Modelli di salvaguardie procedurali per le vittime di violenza di genere nella coppia same-sex in Italia

Francesca Di Muzio
07 Luglio 2016

La direttiva 2012/29/Ue denominata anche direttiva Vittime ha fornito un'interpretazione inclusiva di tale nozione estendendola ai soggetti vulnerabili quali le vittime di discriminazione da orientamento sessuale, richiamando cosi gli Stati membri a modificare le proprie legislazioni nazionali conformandosi e allineandosi alle disposizioni contenute nella normativa sovrannazionale. Il presente contributo nasce dalla necessità di indagare la problematica della violenza domestica all'interno delle coppie dello stesso sesso in un ottica comparativa e multidisciplinare.
Abstract

Il presente contributo nasce dalla necessità di indagare la problematica della violenza domestica all'interno delle coppie dello stesso sesso in un ottica comparativa e multidisciplinare.

La posizione della vittima del reato nel panorama europeo e sovrannazionale

All'interno dello spazio giuridico europeo a partire dagli anni Ottanta si è avviato quel processo di riscoperta della vittima del reato considerata sino a quel momento la grande dimenticata della giustizia penale.

In effetti assistere le vittime di violenza nel processo penale è attività complessa che sempre richiede competenza ed impegno, nonché disponibilità e capacità di uscire dagli schemi tipici utilizzati e praticati dagli operatori processual-penalisti.

Quanto testé affermato costituisce un'esigenza particolarmente avvertita nei confronti di quei soggetti che per definizione assumono il nome di c.d. vittime vulnerabili.

Tale locuzione indica coloro che – per le caratteristiche soggettive (minore o infermo di mente,) e per tipologia di violenza subita – hanno riportato un trauma in conseguenza del reato e rischiano di essere indotte alla c.d. vittimizzazione secondaria, ovvero al patimento di un nuovo trauma causato dallo snodarsi della vicenda processuale e dalla connessa necessità di ripercorrere, nella dimensione del ricordo e del racconto l'evento della violenza subita.

Forte è l'esigenza di proteggere le cd. vittime vulnerabili dal e nel procedimento penale, specificando che la nozione di vulnerabilità si è progressivamente arricchita di maggiori e diversificati significati nel tempo sulla scorta della legislazione europea ed in particolare della Direttiva del Parlamento Europeo 2012/29/EU che istituisce nome minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, che sostituisce la Decisone quadro 2001/220/ GAI, la quale ha incluso nella nozione di vittima vulnerabile anche le persone LGBTI.

La direttiva 2012/29/Ue denominata anche direttiva Vittime ha fornito un'interpretazione inclusiva di tale nozione estendendola ai soggetti vulnerabili quali le vittime di discriminazione da orientamento sessuale, richiamando cosi gli Stati membri a modificare le proprie legislazioni nazionali conformandosi e allineandosi alle disposizioni contenute nella normativa sovrannazionale.

Ebbene, nelle diverse “fenomenologie” della violenza di genere, riscontriamo dinamiche relazionali violente anche tra persone dello stesso sesso (gay, lesbiche, transessuali)cosi come si riscontrano atti di violenza perpetrati da parte di soggetti estranei alla coppia.

Sotto quest'ultimo profilo le vittime subiscono il doppio stigma della violenza legata al genere di appartenenza e quella legata all'orientamento sessuale.

Tutte queste premesse inducono a ritenere che nell'ambito della tutela processual-penale si possa assimilare la coppia omosessuale alla coppia eterosessuale ricorrendo nella violenza di genere le stesse dinamiche di forza e di potere che si instaurano nella relazione uomo-donna. Invero, gli studi prevalentemente di origine anglosassone sul tema rilevano la presenza di violenza domestica all'interno delle relazioni di intimità nelle coppie omosessuali, lesbiche e trasgender, anche a volte in misura maggiore rispetto alle coppie eterosessuali. Tale fenomeno è legato a quella forma di potere e di controllo che si instaura nelle relazioni di intimità a prescindere dal genere di appartenenza.

