La riforma della giustizia penale. Le deleghe al governo per la riforma del codice penale

19 Agosto 2017

La legge 103/2017 introduce importanti deleghe di riforma del codice penale, fra cui le disposizioni in materia di regime di procedibilità per taluni reati, di misure di sicurezza e di casellario giudiziale. La portata effettiva della legge non è di semplice lettura, in quanto di non semplice soluzione sono i problemi generali ai quali il provvedimento intende fornire una risposta.
Abstract

La legge 103/2017 introduce importanti elementi di novità sia dal punto di vista sostanziale che da quello processuale nel sistema penale. Il significato specifico e la portata effettiva della l. 103/2017 non sono di semplice lettura, in quanto di non semplice soluzione sono i problemi generali ai quali il provvedimento in oggetto, così come molti altri che nei tempi recenti sono stati approvati, intende fornire una risposta. L'esigenza di garantire una rapida approvazione di un “pacchetto” di interventi il più possibile ampio (e il più possibile direttamente efficace) ha suggerito di rinviare la risoluzione di alcuni nodi particolarmente delicati e complessi. Si tratta, oltre ad una serie di disposizioni in tema di impugnazioni, delle disposizioni di carattere generale sull'ordinamento penitenziario e, soprattutto, di quelle aventi ad oggetto una parte – la più sensibile e delicata – della disciplina delle intercettazioni telefoniche, anche del regime di procedibilità per taluni reati e per le misure di sicurezza; infine la delega per la riforma del casellario giudiziale va letta unitamente alla esigenza di garantire l'adeguamento della normativa in materia di casellario al diritto dell'unione in tema di privacy.

La delega per la riforma del regime di procedibilità per taluni reati

Il comma 16 della legge di riforma prevede una delega al Governo destinata alla riforma del regime di procedibilità per taluni reati, alla revisione delle misure di sicurezza e al riordino di alcuni settori del codice penale.

Sotto il primo profilo, il Governo è delegato ad adottare entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della legge delega, decreti legislativi per la modifica della disciplina del regime di procedibilità per taluni reati, in particolare prevedendo la procedibilità a querela per i reati contro la persona e contro il patrimonio.

Rispetto all'originario impianto della riforma, il testo approvato esprime una logica significativamente differente. Il principio di fondo è chiaro: quello stesso spirito deflattivo del processo penale, nei casi in cui l'offesa all'interesse protetto dalla fattispecie criminosa, di per sé non gravissimo, sia ritenuto non meritevole di un procedimento penale se non su impulso di parte.

Nel progetto originario, il punto cruciale era identificabile nella definizione di offesa di modesta entità al bene protetto, che era ipotizzata quale presupposto per la procedibilità a querela di fattispecie criminose pacificamente ritenute di maggior allarme sociale, se non di maggiore gravità in assoluto quanto a limiti edittali di pena, in quanto recanti offesa alla persona.

La legge 103/2017 non contempla più un richiamo all'offesa di modesta entità, in quanto la previsione di procedibilità a querela alla quale dovrà essere data attuazione con la delega ha a oggetto:

  • i reati contro la persona puniti con la sola pena edittale pecuniaria;
  • i reati contro la persona puniti con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, fatta eccezione per il delitto di violenza privata di cui all'art. 610 c.p.;
  • i reati contro il patrimonio.

Sembra chiara la ratio della norma, nell'esigenza di deflazionare e decongestionare il sistema processuale dai fatti che possono costituire prevalentemente offesa a privati, lasciando appunto ai privati la facoltà di rendere procedibile l'azione penale. La scelta operata con la versione finale del testo di raccordare il contenuto della delega a parametri oggettivi correlati alla pena piuttosto che al richiamo all'entità dell'offesa pare oltremodo opportuna, quantomeno sul piano della chiarezza (oltre che della potenziale estensione) della previsione generale.

Nell'originaria versione del testo il regime della procedibilità a querela trovava un limite di carattere generale in relazione all'esclusione per i reati in danno dei soggetti incapaci per età o per infermità.

Un'esclusione che è stata mantenuta nella delega attuale, che tuttavia prevede, per il mantenimento della procedibilità di ufficio, altre due ipotesi:

  • il fatto, nei reati contro il patrimonio, che il danno arrecato alla persona offesa sia di rilevante gravità;
  • il fatto che ricorrano circostanze aggravanti a effetto speciale ovvero le circostanze indicate nell'art. 339 c.p.

