soglia di attenzione della popolazione rispetto ai pericoli connessi ai rischi del terremoto' (non già, naturalmente, nella sua specifica identità di evento storico con le proprie e irriducibili caratteristiche, bensì…quale fenomeno appartenente alla propria omogenea categoria di eventi corrispondenti), 'trattandosi di fatti che, alla luce delle conoscenze disponibili, apparivano ampiamente preventivabili in termini empirici, tenuto conto della riconosciuta elevata sismicità del territorio aquilano, prima ancora del carattere (genericamente) allarmante dei fenomeni sismici in loco ancora in atto continuativamente da molti mesi' (in nessun caso qualificabili quali improbabili fenomeni precursori); fatti dunque concretamente prevedibili come possibili nella loro sufficiente specificità, benché di non certa verificazione e non del tutto spiegabili ex ante sotto il profilo dei relativi meccanismi causali di produzione. La Corte precisa ancora come da tempo la giurisprudenza di legittimità faccia rientrare anche i terremoti di rilevante entità tra le normali vicende del suolo, non potendo i movimenti tellurici rientrare tra gli accadimenti eccezionali o imprevedibili qualora si verifichino in zone già qualificate ad elevato rischio sismico. Risulta dunque evidente che il rimprovero di colpa non si fonda sulla non corretta analisi di un rischio sismico prevedibile ma sulla non corretta comunicazione del rischio alla popolazione, indebitamente tranquillizzata e così indotta a non seguire regole di prudenza che avrebbero potuto salvare la vita di alcune delle vittime. Risulta evidente, ancora, la costruzione della regola cautelare "aperta" non tanto in termini di ontologica "qualità del rischio", quanto in relazione alle sue "modalità comunicative". L'assunto genera tuttavia qualche perplessità se si parte dall'assunto secondo cui, in tema di colpa, la valutazione della violazione della diligenza prescritta non esaurisce il processo di accertamento della colpa, dovendo il giudice accertare anche l'effettiva realizzazione dello specifico rischio tipico legale che la regola di diligenza violata tendeva a neutralizzare, vale a dire la prevedibilità/evitabilità legale dell'evento dannoso attraverso il rispetto della diligenza prescritta, nonché l'esigibilità della condotta prescritta. È invero sul piano oggettivo che il dovere di diligenza svolge la sua funzione di integrazione della fattispecie generale e astratta e, in quanto tale, orientativa del comportamento dei consociati nonché preventiva rispetto alla lesione di beni giuridici fondamentali quali la vita e l'integrità fisica; senza considerare che l'inserimento della regola cautelare nel tipo legale mira ad evitare ipotesi di responsabilità oggettiva occulta. In breve, attratta nell'orbita del fatto colposo, la regola cautelare condivide la duplice funzione di garanzia che la tipicità svolge, in modo equilibrato e simmetrico, nei confronti del bene giuridico e del favor libertatis; la sua determinazione non può pertanto essere totalmente rimessa alla discrezionalità giudiziale, ma deve risultare pre-definita nei suoi contorni legali e riconoscibile ex ante dall'agente quale regola comportamentale astratta (GIUNTA; RONCO), in modo da rispettare i principi costituzionali penalistici di riferimento e, in particolare, la traduzione costituzionalizzata della formula della responsabilità personale colpevole. Sotto tale aspetto, la sentenza in esame pare distaccarsi dall'impostazione secondo cui il processo di individualizzazione dell'agente modello deve essere contraddistinto da un elevato grado di individualizzazione del ruolo che il singolo soggetto ricopre e dei correlativi doveri che pertanto assume. Presupposto logico perché il comportamento del soggetto possa qualificarsi imprudente o negligente è infatti la puntuale rappresentabilità, ex ante, del fatto/prevedibilità-evitabilità dell'evento (Cass. pen., 12 maggio 2010, n. 28701). Tale requisito va accertato, come sembra preferibile in ossequio al principio di stretta legalità, sulla base delle stesse conoscenze scientifiche poste alla base del giudizio causale, nonché delle regole di esperienza il cui rispetto era esigibile al momento della condotta (FORTI; MARINUCCI; PERINI). Occorre anche ricordare che il rischio/pericolo sotteso alla formulazione giudizio di prevedibilità/evitabilità, sul quale si innesta la nascita della regola cautelare, pur consistendo in un giudizio prognostico ex ante, si basa su una valutazione relativa a una situazione di fatto rispetto alla quale l'interrelazione tra fattori risulta scientificamente nota. In questa prospettiva, se si viene a scoprire una discrasia tra conoscenze al momento del fatto e conoscenze al momento del processo ovvero si scopre, al momento del processo, che al momento del fatto non si conoscevano le leggi di copertura del fenomeno, allora si deve concludere nel senso della irresponsabilità del soggetto agente (PULITANÒ). Del resto, non esiste – e non potrebbe essere altrimenti – una regola cautelare dotata di un'efficacia preventiva generale. Invero, la norma prudenziale viene pensata per fronteggiare una specifica cornice di rischio, sopra la quale vengono ritagliate le condotte di disinnesco