Nel 2013 da una ricerca apparsa sul Journal of Interpersonal Violence si è evidenziato come la prevalenza di violenza domestica era maggiore nelle minoranze sessuali rispetto agli eterosessuali, in particolare per le donne bisessuali e gay. Quanto di recentemente emerso sotto un profilo squisitamente sociologico ha indotto il Legislatore italiano a novellare alcuni articoli del codice penale ed in particolare l'art. 612-bis c.p., Atti persecutori a norma del quale è previsto un aumento di pena se il reato è commesso da persona che sia o sia stata legata da una relazione affettiva alla persona offesa.

Cosi come è avvenuto per l'introduzione nel corpo dell'art. 572 c.p. relativo al reato di maltrattamenti in famiglia, della locuzione convivente, ciò al fine di estendere la tutela normativa a tutte le persone unite da un legame affettivo a prescindere dal matrimonio.

Invero, il concetto di persona della famiglia tradizionalmente veniva circoscritto ai coniugi, consanguinei, affini, adottati e adottanti, ora invece si propende per un'interpretazione estensiva in cui rientrano dunque i soggetti legati da qualsiasi rapporto di parentela, a patto che vi sia convivenza.

Dal carattere neutro della disposizione codicistica di cui all'art.612 c.p., è possibile, desumere che per rapporti affettivi bisogna intendere tutte le relazioni sentimentali, e dunque anche quelle tra persone dello stesso sesso, cosi come dal carattere neutro della locuzione richiamata di cui all'art. 572 c.p. è possibile desumere che per convivente debba intendersi anche la persona omosessuale, lesbica, bisessuale e trasgender.

Mentre, appare chiaro che in ambito civilistico, riscontriamo un'impossibilità di equiparare le unioni omosessuali al matrimonio, concepito necessariamente tra etero, perché la coppia legata al vincolo del matrimonio è concepita in termini necessariamente eterosessuali (anche se è molto diffusa l'aspirazione al riconoscimento del diritto al matrimonio a persone dello stesso sesso), e il rifiuto di equiparare (anacronisticamente) il concetto di famiglia a ciò che oggigiorno la società riconosce come famiglia (un consorzio di persone che assume le connotazioni di una comunità di affetti, a prescindere dal genere sessuale dei conviventi), se ha una (dubbia) valenza e può “giustificare” una differenza di trattamento sul piano civilistico, di contro non impedisce, in ambito penale, di assimilare la coppia di fatto omo alla coppia di fatto etero e di estendere le misure di protezione a tutela delle vittime della violenza fondata sul genere a coloro che hanno instaurato una stabile relazione omosessuale − ancora esistente o esaurita − del tutto identica a quella delle coppie eterosessuali (ai casi, ad esempio, di violenza esercitata da una donna lesbica nei confronti della sua convivente o ex convivente, o da un uomo nei confronti del suo convivente o ex convivente omosessuale).

Tale apertura, frutto del lavoro della dottrina e della giurisprudenza ma anche del Legislatore sovranazionale permette agli operatori del diritto di estendere le tutele previste dal d.lgs. 93/2013 c.d. legge sul femminicidio anche alle coppie omosessuali intendendo per “genere” un concetto più ampio slegato dal dato meramente biologico.

Ad oggi il codice di rito italiano non risulta pienamente conforme agli standard di protezione delle vittime richiesti dalle fonti internazionali ove invece la protezione penale delle vittime di violenza è indicata come una priorità dell'Unione europea.

Ciò reso ancora più evidente dalla struttura stessa del processo penale improntato alla tutela e alle garanzie difensive dell'imputato, basti pensare all'art. 111 Cost. e all'art. 6 Cedu ed alla giurisprudenza stessa della Corte europea dei diritti dell'uomo.