L'art. 339 c.p., prevede le circostanze aggravanti in relazione ai delitti – tra l'altro – di violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale, con previsione di aumenti di pena ove risulti che la violenza o la minaccia sia «commessa con armi , o da persona travisata, o da più persone riunite, o con scritto anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte». Con la riforma, di fatto, la sfera di offensività “qualificata” nei confronti del pubblico ufficiale è così estesa ai privati.

In relazione ai soggetti incapaci per età o infermità, la evidente priorità del Legislatore, è quella di evidenziare il maggior grado di offensività pubblica delle fattispecie nel caso in cui le condotte siano poste in essere a danno di soggetti deboli, essenzialmente sotto il profilo dell'inferiorità e dell'autonomia psichica. L'esclusione dalle categorie di persone offese per cui il reato resta procedibile d'ufficio, di soggetti solo fisicamente “inferiori”, sembra suggerire che, insieme a una maggior gravità oggettiva del reato, il Legislatore abbia inteso minimizzare il rischio di possibili condizionamenti e pressioni dei soggetti ritenuti deboli in un contesto di condotte di prevaricazione e intimidazione squisitamente psicologica.

Se evidente è lo scopo generale alla base di questa esclusione – considerando la sempre maggior gravità delle offese recate alle persone “deboli” per qualche motivo – qualche perplessità rimane in merito all'esclusione netta e generale, per categorie cosi ampie e al momento in parte indeterminate, della maggiore flessibilità che la procedibilità a querela offre al sistema di torti e rivendicazioni, sebbene penalmente rilevanti, tra privati. Basti pensare che, se nulla fosse specificato in merito, questa clausola di esclusione lascerebbe fuori dalla procedibilità a querela tutti i reati contro la persona commessi da minorenni nei confronti di minorenni.

Del tutto logiche e condivisibili risultano poi le due ulteriori esclusioni dall'ambito della delega; problematico sarebbe stato conciliare la valutazione negativa generale e astratta di particolare gravità connaturata alle aggravanti a effetto speciale (o alle stesse aggravanti di cui all'art. 339 c.p.) con la procedibilità a querela.

Qualche dubbio potrebbe porsi in relazione alla previsione della procedibilità di ufficio per il danno patrimoniale di rilevante gravità, rattandosi di valutazione che, in effetti, avrebbe potuto essere lasciata alla persona offesa; in sintonia con la previsione, già contemplata dal sistema, dell'art. 61 n. 6 c.p., il Legislatore ha evidentemente ritenuto prevalente, rispetto a una “remissione” della scelta al privato, l'interesse pubblico alla repressione di condotte finalizzata a ottenere profitti illeciti significativi.

Come già ricordato, è stato modificato il regime del delitto di violenza privata ex art. 610 c.p., che resta così procedibile di ufficio anche nell'ipotesi di cui al comma primo.

Il comma 16, alla lettera b) fornisce infine indicazioni di diritto transitorio. La delega dovrà così prevedere che:

  • per i reati commessi prima dell'entrata in vigore delle disposizioni che saranno emanate in attuazione della stessa, il termine per la presentazione della querela decorrerà dal giorno dell'entrata in vigore, laddove la persona offesa abbia avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato;
  • ove il procedimento sia pendente, il P.M. o il giudice dovranno informare la persona offesa della facoltà di esercitare il diritto di querela, con decorrenza del termine, pertanto, dal giorno di tale informativa.
La delega per la riforma delle misure di sicurezza

Ancora il comma 16 dell'art. 1 della l. 103/2017 – alla lettera c) – prevede un altro blocco di deleghe al Governo al fine di riformare la disciplina delle misure di sicurezza, particolarmente in relazione ai presupposti di applicazione, anche con riferimento alle categorie dell'abitualità e della tendenza a delinquere. Altra parte della delega al governo riguarda la modifica delle misure di sicurezza per infermità mentale, anche per armonizzarle con la nuova normativa in tema di ospedali psichiatrici.

Se la prima parte della delega sembra restare ragionevolmente generica e risponde all'esigenza di aggiornare, in un sistema normativo che in tempi recenti si è arricchito di molte nuove ipotesi di reato e di molteplici meccanismi deflattivi, il ruolo, la natura e il funzionamento di categorie penalistiche da sempre esistenti, la seconda parte di questa disposizione appare decisamente specifica nelle sue ragioni e nei suoi scopi.