totale o, quanto meno, di riduzione del pericolo (PIERGALLINI). Altra questione di fondamentale importanza è quelle relativa alla individuazione del secondo termine del nesso di rischio individuato dalla suprema Corte e consistente nella modifica delle abitudini di vita. Ci si deve infatti chiedere se tale ‘evento' sia causa mediata o immediata dell'evento morte. La soluzione a questo interrogativo implica una chiara scelta nei modelli di ricognizione del nesso eziologico tra condotta ed evento, nonché un parziale abbandono della nozione di evento in senso strettamente naturalistico (RISICATO). Sulla questione per la suprema Corte sono ipotizzabili due distinti approcci: quello che richiede una prevedibilità calibrata sull'evento hic et nunc e quello che si "accontenta" di una relazione solo astratta tra la regola cautelare violata e un evento "dello stesso genere" di quello prodottosi nel caso concreto. La prima opzione, preferibile da un punto di vista strettamente legale e tecnico-dommatico, restringe l'area del prevedibile, mentre l'altra lo amplia, forse eccessivamente. Ciononostante, appurare se un evento è prevedibile implica l'elaborazione di una generalizzazione, ovvero una descrizione nella quale siano incluse certe particolarità del caso e non altre. Risulta dunque decisivo stabilire se nella descrizione dell'evento vada inserito il nesso causale (RISICATO). La Corte tiene conto di tale esigenza, atteso che, come già detto, nel reato colposo l'evento deve rappresentare la concretizzazione dello rischio tipico che la regola precauzionale violata mirava a prevenire. Sotto questo aspetto, gli eventi di rischio vanno ricostruiti, sul piano della prevedibilità ex ante, in stretta correlazione con le note modali essenziali del decorso causale che si ipotizza. In altri termini, nel caso di specie occorre verificare il legame condizionalistico tra la comunicazione pubblica del rischio sismico, negligente o imprudente, e l'incidenza dell'informazione offerta sulla condotta autoprotettiva delle persone offese, nonché della verificazione di un terremoto di proporzioni distruttive con il successivo crollo delle abitazioni. La suprema Corte, sul punto, conferma la correttezza dello sviluppo argomentativo seguito nella motivazione della sentenza di secondo grado. Ciononostante, è possibile esprimere qualche perplessità sulla operata definizione del nesso eziologico. Nel caso di specie, il collegamento causale pare connesso ad una sorta di evento ‘ridescritto' ovvero ‘doppio evento', in quanto la condotta comunicativa del ricorrente incentrata sulla non corretta comunicazione mediatica del rischio risulta, ‘solo in un secondo momento', legata alla verificazione degli eventi lesivi ‘finali' (RISICATO). Breve, il messaggio avventatamente rassicurante senza il quale le vittime non sarebbero rimaste nelle loro fragili case al momento della scossa fatale, è equiparabile per la Suprema Corte ad una sorta di istigazione colposa a rimanere nelle proprie abitazioni, dando vita ad una sorta di concausa dell'evento ridescritto morte in virtù della scossa di terremoto, subita a causa della mancata attivazione di regole precauzionali connesse alla comunicazione rassicurante. Sennonché, occorre attentamente interrogarsi su quale sia l'evento a cui deve essere riferito il giudizio di prevedibilità: se, cioè, debba essere un evento del genere di quello verificatosi, esponendosi al rischio di una eccessiva genericità, oppure l'evento storicamente occorso, enfatizzando oltre misura il carattere di irripetibilità connaturato a ogni esperienza di vita individuale. Ora, pur staccandosi dalla enunciata dommatica rigorosa della colpa, ed accettando una “ri-descrizione” dell'evento, va evidenziato che in tale attività dovranno essere compresi soltanto gli aspetti ripetibili del decorso causale, atteso che il giudizio di prevedibilità dell'evento deve comunque snodarsi attraverso generalizzazioni che permettano di formulare una valutazione di tipo probabilistico in ordine al fatto che l'evento appaia, ex ante, una conseguenza probabile di una certa condotta. Questa impostazione, tuttavia, non viene accolta dalla sentenza in commento, che ridescrive l'evento in chiave funzionale ad un ampliamento del tipo colposo, con argomentazioni che rievocano la tematica della gestione del rischio da esposizioni professionali: un settore, questo, contraddistinto dal fenomeno della latenza del danno e delle conoscenze. Infatti, in questi casi, nel momento in cui viene posta in essere la condotta inosservante, la sua pericolosità, in termini nomologici, è, al più, ipotizzabile ma sovente diviene una vera conoscenza scientifica successiva, che emerge nel lasso di tempo che intercorre tra la condotta e l'evento. L'accertamento si concentra, allora, sulla prevedibilità, all'epoca in cui fu tenuta la condotta illecita, dell'evento occorso successivamente, tenendo conto, altresì, del fatto che, in genere, le regole cautelari trasgredite non erano specificamente rivolte a impedire o a ridurre il tipo di evento criminoso (Cass. pen., Sez. IV, 17.09.2010, n. 43786). Così, non riuscendo a provare, nomologicamente, all'epoca dell'esposizione, la prevedibilità di un anello intermedio del decorso