Diffamazione a mezzo stampa e diritto di critica giornalistica
06 Ottobre 2016
Massima
La critica giornalistica deve svilupparsi su fatti veri ma è libera nell'elaborazione e negli approdi, così come nella selezione dei fatti reputati rilevanti, purché i fatti commentati non diventino il pretesto di una gratuita aggressione alla sfera personale. Il caso
Il giornalista Giacomo Amadori fu l'autore di un articolo che venne pubblicato sul settimanale Panorama nel febbraio del 2005 con il titolo Ritratto di famiglia in un inferno che commentava fatti della vita privata di Adriano Celentano, della moglie Claudia Moroni e dei loro familiari. La Corte d'appello di Milano, con sentenza del 20 maggio 2015, aveva riformato la sentenza del tribunale, che aveva condannato l'imputato ad un risarcimento di euro 40.000, assolvendo lo stesso dal reato di diffamazione a mezzo stampa ex art. 595 c.p. perché il fatto non costituiva reato. La stessa aveva distinto le responsabilità collegate al contenuto dell'articolo e quelle collegate al titolo dello stesso. Per quanto riguardava il contenuto, aveva ritenuto che l'articolo fosse sia di cronaca che di critica in quanto i fatti riportati, inerenti la vita privata degli stessi, non solo fossero già stati resi noti per il tramite di precedenti interviste rilasciate dai figli delle persone offese, ma soprattutto che fossero fatti veri. Pertanto l'articolo rispettava, non solo la verità dei fatti ma anche la rilevanza pubblica in considerazione della notorietà dei soggetti interessati e la continenza del linguaggio. Quanto al titolo, nonostante fosse ritenuto inutilmente offensivo, escludeva la responsabilità del giornalista in quanto non vi erano prove del fatto che lo stesso avesse contribuito alla sua formazione. Avverso questa sentenza proponeva ricorso il difensore delle parti civili adducendo tre motivi: la violazione degli artt. 51 e 595 c.p. e degli artt. 13 e 21 della l. 47/1948, poiché la descrizione della vita privata di Adriano Celentano era stata fatta in maniera totalmente travisata con il solo scopo di dare al lettore una visione distorta della sua realtà familiare traendo da singoli episodi, conclusioni di carattere generale; l'esclusione della responsabilità dell'Amadori per la formazione del titolo per mancanza di prove era totalmente ingiustificata in quanto sarebbe dovuto essere incombente dell'imputato dimostrare che lo stesso fosse stato creato a sua insaputa dalla redazione del giornale; e, in ultimo, lamentava che, a causa dell'intervenuta prescrizione del reato prima della sentenza, la Corte di Appello avrebbe dovuto pronunciarsi ex art. 129 c.p.p. facendo salve le statuizioni civili. La suprema Corte con la sentenza di cui si tratta, ha rigettato il ricorso condannando ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali. La questione
Le questioni prese in esame sono le seguenti: quali sono i limiti della critica giornalistica e i parametri di valutazione della falsità di una notizia ai fini della sussistenza del reato di diffamazione a mezzo stampa. Le soluzioni giuridiche
Tra le cause di giustificazione previste dal codice penale, vi è l'esercizio di un diritto ex art. 51 c.p. Tra le ipotesi più significative di esercizio del diritto, rientrano il diritto di cronaca e il diritto di critica che sono due delle espressioni della libertà di manifestazione del pensiero riconosciuta dall'art. 21 della Costituzione che sancisce che tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensieri con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Il diritto di cronaca è il diritto di informare il pubblico tramite la stampa o la televisione o altri mezzi di comunicazione, sui fatti che avvengono, senza violare i limiti previsti dall'ordinamento giuridico. Il diritto di critica consiste nell'espressione di un giudizio o di un'opinione che ha come scopo quello di comunicare un giudizio su fatti accaduti, idee o atteggiamenti altrui. È legittimo quando concorrono alcune condizioni: l'utilità sociale dell'informazione, cioè i fatti trattati devono essere di pubblico interesse che sussiste se la notizia è socialmente utile, restano escluse le notizie relative alla vita privata di un soggetto o offensive delle sua reputazione, se esse non contribuiscono alla formazione di un'opinione pubblica e non costituiscono oggettivamente interesse per la collettività, se hanno cioè come scopo, il puro e semplice pettegolezzo o la curiosità pubblica (limite della pertinenza); la verità dei fatti esposti, che non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato; il giornalista ha, quindi, l'obbligo di controllare scrupolosamente l'attendibilità delle fonti e l'esattezza della notizia (limite della verità oggettiva); la forma "civile" dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione, cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, in ogni caso rispettosa della dignità umana e la scelta dei termini deve essere moderata (il limite della continenza), il rispetto del quale integra la scriminante del diritto di critica ex art. 51 c.p. Il diritto di critica si differenzia essenzialmente da quello di cronaca, in quanto, a differenza di quest'ultimo non si concretizza nella narrazione di fatti, bensì nell'espressione di un giudizio e, più in generale, di un'opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica non può che essere fondata su un'interpretazione necessariamente soggettiva dei fatti. Ne deriva che quando il discorso giornalistico ha una funzione prevalentemente valutativa, non si pone un problema di veridicità delle proposizioni assertive ed i limiti scriminanti del diritto di critica sono solo quelli costituiti dalla rilevanza sociale dell'argomento e dalla correttezza di espressione, con la conseguenza che detti limiti sono superati ove l'agente trascenda in attacchi personali, diretti a colpire su un