Da tempo si reclama un intervento normativo organico di riforma del sistema delle misure di sicurezza, strumento di risalente origine e di pacifica necessità, di fatto mai abbastanza ripensato alla luce della evoluzione dei principi e della giurisprudenza costituzionale come pure delle conoscenze medico scientifiche e della sensibilità sociale in ambiti come la malattia mentale.

Se, infatti, in questa materia, le questioni relative ai criteri scientifici e giuridici per l'accertamento della responsabilità penale in relazione alle categorie dell'infermità mentale e della pericolosità sociale sono state al passo con il progresso della scienza e della società, non altrettanto può dirsi del complesso normativo che disciplina ciò che accade all'imputato una volta dichiarato non responsabile e socialmente pericoloso; quasi che si trattasse, da un lato, di questione complicata e complessa da sistemare e, dall'altro, di questione più pratica e di concreto trattamento degli internati negli ospedali psichiatrici giudiziari che non di principi penalistici e costituzionali.

I recentissimi interventi di riassetto degli O.P.G. (l. 9/2012 e d.p.c.m. 1 aprile 2008) nascono nel solco della giurisprudenza costituzionale della sentenza 253/2003 ma non colgono totalmente l'invito di quella sentenza a ripensare globalmente il sistema delle misure di sicurezza, con particolare riguardo a quelle previste per gli infermi di mente.

Sostanzialmente, si trasferisce la competenza a gestire l'esecuzione delle suddette misure e in particolare delle strutture ove esse sono eseguite (ex O.P.G.), limitando l'approccio di prevalente vigilanza e sicurezza (mini-O.P.G.) a quegli internati particolarmente pericolosi e accentuando l'approccio sanitario e curativo per tutti gli altri, ponendo anche l'accento sulle possibili distorsioni del sistema di revisione della pericolosità in caso di insussistenza di strutture adeguate per il reinserimento degli internati non più pericolosi.

La riforma, che avvia verso il superamento degli O.P.G. mediante strutture sanitarie di tipo residenziale extra ospedaliero, evidenzia una chiara opzione culturale, giuridica e sanitaria del Legislatore verso un approccio multidisciplinare a valenza prevalentemente sanitaria, che limita le esigenze di vigilanza allo stretto indispensabile. In effetti, il superamento degli O.P.G. non richiede tanto la creazione dei mini-O.P.G. (Rems) in sostituzione degli stessi, quanto l'attivazione di percorsi di riabilitazione e cura che favoriscano le dimissioni e misure alternative alla detenzione, facendo diventare i Rems residuali e transitori. È, tuttavia, evidente che la questione spinosa nel suo complesso resta ben ferma. La disciplina che la legge penale prevede per il caso degli infermi di mente che commettano fatti che costituiscono oggettivamente reati è da sempre stata oggetto di dubbi di legittimità costituzionale e di interventi della Corte, sia sotto il profilo della necessaria attualizzazione della pericolosità sociale sia sotto quello della legittimità della previsione obbligatoria del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, dubbi rafforzati dall'evoluzione sul piano sociale, medico e legislativo dell'approccio di cura alla malattia psichiatrica (l. 180/1978).

Di fatto, gli ospedali psichiatrici giudiziari, dopo l'abolizione dei “manicomi” sono rimaste le uniche strutture chiuse per la cura degli infermi psichici. La specificità delle misure di sicurezza sta nel fatto di rivolgersi a soggetti infermi di mente che, dunque, non sono per nulla responsabili di ciò che fanno e dunque non possono essere destinatari di misure in alcun modo punitive bensì solo terapeutiche dello stesso genere di quelle rivolte agli infermi psichici in generale. D'altra parte, la pericolosità sociale di questi soggetti, concretizzatasi nei fatti commessi e valutata prognosticamente come probabilità di commettere nuovamente in futuro fatti reato della specie di quelli già commessi, rende possibile l'applicazione di misure contenitive.

Le misure di sicurezza, dunque, in un ordinamento costituzionale ispirato al principio personalistico (art. 2 Cost.) intanto si giustificano in quanto rispondano all'equilibrio tra le due esigenze, collegate e inscindibili, della cura e tutela dell'infermo e del contenimento della sua pericolosità sociale. Scelte legislative che consentissero di perseguire solo una di queste esigenze e non anche l'altra sarebbero costituzionalmente inammissibili. Altrettanto incostituzionali sarebbero anche interventi che tutelassero l'esigenza del contenimento dell'infermo e della sicurezza sociale a scapito delle esigenze di cura dello stesso: in altri termini, la misura della restrizione in un ospedale psichiatrico giudiziario (ora Rems) sarebbe da ritenere inammissibile ove risultasse dannosa per la salute dell'infermo, pur se emergesse che si tratta dell'unica misura atta a tutelare le esigenze di contenimento della sua pericolosità.