causale, correlato all'evento finale (la morte), la giurisprudenza ri-descrive in forma generica l'evento occorso, da intendersi non già come quello hic et nunc, bensì come danno alla salute, e attribuisce alla regola cautelare violata una funzione cautelativa generale precauzionale: in breve, al rispetto della regola cautelare corrisponderebbe la volontà di evitare rischi generici (o di qualsiasi danno alla salute). La trasformazione della regola cautelare in precauzionale, volta, cioè, a ridurre il rischio di qualsiasi danno alla salute, sembra, dunque, orientare il tipo colposo in direzione del principio di precauzione, che assume il ruolo di potenziale fattore di espansione del diritto penale in contesti di incertezza scientifica (Cass. pen., 17 maggio 2006, n. 4675), determinando una flessibilizzazione delle categorie dogmatiche del diritto penale, in particolare della causalità e della colpa (GIUNTA, Il diritto …; VENEZIANI). Nella ricostruzione del nesso eziologico, la sentenza in commento abbandona il terreno della causalità naturalistica a vantaggio dell'insidioso paradigma della causalità psichica. Il ricorrente ha ancora rilevato come la natura psichica della causalità debba essere invocata unicamente in rapporto ai reati dolosi, sia in considerazione dei peculiari meccanismi propri a determinazione e istigazione quali forme della compartecipazione psichica, sia soprattutto per l'operatività del principio di autodeterminazione responsabile: unico elemento in grado di influenzare, in ultima analisi, la decisione delle vittime di rimanere in casa o di lasciare la propria abitazione. Sul punto, la Corte affronta preliminarmente il problema dell'irriconducibilità della causalità psichica a definiti paradigmi nomologici d'indole scientifica (sia pure meramente statistici), tipici della (sola) causalità naturalistica (RISICATO, La causalità…). Si afferma così che la c.d. causalità psichica, pur ponendosi in termini del tutto peculiari, rispetto alle forme tradizionali della causalità relativa ai fenomeni d'indole fisico-naturalistica (trattandosi di vicende che si combinano e risolvono integralmente nel chiuso della dimensione spirituale della persona, fuori da ogni possibile e concreta opportunità di osservazione o di verifica), non sfugge, ai fini del giudizio penale, alla necessità della preventiva ricerca di possibili generalizzazioni esplicative delle azioni individuali, sulla base di consolidate e riscontrabili massime di esperienza, capaci di selezionare ex ante le condotte condizionanti (socialmente o culturalmente tipizzabili), da sottoporre successivamente all'accertamento causale ex post. Le massime di esperienza - al pari delle leggi scientifiche di tipo probabilistico (e dunque di ogni forma di 'sapere incerto') - possono essere utilizzate allo scopo di alimentare la concretezza di un'ipotesi causale, secondo il procedimento logico dell'abduzione. Alla posizione (in termini congetturali) di tale ipotesi deve peraltro necessariamente far seguito, ai fini dell'affermazione concreta della relazione causale, il rigoroso e puntuale riscontro critico fornito dalle evidenze probatorie e dalle contingenze del caso concreto (secondo il procedimento logico dell'induzione), suscettibili di convalidare o falsificare l'ipotesi originaria e, contestualmente, di escludere o meno la plausibilità di ogni altro decorso causale alternativo, al di là di ogni ragionevole dubbio. È evidente il richiamo agli orientamenti che ritengono compatibili con l'autodeterminazione responsabile schemi operativi di tipo meramente prognostico, funzionali alla determinazione dell'idoneità della condotta condizionante rispetto alla verificazione del c.d. evento psichico. Tuttavia, la trasposizione di siffatto modello in ambito penalistico trascina con sé il rischio di una grave frattura con i principi connessi alla personalità della responsabilità penale, tutte le volte in cui l'accertamento ai fini della condanna si arresti alla verifica dell'adozione di condotte astrattamente "idonee" o "adeguate", senza alcuna effettiva chiarificazione o spiegazione delle ragioni che in concreto giustifichino l'attribuzione dell'evento al "suo" autore". Tensioni non dissimili si porrebbero anche rispetto al principio di legalità: applicare meccanismi ricognitivi della causalità psicologica di tipo (solo) prognostico determina, infatti, una trasfigurazione occulta dei reati di danno in illeciti di pericolo (RISICATO, La causalità…). Su queste basi, la sentenza in commento accoglie l'orientamento che riconosce alla causalità psichica modelli di ragionamento inferenziale non dissimili da quelli propri della causalità naturalistica, sul presupposto dell'ordinaria riconducibilità dei comportamenti umani entro definite "griglie di comportamento": in questi casi il giudice giustifica l'attribuzione causale muovendo dall'assunzione secondo cui, quando il fattore considerato sia una circostanza in presenza della quale gli uomini agiscono, essi generalmente si comportano in modo analogo al modo descritto nell'attribuzione, sì che l'individuo del quale si discute agì presumibilmente, egli pure, nel modo in cui agì, perché era presente quel dato fattore. Per la spiegazione delle azioni individuali