Appropriazione indebita e diritto di ritenzione
03 Giugno 2016
Abstract
La Cassazione ha costantemente affermato che l'omessa restituzione della cosa e la sua ritenzione a titolo precario, a garanzia di un preteso diritto di credito, non integra il reato di appropriazione indebita ai sensi dell'art. 646 c.p., in quanto non modifica il rapporto tra il detentore ed il bene attraverso un comportamento oggettivo di disposizione uti dominus e l'intenzione soggettiva di interversione del possesso. Il diritto di ritenzione
In base all'art. 2756, comma 3, c.c., il creditore può trattenere la cosa soggetta al privilegio finché non è soddisfatto del suo credito e può anche venderla secondo le norme stabilite per la vendita del pegno. Il diritto di ritenzione viene configurato dalla dottrina in quelle particolari situazioni in cui, a fronte di un mancato tempestivo adempimento di un'obbligazione, il creditore che detenga, in ragione del rapporto obbligatorio, una cosa di proprietà del debitore, può rifiutarsi di restituirla fino a quando l'obbligazione non sia stata adempiuta. Nella stessa linea si è posta la giurisprudenza civile della Corte di cassazione, affermando che il diritto di ritenzione previsto dall'art. 1152 c.c., attuando una forma di autotutela in deroga alla regola per cui nessuno può farsi giustizia da sé, costituisce un istituto di carattere eccezionale, insuscettibile di applicazione analogica e che compete quindi solo al debitore qualificato (Cass. civ., Sez. II, 19 agosto 2002, n. 12232). Fattispecie concrete nelle quali è stata esclusa la configurabilità del delitto di appropriazione indebita
Un soggetto aveva affidato la sua autovettura ad un'officina per delle riparazioni; all'esito, poiché il conto finale era risultato ben più alto di quello preventivato, si era rifiutato di provvedere al pagamento; di contro, il titolare dell'officina aveva rifiutato di restituire l'autovettura al proprietario, dichiarando di esercitare il diritto di ritenzione, ex art. 2756 c.c., in attesa degli esiti dell'instauranda causa civile. In seguito alla querela sporta dal proprietario, l'autovettura, su richiesta del pubblico ministero, veniva sottoposta, con provvedimento emesso dal giudice per le indagini preliminari, a sequestro preventivo, ritenendosi sussistente il fumus boni iuris ed il periculum in mora in relazione al reato di cui all'art., 646 c.p., provvedimento poi confermato dal Tribunale del riesame adito dall'indagato. La Corte di cassazione, nell'accogliere il ricorso proposto dal titolare dell'officina, riconosceva l'errore di diritto nel quale erano incorsi i giudici di merito, affermando che il comportamento dell'indagato non risultava illecito né sul piano oggettivo, essendo la cosa stata trattenuta solo in attesa del pagamento, né su quello soggettivo, non avendo l'indagato mai inteso intervertire il possesso dell'autovettura, sempre restata a disposizione del proprietario, il cui diritto di proprietà non è mai stato messo in discussione (Cass. pen., Sez. II, 23 marzo 2011, n. 17295). In precedenza si era riconosciuto ed il principio è stato recentemente riaffermato, che la mera ritenzione precaria attuata a garanzia di un preteso credito, attuata senza disconoscere il diritto del proprietario sulla cosa e mantenendo questa a sua disposizione, condizionandone la restituzione all'adempimento dell'obbligazione, non integra il delitto di appropriazione indebita, in quanto un tale comportamento non viene a modificare il rapporto giuridico fra il soggetto agente e la cosa (Cass. pen., Sez. II, 27 maggio 1981, n. 9410; Cass. pen. Sez. II, 17 febbraio 2015, n. 12077). Fattispecie concrete nelle quali è stato ritenuto configurabile il delitto di appropriazione indebita
Un soggetto aveva affidato la sua autovettura ad un'officina per delle riparazioni; all'esito, poiché il conto finale era risultato ben più alto di quello preventivato, si era rifiutato di provvedere al pagamento; di contro, il titolare dell'officina aveva rifiutato di restituire l'autovettura al proprietario, dichiarando di esercitare il diritto di ritenzione, ex art. 2756 c.c., in attesa degli esiti dell'instauranda causa civile. In seguito alla querela sporta dal proprietario, l'autovettura, su richiesta del Pubblico Ministero, veniva sottoposta, con provvedimento emesso dal Giudice per le indagini preliminari, a sequestro preventivo, ritenendosi sussistente il fumus boni iuris ed il periculum in mora in relazione al reato di cui all'art., 646 c.p., provvedimento poi confermato dal Tribunale del riesame adito dall'indagato. La Corte di Cassazione, nell'accogliere il ricorso proposto dal titolare dell'officina, riconosceva l'errore di diritto nel quale erano incorsi i giudici di merito, affermando che il comportamento dell'indagato non risultava illecito né sul piano oggettivo, essendo la cosa stata trattenuta solo in attesa del pagamento, né su quello soggettivo, non avendo l'indagato mai inteso intervertire il possesso dell'autovettura, sempre restata a disposizione del proprietario, il cui diritto di proprietà non è mai stato messo in discussione (Cass. Pen. sez. II n. 17295 del 23/3/2011, Rv. 250100). In precedenza si era riconosciuto ed il principio è stato recentemente riaffermato, che la mera ritenzione precaria attuata a garanzia di un preteso credito, attuata senza disconoscere il diritto del proprietario sulla cosa e mantenendo questa a sua disposizione, condizionandone la restituzione all'adempimento dell'obbligazione, non integra il delitto di appropriazione indebita, in quanto un tale comportamento non viene a modificare il rapporto giuridico fra il soggetto agente e la cosa (Cass. pen. sez. II n. 9410 del 27/5/1981, Rv. 150664; Cass. pen. sez. II n. 12077 del 17/2/2015, Rv. 262772).