Gli interventi della Corte costituzionale, fino ad ora, sono stati fortemente limitati dal rischio che la mera caducazione di norme illegittime, senza un tempestivo intervento normativo, avrebbe creato in sostanza danni irreparabili e irrisolvibili in un sistema cosi delicato. Solo nel caso di imputati minorenni infermi di mente la Corte ha ritenuto di intervenire a salvaguardare almeno il principio di una differenziazione di trattamento rispetto ai maggiorenni escludendo, per loro, il ricovero negli ospedali psichiatrici giudiziari. La Corte costituzionale ha ritenuto altresì di dover intervenire a eliminare il rigido automatismo che imponeva al giudice di applicare la misura “detentiva” dell'ospedale psichiatrico giudiziario, nel caso di imputato maggiorenne ritenuto infermo di mente e socialmente pericoloso, in relazione alla commissione di un fatto costituente oggettivamente reato punito con pena edittale superiore nel massimo a due anni, precludendogli la possibilità di applicare la misura di sicurezza meno invasiva della libertà vigilata, anche nel caso in cui questa fosse ritenuta maggiormente adatta a perseguire entrambe le esigenze di cura e di contenimento di cui si è detto.

L'originario testo della delega contenuto nel d.d.l. è stato, in corso d'opera, integrato con l'espresso richiamo alla necessità – tenuto conto dell'effettivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e dell'assetto delle nuove Rems – della previsione della destinazione alle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza prioritariamente:

  • delle persone per le quali sia stato accertato in via definitiva lo stato di infermità al momento della commissione del fatto, da cui derivi il giudizio di pericolosità sociale;
  • dei soggetti per i quali l'infermità di mente sia sopravvenuta durante l'esecuzione della pena;
  • degli imputati sottoposti a misure di sicurezza provvisorie e di tutti coloro per i quali occorra accertare le relative condizioni psichiche, qualora le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati non siano idonee, di fatto, a garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi, con riferimento alle peculiari esigenze di trattamento dei soggetti e nel pieno rispetto dell'articolo 32 della Costituzione.
La delega in tema di casellario giudiziale

L'art. 1, al comma 18, della l. 103/2017 conferisce delega al Governo per la revisione della disciplina del casellario giudiziale. L'esigenza di una sistemazione della materia normativa nasce sia dalle recenti riforme in ambito penale e processualpenale sia dalla necessità di adeguare la normativa italiana ai principi e criteri contenuti nella normativa nazionale e nel diritto dell'Unione europea in materia di protezione di dati personali.

Il testo della delega approvato si articola su tre punti:

«a) rivedere la disciplina del casellario giudiziale adeguandola alle modifiche intervenute nella materia penale, anche processuale, e ai princìpi e criteri contenuti nella normativa nazionale e nel diritto dell'Unione europea in materia di protezione dei dati personali, perseguendo gli obiettivi di semplificazione e di riduzione degli adempimenti amministrativi, e provvedere all'abrogazione del comma 1 dell'articolo 5 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, nonché rivedere i presupposti in tema di eliminazione delle iscrizioni per adeguarli alla attuale durata media della vita umana».

La delega prevede pertanto l'abrogazione espressa dell'art. 5, comma 1, del d.P.R., 313/2002 (T.U. sul casellario giudiziale) in tema di eliminazione delle iscrizioni, per il quale «Le iscrizioni nel casellario giudiziale sono eliminate al compimento dell'ottantesimo anno di età o per morte della persona alla quale si riferiscono»;

«b) consentire alle pubbliche amministrazioni e ai gestori di pubblici servizi di ottenere dall'Ufficio del casellario centrale il certificato generale contenente le iscrizioni presenti nella banca dati al nome di una determinata persona, quando tale certificato è necessario all'esercizio delle loro funzioni, previamente riservando ad apposite convenzioni, stipulate con le amministrazioni interessate, la puntuale fissazione, per ciascun procedimento amministrativo di competenza, delle norme di riferimento, di limiti e condizioni di accesso volti ad assicurare la riservatezza dei dati personali, e degli specifici reati ostativi inerenti ogni singolo procedimento, nonché comunque di ogni ulteriore indicazione necessaria per consentire la realizzazione di una procedura automatizzata di accesso selettivo alla banca dati».