è allora necessario procedere all'individuazione di generalizzazioni di qualche tipo, capaci di selezionare ex ante quelle condotte condizionanti la cui efficacia causale dovrà essere riscontrata ex post. Si tratta, com'è evidente, di generalizzazioni di tipo antropologico-statistico, applicabili come tali ad ogni specie di comportamento umano, "sia esso doloso o colposo", ma non per questo poco rigorose (RISICATO). Anche in tema di accertamento della causalità psichica non potrà, invero, prescindersi dai principi guida richiamati dalla sentenza Franzese del 2002. Dunque, essendo la condizione necessaria requisito oggettivo della fattispecie criminosa, essa dovrà essere dimostrata con rigore secondo lo standard probatorio dell'oltre il ragionevole dubbio. Ora, è pur vero che a determinate condizioni, anche le generalizzazioni esperienziali possono essere parte del ragionamento esplicativo della causalità ma è altrettanto vero che, più di recente, il nesso di causalità è stato ravvisato anche in casi in cui il giudizio controfattuale, non basato su una legge scientifica universale o meramente statistica, si fondi sulla generalizzazione dell'esperienza e del senso comune, e tuttavia sia stato ritenuto attendibile – rispetto al caso concreto – secondo i criteri di elevata credibilità razionale formulati dalla sentenza Franzese (Cass. pen., Sez. IV, 11 luglio 2013, n. 29889). Tutto questo in quanto i processi psichici, sfuggendo per definizione all'osservazione diretta, devono far ricorso a generalizzazioni di tipo esperienziale (RISICATO). In tale delicato settore si deve tenere conto della natura sostanzialmente libera del volere e del carattere irripetibile degli accadimenti psichici. In effetti, la c.d. causalità psichica pare irriducibile al paradigma della causalità naturalistica fondamentalmente in quanto rispetto alle dinamiche psichiche non è possibile riscontrare una sequenza regolare come quella espressa dalle leggi del "mondo fisico". Ed infatti, nei casi di c.d. causalità psichica, pur riconoscendo la possibilità di effettuare generalizzazioni e di ravvisare l'operatività di reali meccanismi causali, appare veramente difficile il reperimento di vere e proprie leggi scientifiche ancorché statistiche essenzialmente a causa della irripetibilità ed unicità degli eventi psichici. Ebbene, di fronte all'impossibilità di ricondurre alla causalità naturalistica e al modello nomologico-deduttivo la c.d. causalità psichica si pone l'esigenza di individuare altri paradigmi nell'ambito dei quali ricondurre le interazioni psichiche che siano coerenti con le peculiarità strutturali delle relazioni psichiche e capaci di soddisfare a pieno le istanze espresse dai principi di legalità e personalità della responsabilità penale in questo delicato ed incerto settore. Anzitutto, si potrebbe pensare che nel campo delle interazioni psichiche, non essendo possibile utilizzare il paradigma nomologico-deduttivo della causalità naturalistica, non sia neppure accertabile il legame eziologico effettivo e, conseguentemente, che occorra orientarsi verso paradigmi di tipo prognostico. Da questo punto di vista, ai fini dell'imputazione oggettiva dell'evento psichico, in luogo dell'accertamento anacastico del legame effettivo tra i termini della relazione eziologica sarebbe sufficiente accertare l'idoneità della condotta ad influire sulla psiche altrui. Sennonché, l'utilizzo di paradigmi prognostici non sembra compatibile, né con il principio di personalità della responsabilità penale, visto che rischia di generare forme di responsabilità per fatto altrui, né con il principio di legalità, visto che comporta la trasformazione dei reati costruiti dal Legislatore come di danno in illeciti di pericolo astratto sottoposti a condizione obiettiva di punibilità. In secondo luogo, si potrebbe ritenere che il legame effettivo tra la condotta e l'evento psichico si possa accertare avendo riguardo esclusivamente al contesto nel quale si è svolta la singola vicenda causale, e quindi alla stregua di un modello di accertamento di tipo "individualizzante". Ed infatti, se la spiegazione dei comportamenti umani e degli eventi psichici non può essere ricavata secondo il metodo nomologico-deduttivo per l'assenza di un paradigma nomologico sotto il quale sussumere il singolo caso di condizionamento psichico, si potrebbe essere portati a ritenere che la spiegazione possa essere fornita solamente attraverso un giudizio "individualizzante" diretto ad accertare perché nel singolo caso un determinato soggetto ha agito in un dato modo. Sennonché, il rischio che si corre quando si procede all'accertamento della c.d. causalità psichica avendo riguardo esclusivamente al "contesto" è che il legame eziologico sia desunto su basi meramente psicologiche, avendo cioè riguardo all'esperienza personale dei soggetti coinvolti, e addirittura dal mero svolgimento dei fatti e segnatamente dalla loro successione temporale. In realtà, a ben vedere, l'accertamento del nesso di condizionamento tra condotta ed evento psichico risulta particolarmente incerto soprattutto quando il primo termine del rapporto eziologico da accertare non è selezionato dalla norma penale. Al contrario, quando a venire in gioco sono