fattispecie concrete nelle quali è stato ritenuto configurabile il delitto di appropriazione indebita. La Corte di cassazione ha affermato che, in tema di appropriazione indebita, il diritto di ritenzione esercitato su un bene altrui non ha efficacia scriminante se il credito che si intende tutelare non è liquido né esigibile (Cass. pen., Sez. II, 9 gennaio 2009, n. 6080). Il caso concreto aveva ad oggetto la condotta di un soggetto che, nominato liquidatore di una società, aveva incamerato fondi di pertinenza della società stessa senza alcuna autorizzazione dell'assemblea dei soci, imputandoli ai compensi che gli sarebbero dovuti spettare per l'opera professionale prestata. Lo stesso, in primo grado, era stato riconosciuto responsabile del delitto di appropriazione indebita aggravata ex art. 61 n. 11 c.p. e la condanna era stata confermata dalla Corte d'appello. La Corte di cassazione, adita, dall'imputato, nell'affermare il principio sopra riportato, ha evidenziato come debba necessariamente considerarsi ingiusto il profitto che l'agente intende realizzare in virtù di una premessa che avrebbe dovuto far valere attraverso tutti i mezzi leciti e legali postigli a disposizione dall'ordinamento, proprio perché trattavasi di pretesa non compiutamente definita nelle specifiche necessarie connotazioni di certezza, liquidità ed esigibilità. In sostanza, ha esemplificato la Cassazione, che il profitto è sempre ingiusto, ove l'azione sia stata posta in essere per conseguire ciò che non è dovuto o non è ancora dovuto. Nel caso di specie ancora si è ritenuto che al liquidatore di una società per azioni dovesse essere applicata la disciplina relativa agli amministratori, ivi compreso l'art. 2389 c.c. in tema di compensi spettanti agli amministratori, che devono essere stabiliti o nell'atto costitutivo della società o dall'assemblea. Ed anche l'eventuale l'inapplicabilità al liquidatore della suddetta disciplina avrebbe dovuto comportare il ricorso alle norme del codice civile in tema di mandato ed in particolare all'art. 1709 c.c., in base al quale, in mancanza dell'accordo fra le parti e quindi nel caso di specie fra il professionista e l'assemblea dei soci, per la determinazione del compenso spettante al liquidatore non poteva che farsi ricorso al giudice. Certo è che, una volta riconosciuta la titolarità del diritto di ritenzione in capo al creditore, costui non può procedere alla vendita dei beni oggetto di privilegio senza rispettare le formalità per la vendita del pegno stabilite dall'art. 2756 c.c., essendosi ritenuto che una tale condotta integri gli estremi del delitto di appropriazione indebita. Difatti in tal modo il creditore muta illegittimamente la destinazione della cosa, in quanto il bene non viene conservato secondo le finalità consentite dalla legge, ma viene fatto proprio in contrasto con la disciplina civilistica del diritto di ritenzione. Del resto l'applicazione della normativa sulla vendita del pegno, lungi dal rappresentare una mera formalità, rappresenta una fondamentale garanzia per il debitore, che, può nell'ambito della procedura prescritta, esercitare tutti quei mezzi di tutela previsti, non potendo restare soggetto all'arbitrio del creditore, al quale non è consentito di agire senza alcun controllo sulla regolarità della vendita e sul prezzo della cosa venduta (Cass. pen., Sez. II, 17 maggio 2001, n. 27356). Ed ancora è stato ritenuto configurabile il delitto di appropriazione indebita nella condotta di un avvocato che aveva riscosso dei titoli di pagamento emessi in favore del proprio assistito e trattenuto le relative somme a compensazione di crediti professionali maturati nei confronti del cliente che, però, ne contestava l'esistenza (Cass. pen., Sez. II, 4 dicembre 2013, n. 293). In conclusione
Per potere correttamente eccepire il diritto di ritenzione è necessario, in primo luogo, fornire la prova non solo dell'esistenza di un credito ma anche della sua esigibilità e del suo preciso ammontare; in mancanza di tali elementi, stante l'illegittimità dello ius retinendi, permane la piena integrazione del delitto di appropriazione indebita. Una volta accertata, poi, la sussistenza di tali requisiti, la condotta del creditore che, a fronte dell'inadempimento del debitore, esercita a fini di garanzia il diritto di ritenzione sulla cosa di proprietà di quest'ultimo, non potrà integrare il delitto di appropriazione indebita, sempre che lo stesso non compia sul bene atti di disposizione che rivelino l'intenzione di convertire il possesso in proprietà. |