La lettera b) fornisce un'indicazione chiaramente finalizzata – pur con le necessarie garanzie – a semplificare e velocizzare la circolazione dei dati del casellario centrale nel “circuito”, in senso lato, della pubblica amministrazione;

«c) eliminare la previsione dell'iscrizione dei provvedimenti applicativi della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, prevedendo che sia il pubblico ministero a verificare, prima che venga emesso il provvedimento, che il fatto addebitato sia occasionale; rimodulare i limiti temporali per l'eliminazione delle iscrizioni delle condanne per fatti di modesta entità, quali quelle irrogate con decreto penale, con provvedimento della giurisdizione di pace, con provvedimento applicativo della pena su richiesta delle parti, per pene determinate in misura comunque non superiore a sei mesi, in modo tale da favorire il reinserimento sociale con modalità meno gravose».

Il terzo punto – verosimilmente quello di maggiore interesse e rilevanza – rappresenta di fatto un'“esplicazione” diretta dei principi generali del punto primo, laddove si prevede un adeguamento della disciplina del casellario giudiziale alle modifiche intervenute nella materia penale, anche processuale.

Sotto questo profilo, la questione da affrontare sembra richiamare principalmente la recente introduzione nel sistema normativo italiano dell'archiviazione per tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) in merito alla quale, non a caso, uno degli argomenti maggiormente discussi è stato ed è ancora quello relativo ad alcuni effetti negativi dell'istituto per l'indagato o l'imputato nei cui confronti venga richiesta la non punibilità per tenuità del fatto. La portata potenzialmente deflattiva del nuovo istituto va evidentemente bilanciata con gli effetti negativi che esso comporta comunque per l'indagato o per l'imputato e da questa comparazione possono essere tratte delle conseguenze di tipo sistematico. Principale effetto negativo che potrebbe discendere dalla pronuncia di tenuità del fatto ai sensi dell'art. 131-bis c.p. riguarda appunto l'iscrizione della relativa decisione nel casellario giudiziale, prevista espressamente dallo stesso d.lgs. 28/2015, il cui articolo 4 ha modificato l'art. 3, c. 1, lett. f) del d.P.R. 313/2002, affinché le decisioni di non punibilità per tenuità del fatto rientrassero appunto tra quelle da iscrivere nel certificato penale:

Le questioni poste in dottrina riguardano in parte le sentenze di proscioglimento per tenuità del fatto, in relazione al fatto che esse possono essere revocate ex art. 673, c. 2 c.p.p. ma mai formare oggetto di un'istanza di revisione. Tuttavia le discussioni più accese, riguardanti l'iscrivibilità o meno delle decisioni di archiviazione per tenuità del fatto, siano esse decreti o ordinanze, hanno visto la dottrina divisa alla luce di alcune insormontabili considerazioni, su due fronti opposti: coloro che ne hanno dedotto la non iscrivibilità delle decisioni di archiviazioni anzidette e coloro che, ritenendo insuperabile il dato letterale della relazione della commissione ministeriale, sollevano possibili dubbi di costituzionalità in merito alla violazione degli artt. 24, comma 2, Cost., per la mancata difesa nei confronti degli effetti negativi della decisione in oggetto; degli artt. 111 e 117, comma 1, Cost. per violazione della norma interposta dell'art. 6 Cedu, restando sacrificato il “diritto al processo” dall'impossibilità di impugnare in alcun modo il merito della decisione di archiviazione e, da ultimo, dell'art. 27 Cost. con la sua presunzione di non colpevolezza valida fino a quando questa non sia dichiarata con sentenza di condanna definitiva.

In effetti, con riferimento in particolare alla questione relativa alla necessità o meno di iscrivere nel casellario le decisioni di archiviazione, siano essi decreti o ordinanze, per tenuità del fatto, va considerato che il principale effetto negativo per l'indagato, sta nel fatto che questa eventuale iscrizione contribuisce a definire i parametri di concedibilità del beneficio sotto il profilo della “occasionalità” o comunque non abitualità della condotta.