fattispecie incriminatrici, per così dire, ad “evento psichico vincolato", in cui la condotta tipica è selezionata dal Legislatore tra quelle che secondo l'id quod plerumque accidit sono idonee ad incidere sulla libertà di autodeterminazione e a realizzare l'evento psichico tipizzato, l'accertamento della c.d. causalità psichica risulta un po' meno incerto. Così, ad esempio, si pensi alla truffa in cui la relazione causale da accertare riguarda l'errore e la decisione di compiere l'atto di disposizione patrimoniale pregiudizievole da un lato e una condotta che integra gli estremi degli artifizi o dei raggiri dall'altro, ovvero una condotta che è selezionata secondo criteri di adeguatezza alla produzione degli eventi psichici tipizzati. E ancora si pensi alla circonvenzione di incapaci dove il nesso di causalità da accertare è tra la decisione di compiere l'atto di disposizione patrimoniale e una condotta che integra gli estremi della strumentalizzazione delle condizioni di inferiorità psichica della vittima, ovvero una condotta capace in astratto, secondo l'id quod plerumque accidit, di creare quell'effetto psichico. Ma analoghe considerazioni possono valere per la violenza privata in cui l'effetto costrittivo deve essere accertato rispetto non già ad una condotta qualsiasi ma ad una condotta di violenza o minaccia e come tale capace in astratto di incidere sulla libertà di autodeterminazione. In tutti questi casi l'individuazione del nesso di causalità tra condotta ed evento psichico risulta un po' più agevole proprio perché tra i termini della relazione eziologica tipizzati dalla norma incriminatrice v'è un vero e proprio rapporto di "adeguatezza". Ecco allora che si pone l'esigenza di individuare criteri capaci di selezionare ex ante il novero delle possibili condotte condizionanti rilevanti e in grado di ridurre il rischio di indeterminatezza legato alla fase ex post dell'accertamento della relazione causale, soprattutto quando la fattispecie incriminatrice non seleziona preventivamente le condotte causali rilevanti. Ebbene, questo parametro non potendo essere individuato in vere e proprie leggi scientifiche di copertura potrebbe consistere in massime di comune esperienza sul modello di quelle già utilizzate dal legislatore per la tipizzazione delle condotte nelle fattispecie in cui le condotte condizionanti rilevanti sono ab origine selezionate dalla norma incriminatrice. Conseguentemente, nelle ipotesi in cui la norma incriminatrice non seleziona preventivamente il novero delle condotte causali rilevanti, oltre ad effettuare una rigorosa "contestualizzazione" del nesso causale alla stregua di criteri probatori capaci di soddisfare l'esigenza della elevata credibilità razionale o probabilità logica, si potrebbero utilizzare massime di comune esperienza ben consolidate e capaci di selezionare ex ante le condotte condizionanti da sottoporre all'accertamento causale ex post. Da questo punto di vista, per stabilire se la decisione di B è conseguenza della condotta di A, oltre ad una adeguata "contestualizzazione" del nesso causale in base a parametri di credibilità razionale o probabilità logica, occorre anche verificare se la condotta di A rientra tra quelle che, secondo massime di esperienza, e sempre tenuto conto del contesto, paiono adeguate ad incidere sulla capacità di autodeterminazione di B. In effetti, nel contesto dei condizionamenti psichici il ricorso a massime di comune esperienza pare non solo coerente con le caratteristiche strutturali delle interazioni psichiche ma soprattutto in grado di soddisfare al meglio i principi di legalità e personalità della responsabilità penale in un settore in cui ai fini della imputazione oggettiva dell'evento non è possibile esigere la certezza scientifica nomologico-deduttiva ma una certezza qualitativamente diversa di tipo normo-valutativo. Ed infatti, mentre nel quadro della causalità naturalistica e del modello nomologico-deduttivo il ricorso alle regole di comune esperienze in luogo delle leggi scientifiche non sarebbe coerente con la natura scientifica della spiegazione e con il tipo di certezza che deve essere assicurata, in un contesto come quello delle interazioni psichiche, in cui non è possibile utilizzare le leggi scientifiche, le massime di esperienza risultano coerenti con la struttura della c.d. causalità psichica, in quanto non esprimono una regolarità di successione tra fenomeni ma consentono di effettuare previsioni in ordine a ciò che normalmente accade, e con il tipo di certezza che in questo settore eziologico si può raggiungere ed esigere, che non è di tipo scientifico ma normo-valutativa (logico-argomentativa). In sostanza, il modello di accertamento della c.d. causalità psichica incentrato su regole di comune esperienza così delineato si distingue sia da quello "individualizzante" che da quello nomologico-deduttivo della causalità scientifica. Dal modello "individualizzante", volto a desumere la relazione causale esclusivamente dal contesto nel quale si è svolta la vicenda causale, si distingue perché costituito da due distinte e diverse fasi: la prima generalizzante, ex ante, volta a selezionare le condotte condizionanti rilevanti e incentrata su regole di comune esperienza