piano individuale la sfera morale del soggetto criticato, penalmente protetta. In particolare, in tema di diffamazione a mezzo stampa può essere riconosciuta l'esimente dell'esercizio del diritto di cronaca qualora vengano dal cronista rispettate le seguenti condizioni: a) che la notizia pubblicata sia vera; b) che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti; c) che l'informazione venga mantenuta nei limiti della obiettività (Cass. pen., Sez. V, n. 4009/2005). Questi sono i principi ampiamente elaborati dalla giurisprudenza sui quali si fonda la decisione della Corte che qui stiamo esaminando. Poiché in tema di diffamazione a mezzo stampa, presupposto imprescindibile per l'applicazione dell'esimente dell'esercizio del diritto di critica è la verità del fatto storico posto a fondamento della elaborazione critica (Cass. pen., Sez. V, n. 7715/2015), la sentenza in esame puntualizza con chiarezza i casi in cui una notizia deve ritenersi non vera. In primo luogo, la suprema Corte sottolinea che una notizia può essere falsa se - pur avendo in sé un nucleo di verità - sia rappresentata in maniera incompleta, attraverso il ritaglio di elementi che caratterizzano e individuano il fatto, ovvero attraverso l'aggiunta di elementi ulteriori, partoriti dalla mente di chi commenta e critica il fatto stesso. Anche la "manipolazione" del dato costituisce, invero, una immutatio veri, rilevante sotto il profilo della diffamazione. Perché ciò accada occorre, però, che il risultato complessivo di questa operazione consista nello stravolgimento del "fatto", inteso come accadimento di vita puntualmente determinato, riferito a soggetti specificamente individuati. Pertanto, non è sufficiente, perché possa dirsi sussistente una “manipolazione”, una valutazione negativa di fatti, resa possibile dalla mancata considerazione di altri dati, poiché in tal modo si confonderebbe il travisamento del fatto con la critica dello stesso. Nel caso di specie, secondo la suprema Corte, non può sicuramente parlarsi di notizie non vere poiché il giornalista ha appreso le varie informazioni attraverso delle interviste rilasciate da parenti stretti delle persone offese e non è rilevante che non siano state prese in considerazione altre interviste che avrebbero potuto portare, ad avviso delle ricorrenti parti civili, ad un giudizio finale diverso sulla famiglia Celentano. In secondo luogo, la stessa Corte afferma che anche nelle indebite generalizzazioni può annidarsi il dolus malus della volontarietà lesiva, precisando, però, che è necessaria, per la rilevanza penale, una elaborazione mistificatoria, nel senso che occorre che fatti specifici, pur veri, siano valorizzati, in concreto, oltre le potenzialità lesive loro proprie, apparendo – quei fatti – solo il pretesto per attuare un'aggressione alla sfera morale della persona. In linea generale, poi, la sentenza in esame afferma che la diffamazione non può considerarsi consumata per il solo fatto di selezionare dei fatti accaduti nel tempo e scelti opportunamente da chi scrive in quanto, lo stesso, è libero di selezionare i fatti reputati rilevanti per l'illustrazione della personalità dei soggetti criticati nonché della realtà vissuta effettivamente degli stessi: la scelta da lui effettuata non è qualificabile in termini di realtà od obbiettività della rappresentazione (a meno di propalazione di dati falsi), bensì in termini di completezza, di equilibrio, di profondità e di intelligenza narrativa e valutativa: vale a dire, in termini non soppesabili col metro della corrispondenza al vero. Osservazioni
La Corte di cassazione, con detta sentenza, ha affrontato una situazione decisamente attuale e ha fissato i parametri che devono essere rispettati dai giornalisti per l'esercizio del diritto di critica in modo da non incorrere nel reato di diffamazione a mezzo stampa. Le affermazioni di principio contenute nella sentenza, si pongono sul solco della costante giurisprudenza, la quale ha affermato che, in tema di diffamazione, quando il discorso giornalistico ha una funzione prevalentemente valutativa, non pone un problema di veridicità di proposizioni assertive e i limiti scriminanti del diritto garantito dall'art. 21 Cost. sono solo quelli costituiti dalla rilevanza sociale dell'argomento e dalla correttezza di espressione. Sicché, il limite all'esercizio di tale diritto deve intendersi superato, quando l'agente trascenda ad attacchi personali, diretti a colpire, su un piano individuale, senza alcuna finalità di pubblico interesse, la figura morale del soggetto criticato, giacché, in tal caso, l'esercizio del diritto, lungi dal rimanere nell'ambito di una critica misurata ed obiettiva, trascende nel campo dell'aggressione alla sfera morale altrui, penalmente protetta (Cass. pen., Sez. V, n. 3477/2000). La stessa sentenza ha il merito di precisare in modo analitico le ipotesi in cui il discorso giornalistico si mantiene nell'ambito di una funzione valutativa, formulando, peraltro, criteri che potrebbero essere di incerta e diversificata applicazione, soprattutto alla luce del principio giurisprudenziale, secondo il quale l'esercizio del diritto di critica pur assumendo necessariamente connotazioni soggettive ed opinabili deve trovare riscontro in una corretta e veritiera riproduzione della realtà fattuale e, pertanto, non deve concretarsi in una ricostruzione volontariamente distorta della realtà, preordinata esclusivamente ad attirare l'attenzione negativa dei lettori sulla persona criticata (Cass. pen., Sez. V, n. 9373/2006). Solo un giudizio in concreto, adeguatamente motivato, potrà dire quando una scelta di determinati fatti, pur veri, in contrapposto ad altri anch'essi veri, ma intenzionalmente tralasciati, possa dirsi espressione di libera elaborazione propria del diritto di critica e non, invece, una ricostruzione volontariamente distorta della realtà. |