Al riguardo, si deve considerare che il primo criterio per valutare la concedibilità dell'istituto è il certificato penale intonso e se il d.lgs. 28/2015 abbia espressamente previsto alcune conseguenze in seguito al riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Come visto, l'art. 4 d.lgs. 28/2015, in modifica del d.P.R. 313/2002 prevede l'iscrizione nel casellario giudiziale anche dei provvedimenti che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell'art. 131-bis c.p. (iscrizione eliminabile trascorsi dieci anni dalla pronuncia del provvedimento giudiziario). Lo scopo è evidentemente quello di “registrare” le decisioni che attestano la non punibilità per tenuità del fatto, per verificare il requisito della “non abitualità” previsto dall'art. 131-bis, comma 3, c.p., che è escluso nel caso in cui l'indagato/imputato abbia commesso reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità.

Il medesimo art. 4 d.lgs. 28/2015 ha introdotto anche agli artt. 24, comma 1, e 25, comma 1, d.P.R. 313/2002, la lettera f-bis), che esclude che siano riportate nel certificato generale e nel certificato penale del casellario giudiziale richiesti dai privati le iscrizioni riguardanti eventuali provvedimenti giudiziari che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell'art. 131-bis, quando le relative iscrizioni non sono state eliminate.

Al proposito, da un lato si è sostenuto che l'abitualità del comportamento quando sono stati commessi più reati della stessa indole, ostativa all'operatività della causa di non punibilità, dovrebbe essere intesa con riferimento all'ipotesi che si tratti di più reati oggetto del procedimento in corso o comunque più reati della stessa indole giudicati nello stesso procedimento, vi sia o meno continuazione, con esclusione di ipotesi di recidiva o anche di precedenti giudiziari relativi a reati della stessa indole oggetto di precedenti accertamenti giudiziari definitivi. In differenti prospettive, ciò non sarebbe sostenibile, proprio per la ratio della modifica legislativa che prevede l'iscrizione nel casellario dei provvedimenti che hanno dichiarato la non punibilità.

Tirando le somme di questo punto cruciale dell'iscrizione o meno dei provvedimenti di archiviazione per tenuità del fatto, va rammentato che ogni iscrizione nel casellario giudiziale, configurando un precedente a carico di un soggetto, deve rispettare determinate garanzie. Ora, è evidente che sul punto vi è grande differenza tra iscrivere nel casellario la sentenza di proscioglimento o di assoluzione per tenuità del fatto e iscrivere anche il provvedimento di archiviazione in base all'art. 131-bis c.p.

Quest'ultimo, inevitabilmente, è emesso, su richiesta del pubblico ministero, in una situazione investigativa molto diversa rispetto alla sentenza di proscioglimento o di assoluzione e questo naturalmente incide sul potenziale effetto deflattivo dello strumento. Perché questo si verifichi, infatti, è necessario ipotizzare un'ampia possibilità di ricorrere a questo strumento anche nel caso di indagini che, ovviamente, conducono a un quadro di accertamento incompleto rispetto a quello che risulterebbe in fase dibattimentale; sicché, fare del fatto oggetto della richiesta di archiviazione un “precedente” anche solo ai fini della valutazione dell'abitualità del comportamento rilevante ai fini della successiva applicabilità della causa di non punibilità lascia molti dubbi. Inoltre, va tenuto in conto che l'indagato, nel caso in cui sia richiesta l'archiviazione per tenuità del fatto nei suoi confronti, ha certo modo di opporsi ma non può tecnicamente rifiutare la decisione. Con ciò dunque egli verrebbe a essere gravato di un provvedimento che ha rilevanti conseguenze negative per lui senza uno strumento per rifiutarlo e senza diritto a ottenere un vaglio dibattimentale per accertare il fatto.

È vero che nella relazione della Commissione ministeriale che ha redatto lo schema del decreto legislativo si legge per due volte che il provvedimento di archiviazione deve essere iscritto nel casellario giudiziale ma in concreto il testo finale del decreto legislativo lascia molti dubbi. Le stesse modifiche apportate al d.P.R. 313/2002 parlano di provvedimenti definitivi e permangono serie perplessità sulla qualificazione in termini di provvedimento definitivo dell'archiviazione. Non si tratta, infatti, di un provvedimento passato in giudicato e, se certo non è soggetto a impugnazione (nel merito, potendo l'ordinanza di archiviazione essere soggetta a ricorso per cassazione per motivi processuali), non può senz'altre discussioni equipararsi il provvedimento non soggetto a impugnazioni tout court a quello non più soggetto a impugnazione, come indicato nella lettera della legge.