analoghe a quelle usate dal legislatore per la selezione delle condotte tipiche nelle fattispecie ad "evento psichico vincolato". La seconda fase, ex post, volta a fornire la prova della relazione causale in negativo, cioè mediante l'esclusione della riconducibilità dell'evento psichico concreto a decorsi causali alternativi rispetto alla condotta selezionata ex ante. Dal modello nomologico-deduttivo, nonostante siano entrambi bifasici (ex ante ed ex post), la causalità psichica si distingue almeno sotto tre profili. Anzitutto, sotto il profilo strutturale, causalità naturalistica e psichica si distinguono perché mentre il decorso della causalità naturalistica è reale e ripetibile e come tale è suscettibile di spiegazione scientifica, quello psichico pur essendo reale non è ripetibile e suscettibile di spiegazione scientifica. In secondo luogo, sotto il profilo dei criteri di accertamento, mentre per la causalità naturalistica possono essere utilizzate le leggi scientifiche universali e statistiche per la causalità psichica possono essere utilizzate solamente massime di comune esperienza. In terzo luogo e soprattutto, sotto il profilo della certezza sostanziale cioè della certezza astratta della imputazione dell'evento relativo alla causalità generale, mentre la causalità naturalistica non può che rispondere alla certezza scientifica quella psichica risponde ad una certezza qualitativamente diversa perché normo-valutativa e coincidente con quella logico-argomentativa induttivamente fondata. In definitiva, se, per un verso, il divorzio dalle leggi scientifiche e dal paradigma nomologico-deduttivo costituisce un epilogo obbligato dalla particolare struttura della causalità psichica, per un altro verso, il modello differenziato di causalità psichica (ex ante ed ex post) fondato su massime di comune esperienza, oltre che coerente con le peculiarità strutturali della c.d. causalità psichica, potrebbe risultare anche adatto a soddisfare le istanze legalitarie e di personalità della responsabilità nell'incerto quanto affascinante settore delle interazioni psichiche. A determinate condizioni, dunque, le generalizzazioni esperienziali possono essere parte del ragionamento esplicativo della causalità, purché vi sia un prudente ricorso agli indici sintomatici formatisi nella psicologia del senso comune. In questi casi, non potendo il giudice fare a meno del sapere incerto, occorrerà esaminare i modi attraverso i quali quel sapere incerto debba essere utilizzato. Per la suprema Corte, quindi, le massime di esperienza - al pari delle leggi scientifiche di tipo probabilistico (e dunque di ogni forma di sapere "incerto") - possono essere utilizzate allo scopo di alimentare la concretezza di un'ipotesi causale, secondo il procedimento logico dell'abduzione. Alla posizione (in termini congetturali) di tali ipotesi deve peraltro necessariamente far seguito, ai fini dell'affermazione concreta della relazione causale, il rigoroso e puntuale riscontro critico fornito dalle evidenze probatorie e dalle contingenze del caso concreto (secondo il procedimento logico dell'induzione), suscettibili di convalidare o falsificare l'ipotesi originaria e, contestualmente, di escludere o meno la plausibilità di ogni altro decorso causale alternativo, al di là di ogni ragionevole dubbio. Su questa base il supremo Collegio procede ad una rigorosa analisi del decorso causale tra comunicazione sociale del rischio e singoli eventi lesivi, in relazione a ciascuna delle vittime. Resta il dubbio sulla praticabilità della causalità psichica nell'individuazione del nesso eziologico dei delitti colposi "di rischio", quale quello in esame. Sul punto le alternative potrebbero essere due: o si assimila – in un contesto di "incertezza scientifica" – l'informazione inesatta divulgata avventatamente a una forma di "determinazione colposa" dell'altrui condotta, o – più correttamente – la si qualifica come un'istigazione "colposa" a restare nelle proprie abitazioni, la cui efficacia causale dovrà fare i conti con le determinazioni più o meno autonome delle vittime. In entrambi i casi, si assiste, come detto, ad uno "sdoppiamento" dell'evento lesivo: il nesso psichico si radica tra le informazioni inesatte divulgate dal ricorrente principale e la decisione delle vittime di rimanere in casa "nonostante lo sciame sismico". Tale decisione è, a sua volta, la condizione necessaria dell'evento lesivo morte, dovuto indiscutibilmente alla violentissima scossa di terremoto (RISICATO). In altri termini, la scelta "condizionata" delle vittime di restare nelle proprie abitazioni è l'"evento psichico" che determina l'"evento naturalistico" morte o lesioni: una conferma della provenienza genetica della causalità psichica dalla materia tormentosa della partecipazione criminosa e della sua difficile praticabilità rispetto a quello che, in appello, è divenuto invece un illecito monosoggettivo. Lo standard del dovere di diligenza
Procedendo nell'analisi delle questioni rilevanti, viene in rilievo il giudizio di prevedibilità e prevenibilità degli eventi, che deve essere commisurato al parametro dell'agente modello coincidente con il professionista (di grado elevato) del servizio della Protezione Civile impegnato nell'attività di comunicazione pubblica del rischio sismico, ossia nella pubblica divulgazione delle informazioni concernenti i rischi di possibili eventi sismici nelle condizioni (geografiche, storiche, etc.) effettivamente date. La suprema Corte ha così modo di rilevare che l'organo della protezione civile, che provvede a fornire informazioni alla pubblica opinione circa la previsione, l'entità o la natura di paventati eventi rischiosi per la pubblica incolumità, esercita una concreta funzione operativa di prevenzione e di protezione, ed è a tal fine tenuto ad adeguare il contenuto della comunicazione pubblica ad un livello ottimale di trasparenza e correttezza scientifica delle informazioni diffuse, e ad adattare il linguaggio comunicativo ai canoni della chiarezza, oggettiva comprensibilità e inequivocità espressiva, precisando ancora che in tema di responsabilità colposa, ai fini della individuazione della regola cautelare alla stregua della quale valutare la condotta dell'agente, non è sufficiente fare riferimento a norme che attribuiscano compiti, senza impartire prescrizioni modali, essendo necessario pervenire all'identificazione del modello comportamentale che - secondo le diverse fonti previste dall'art. 43 cod. pen. - è funzionale alla prevenzione dell'evento pregiudizievole. In assenza di una simile connotazione la norma di dovere deve essere integrata dalle prescrizioni cautelari rinvenibili in leggi, regolamenti, ordini o discipline (colpa specifica) ovvero in regole di matrice esperienziale o tecnico-scientifica (colpa generica). Si conclude il ragionamento argomentando che nel sistema nazionale della Protezione civile, come disciplinato alla data del 31.3.2009, la competenza in materia di comunicazione alla popolazione, quale misura non strutturale della prevenzione dei rischi di cui all'art. 2 della legge n. 225/1992, spettava in via esclusiva all'organo tecnico-operativo - ferme restando le attribuzioni della Presidenza del Consiglio. Il trasferimento di informazioni tra quello e l'organo consultivo tecnico-scientifico denominato Commissione nazionale per la previsione e prevenzione dei grandi rischi - connesso agli esiti delle analisi, delle ricognizioni, delle verifiche e delle indagini, come delle proposte e dei pareri provenienti da quest'ultimo - non assumeva carattere di comunicazione alla popolazione, anche quando il destinatario delle informazioni fossero state articolazioni territoriali del servizio nazionale della protezione civile. Orbene, nel caso di specie correttamente lo standard del dovere di diligenza viene collegato alle sole modalità comunicative delle informazioni scientifiche, fondandosi l'assunto sulla natura meramente consultiva dei compiti della Commissione Grandi Rischi. Senza considerare che in caso contrario sarebbe stata frustrata la necessità di evitare un paralizzante standard fondato invece sullo scienziato modello, dotato di conoscenze infallibili. La sentenza afferma con nettezza che la responsabilità sociale dello scienziato inizia laddove il prodotto del suo operare diviene pubblico; inizia con la comunicazione sociale della scienza. L'attività scientifica è infatti libera ma non altrettanto può dirsi della sua corretta divulgazione: lo scienziato deve adottare, pertanto, regole comunicative fondate, se non sulla prudenza, sulla continenza. Inevitabile chiedersi, secondo attenta dottrina (RISICATO), se la colpa del comunicatore "incontinente" possa graduarsi su livelli quantitativo-assiologici, sulla falsariga di quanto accade agli esercenti una professione sanitaria. Quanto alla ipotizzata applicabilità al caso di specie della "lievità" della colpa, con conseguente operatività dell'art. 2236 c.c., ovvero dell'art. 3, comma 1, l. 189/2012 in materia di responsabilità penale del medico – che in base a recenti arresti applicativi troverebbe applicazione pure nei casi di negligenza e imprudenza del sanitario e non solo nelle ipotesi di imperizia – la suprema Corte si sofferma sull'evoluzione dei rapporti tra art. 2236 c.c. e responsabilità medica, che di fatto ha conferito all'esercente una professione sanitaria, grazie soprattutto al successivo art. 3 l. Balduzzi, uno statuto del tutto particolare in considerazione della natura e delle caratteristiche dell'attività espletata. La sentenza in commento ribadisce l'applicabilità dell'art. 2236 c.c. alla sola imperizia e la conseguente inconferenza della norma de qua alla condotta del ricorrente, caratterizzata semmai da negligenza e imprudenza "comunicativa". Quanto all'art. 3, comma 1, l. 189/2012, esso anche a volere accedere all'interpretazione di maggior favore, trova applicazione esclusivamente nei confronti degli esercenti una professione sanitaria e alla particolare condizione della conformità della condotta a linee guida e buone pratiche accreditate. Non occorre aggiungere altro per escluderne la pertinenza al caso in esame. In conclusione