Altro elemento che conferma le legittime perplessità in proposito, deriva dall'art. 236 c.p.p. che, tra i documenti acquisibili per formulare il giudizio sulla personalità dell'imputato, include i certificati del casellario giudiziale ma esclude i decreti di archiviazione, proprio perché il decreto di archiviazione, a differenza della sentenza divenuta irrevocabile, non ha natura giurisdizionale e non contiene statuizioni o accertamenti processualmente certi (Cass.pen., Sez. I, 18 luglio 2000, n. 8881)

La delega di cui al comma 16, per altro, non si limita a prevedere l'eliminazione della previsione di iscrizione dei provvedimenti applicativi della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto. Specificamente stabilisce – senza precisare come e in quali termini – che sia il P.M. «a verificare, prima che venga emesso il provvedimento, che il fatto addebitato sia occasionale». Dovrebbe pertanto venire meno l'automatismo attualmente previsto dall'ultima parte dell'art. 4 , lett. f), d.P.R. 313/2002.

L'adeguamento della normativa in materia di casellario al diritto dell'unione in tema di privacy

L'altra pressante esigenza d'innovazione nel settore legislativo in materia di casellario giudiziale nasce, come detto, dalla normativa europea in tema di protezione della privacy.

Numerose, infatti, sono le novità in questo settore nell'ambito della normativa europea. Anzitutto va considerata l'introduzione dell'Ecris, il Sistema informativo del Casellario europeo (European criminal records information system) che consente l'interconnessione telematica dei casellari giudiziari e rende effettivo lo scambio di informazioni sulle condanne fra gli stati membri in un formato standard comune a tutti. Ecris dà attuazione alla Convenzione europea di mutua assistenza in materia penale del 20 aprile 1959 che ha previsto che ciascun paese aderente, nel condannare un cittadino di altro stato, informi della condanna il paese di cittadinanza. L'avviso di condanna ha lo scopo di conservare presso il casellario giudiziale di cittadinanza di una persona sia le condanne nazionali sia quelle estere.

Per la realizzazione del sistema Ecris il Consiglio dell'Unione europea ha approvato due specifiche decisioni quadro, la 2009/315/Gai e la 2009/326/Gai. L'ufficio del casellario italiano ha già - prima del recepimento delle decisioni quadro – realizzato l'interconnessione con il sistema Ecris, scambiando informazioni con tutti i paesi membri tecnicamente in grado di dialogare. Con una semplice richiesta al casellario di nazionalità, dunque, è stato possibile conoscere i precedenti penali di un cittadino europeo in ordine all'intero ambito comunitario. D'altro canto le necessità di scambio tra i casellari nazionali sono state tali che fin dal 2005 alcuni stati membri avevano realizzato, su base multilaterale, una rete sperimentale di collegamento (Network of Judicial Registers – NJR).

In quel sistema la magistratura riusciva ad avere informazioni circa i precedenti penali di un cittadino di altro paese collegato in meno di 48 ore. Il vero salto di qualità in materia era stato certamente quello della decisione quadro 2008/675/Gai con la quale il Consiglio stabiliva l'applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle sentenze di condanna tra stati membri dell'Unione in occasione di un nuovo procedimento penale. Nell'ambito, dunque, di un sistema di scambio di informazioni in materia giudiziaria sempre più attivo e sostanzialmente senza filtri, è ben comprensibile il senso della decisione quadro 2008/977/Gai per la definizione di norme comuni per la protezione di dati personali trattati nell'ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale trattandosi, dichiaratamente, di obiettivo che può essere realizzato meglio a livello dell'UE. Le indicazioni di questa decisione andranno poi parametrate alle più recenti innovazioni in materia di protezione dei dati personali che, nell'intento di unificare e omogeneizzare le varie normative in tema di privacy in un'unica legge, andranno a confluire nel General Data Protection Regulation (GDPR) che sostituirà la direttiva 95/46/EC e che, costituendo un Regolamento, sarà immediatamente esecutivo non necessitando di recepimento da parte degli stati membri. Con riguardo specifico al trattamento dei dati personali per finalità di giustizia e di polizia, è prevista l'adozione di una direttiva in sostituzione della citata decisione quadro 2008/977/Gai.