La riconosciuta responsabilità di un solo colpevole esclude, nel caso di specie, l'applicazione dell'art. 113 c.p. Tutto ciò in considerazione della natura meramente consultiva dei compiti della Commissione Grandi Rischi e, soprattutto, del carattere irrituale della riunione del 31 marzo 2009. Sul punto, può ormai dirsi pacifico che la cooperazione colposa presuppone un "intreccio cooperativo", vale a dire un coinvolgimento comune di condotte che sarebbero dotate, in sé e per sé, di una pericolosità ancora astratta ed indeterminata, che diviene attuale e specifica solo incontrando la condotta pericolosa altrui (Cass. pen. Sez. IV, 2 dicembre 2008, n. 1786, che riprende le osservazioni di PEDRAZZI). Proprio questo “incontro” testimonia che la dimensione concorsuale colposa si costruisce in base al c.d. intreccio cooperativo, vale a dire al contesto nel quale le condotte vengono ad intrecciarsi ed a collocarsi rispettivamente in termini funzionali nella gestione malaccorta di una situazione di rischio, e non già in base ad una eccessivamente rigorosa relazione causale che s'inneschi fra le une e le altre. In presenza di tale presupposto si genera un legame tra le condotte che opera non solo sul piano dell'azione, ma anche sul regime cautelare, richiedendo a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto (RISICATO). È nella pretesa di interazione prudente che trova giustificazione la deviazione rispetto ai principi di affidamento e di autoresponsabilità: la funzione della cooperazione è quella di fornire un modello di doveroso accrescimento dell'efficienza delle cautele che coinvolga a pari titolo i diversi soggetti che svolgano ruoli anche subalterni nell'ambito di una determinata organizzazione. In tal caso, è stato evidenziato in dottrina (RISICATO, Cooperazione …), ci si trova al cospetto di un fatto intrinsecamente differente rispetto al fenomeno della convergenza di più fatti colposi ab origine tipici, ben potendo configurarsi diverse condotte atipiche legate l'un l'altra da una relazione estranea alla dimensione colposa monosoggettiva. Più precisamente, si riscontra un'interazione consapevole di comportamenti che diventano collettivamente colposi in virtù dell'innalzamento della soglia del pericolo innescato da azioni sinergiche. Ciò che consolida le condotte dei concorrenti è dunque un elemento misto, oggettivo e soggettivo, vale a dire l'intreccio cooperativo che determina l'estensione dei margini originari della tipicità colposa e che non è caratterizzato soltanto da un (altrimenti generico) legame psicologico tra le condotte dei concorrenti, comunque necessario perché coessenziale alla partecipazione criminosa, ma dalla gestione contestuale di un rischio comune, il quale determina un accrescimento dell'efficienza delle cautele. I ricorrenti hanno affermato al riguardo come su ciascun esperto incombesse, oltre all'obbligo di svolgere diligentemente il proprio compito, anche quello di intervenire a "correggere" le informazioni altrui, ma queste affermazioni risultano escluse – nel caso di specie – dalla ritenuta correttezza scientifica delle affermazioni espresse dagli esperti nella contestata seduta del 31 marzo 2009. A ciò si aggiunge il dato univoco della anteriorità della comunicazione non diligente rispetto alla riunione informale. Sul punto, può solo evidenziarsi che la cooperazione colposa ipotizzata nella sentenza di primo grado lasciava irrisolta la fondamentale definizione del ruolo svolto dagli imputati nella realizzazione dei reati contestati: la condotta degli imputati poteva risultare infatti tipica solo rispetto alle finalità di "analisi del rischio" normativamente imposte dall'art. 9, l. n. 225/1992 (analisi ritenuta peraltro corretta dal giudice di seconde cure), non anche rispetto alla causazione "diretta" di morte o lesioni personali. Non restava che qualificare tutte le condotte di partecipazione come "atipiche, incomplete", nella clamorosa mancanza di (almeno) un autore in senso stretto (amministratore "distratto", costruttore negligente, etc.): quella qui ipotizzata sembrava, per certi aspetti, un'ipotesi di cooperazione in colpa "impropria", dove il rimprovero viene fatto retroagire sino alla soglia dell'"inesatta valutazione" - per superficialità, concitazione o incompetenza - della situazione di pericolo e dei mezzi da utilizzare per fronteggiarla” (RISICATO). Del resto, la suprema Corte puntualizza che l'attività consultiva dello scienziato gode di uno statuto di piena libertà. La responsabilità sociale dell'esperto inizia piuttosto con la "comunicazione" della scienza e da tale momento – come puntualmente osservato in dottrina (RISICATO) – inizia anche inconfutabilmente la sua responsabilità penale, monosoggettiva o plurisoggettiva a seconda delle circostanze del caso concreto. Barbieri, La sentenza sul terremoto dell'Aquila: una guida alla lettura, in Dir. pen. cont.; CASTRONUOVO, La colpa penale, Milano, 2009; ID., Principio di precauzione e diritto penale. Paradigmi dell'incertezza nella struttura del reato, Roma, 2013; FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, 123 ss.; GALLUCCIO, La sentenza d'appello sul caso del terremoto dell'Aquila, in Dir. pen. cont.; GALLUCCIO, Terremoto dell'Aquila e responsabilità penale. Nesso causale ed addebito di colpa nella sentenza 'Grandi Rischi', in Dir. pen. cont.; GIUNTA, Il diritto penale e le suggestioni del principio di precauzione, in Criminalia, 2006. 227 ss.; GIUNTA, La normatività della colpa penale. 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