La direttiva si applicherà, una volta recepita dalle normative nazionali, a tutti i trattamenti di dati personali svolti in uno stato membro per finalità istituzionali da parte delle autorità giudiziarie e di polizia e non solo, com'era per la decisione quadro, allo scambio di dati fra autorità competenti degli stati membri e ai trattamenti successivi allo scambio di dati in tale contesto. I principi della direttiva sono comuni a quelli del Regolamento GDPR: l'aggiunta di concetti fondamentali quali dato genetico, dato biometrico; il principio dell'applicazione del diritto UE anche ai trattamenti di dati personali non svolti nell'Ue se relativi all'offerta di beni o servizi a cittadini UE o tali da consentire il monitoraggio dei comportamenti di cittadini Ue; il diritto degli interessati alla portabilità del dato e all'oblio; scompare altresì l'obbligo per i titolari di notificare i trattamenti di dati personali ed è invece previsto quello di nominare un "data protection officer" per tutti i soggetti pubblici e per i soggetti privati sopra un certo numero di dipendenti; è introdotto il requisito del "privacy impact assessment" e l'obbligo per tutti i titolari di notificare all'autorità competente le violazioni dei dati personali ("personal data breaches"); si potenziano, infine, i poteri delle autorità nazionali di controllo sia sotto il profilo del parere che sarà necessario ad esempio al momento di adottare normative nazionali che incidono sull'argomento, sia sotto il profilo delle sanzioni che potranno essere inflitte in caso di violazioni.

Contemporaneamente, sono state potenziate le caratteristiche d'indipendenza delle competenti autorità nazionali. A questi parametri, dunque, il governo, in sede di delega, dovrà uniformare la normativa nazionale in tema di casellario giudiziale.

In conclusione

Quanto alle modifiche specificamente apportate al codice penale dalla normativa in oggetto, va detto che non si tratta soltanto delle previsioni cui al capo I del precedente progetto (già rubricato «Estinzione del reato per condotte riparatorie e modifiche ai limiti di pena per i delitti di scambio elettorale politico-mafioso, furto e rapina») quanto delle nuove disposizioni in tema di prescrizione, originariamente contenute in un autonomo progetto, d.d.l. S1844, poi confluito nel d.d.l. 2067 nell'aprile del 2016.

Il complesso di modifiche al codice penale previste nella l. 103/2017 prosegue nel perseguire gli obiettivi che parrebbero aver permeato tutte le riforme legislative più recenti.

Da un lato, infatti, sono incrementate le garanzie difensive sotto il profilo della quantità e della potenzialità degli strumenti a disposizione dell'imputato per incidere sul corso del procedimento, favorendo nettamente interventi ed esiti che tuttavia non confliggono – e anzi contribuiscono a perseguire – la durata ragionevole del procedimento, bilanciando il più possibile i vari interessi in gioco. Su altro piano, nella prospettiva di rafforzare l'efficacia rieducativa della pena e di deflazionare, per quanto ritenuto opportuno e ragionevole, il carico delle fasi finali del procedimento penale, sono previsti strumenti atti a favorire la fuoriuscita dal circuito penale degli imputati per i reati ritenuti meno gravi, attraverso attività riparatorie.

Vengono così ancora una volta mutuati principi o istituti dal processo minorile, come era già successo con l'introduzione della messa alla prova prevista nella l. 67/2014 e si conferma la netta preferenza del Legislatore per una differenziazione tra reati gravi – puniti necessariamente con la reclusione e meritevoli di tutte le fasi e di tutti i gradi di giudizio, in un quadro sempre più arricchito da garanzie difensive tese all'accertamento della verità processuale senza sconti o superficialità – e reati di minore gravità, per i quali è auspicabile una rapida conclusione dell'iter processuale.

Ciò sia per non gravare sui costi della giustizia – i cui sforzi possono così concentrarsi sui reati più gravi – sia per non pregiudicare, oltre il ragionevole e il giusto, quella categoria di imputati che avrebbero tutto l'interesse a uscire dal circuito penale senza conseguenze durature, corrispettivamente fornendo una adeguata riparazione alla persona offesa.

È stato, al riguardo, inasprito il trattamento sanzionatorio per alcune ipotesi delittuose ritenute tali da suscitare allarme sociale per la loro gravità oggettiva o per la loro sempre maggiore diffusione e incidenza su ampi strati della cittadinanza, di solito i più indifesi, prevedendosi un aumento della pena edittale ovvero modifiche alla tecnica di bilanciamento di alcune circostanze aggravanti. In tal senso vanno lette anche le deleghe al governo per la riforma del codice penale, specie quelle in tema di procedibilità per alcuni reati, che favoriscono la possibilità di composizioni extraprocessuali per una serie di reati qualificati come di minor allarme generale sociale e comunque nella disponibilità delle persone offese.

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