A questo si aggiungono le indiscutibili difficoltà di accesso alla giustizia penale che incontrano le vittime quando appartengono alla categoria di persone LGBTI a partire dal mancato riconoscimento da parte della vittima stessa della violenza subita, alle criticità connesse allo sporgere la denuncia-querela, fino a quelle rappresentate dall'audizione nel dibattimento. Barriere queste che impediscono un'efficace tutela penale e protezione dalle violenze subite, generate dal contesto sociale di appartenenza, dal pregiudizio e dal giudizio della comunità, dalla “visibilità” rispetto all'orientamento sessuale, dalla scarsa preparazione degli operatori del settore, dalla carenza di servizi sociali dedicati e professionalmente preparati sulla tematica.

In proposito la direttiva Vittime evidenzia come negli stati membri la circostanza per cui le vittime non esercitano o non possono esercitare pienamente i propri diritti, è rappresentato dalla mancata denuncia di molti reati che queste patiscono. Nelle quattro indagini su vasta scala condotte dalla FRA (Agenzia per l'Unione europea per i diritti fondamentali) sulla vittimizzazione delle minoranze, sulla vittimizzazione delle persone LGBTI ecc., i risultati indicano in modo concorde ed inequivocabile che molte vittime non denunciano i reati alla polizia, anche per la scarsa preparazione degli agenti stessi.

Le criticità nell'accesso alla giustizia per le persone LGBTI sono connesse ai tradizionali ruoli di genere che hanno cosi profondamente influenzato il modo di vedere e studiare la violenza che nell'immaginario collettivo il maltrattante continua ad essere identificato in un individuo di genere maschile, mentre la vittima continua a essere riconosciuta in una donna.

La legislazione italiana: le norme processual-penalistiche a tutela delle persone LGBTI

Nonostante la disciplina nazionale appaia a tratti lacunosa e disorganica, allo stesso tempo segna una significativa evoluzione in termini di tutela delle vittime rispetto al passato, accanto al microsistema delle misure cautelari, una particolare attenzione viene data alla testimonianza della vittima vulnerabile nell'incidente probatorio speciale fino al dibattimento, proprio in relazione alle modalità di audizione protetta.

Per quel che concerne il microsistema cautelare, un passo in avanti si è raggiunto con l'introduzione degli artt. 282-bis c.p.p. e 282-ter. c.p.p., utili strumenti di tutela delle vittime di stalking, maltrattamenti familiari, violenza domestica, che in un contesto caratterizzato dalla convivenza fra la vittima e il soggetto maltrattante (marito o convivente ecc), debbono essere estesi anche alla tutela delle relazioni same –sex.

Con la loro introduzione il sistema di protezione delle vittime si è notevolmente rafforzato, riscontrandosi nella prassi delle procure della Repubblica più virtuose un ampio utilizzo delle stesse.

Tale sistema di protezione ante processo, in ambito processul-penalistico, trova il proprio speculare nel sistema di protezione civilistico della famiglia, ovvero nelle norme contenute nel codice civile e di procedura civile a tutela delle persone contro gli abusi familiari.

Gli artt. 342-bise 342-ter c.c. prevedono gli ordini di protezione contro gli abusi familiari, che il giudice civile può adottare, per la durata massima di un anno quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell'altro coniuge o convivente, sulla base quindi dell'accertamento di un oggettivo nesso causale fra la condotta del soggetto attivo e il pregiudizio subito dal soggetto passivo: ordina mirati alla cessazione della condotta, all'allontanamento dell'autore dalla casa familiare, alla prescrizione di non avvicinarsi ai luoghi di abituale frequentazione dell'istante, all'assistenza sociale ed economica di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati.

Per quel che concerne le modalità di audizione occorre, invece, sottolineare che a livello europeo si era posto il problema delle condizioni in cui le vittime nel processo possono essere ascoltate. Si tratta di una questione chiaramente avvertita in sede internazionale ed affrontata con la legge comunitaria del 2009 (l. 96/2010) che prevedeva espressamente l'obbligo per il governo di introdurre nel codice di procedura penale una o più disposizioni che riconoscano alla persona offesa dal reato, che sia da considerare per ragioni di età, condizione psichica o fisica, orientamento sessuale, particolarmente vulnerabile la possibilità di rendere al propria testimonianza secondo modalità idonee a proteggere la sua personalità e a preservarla dalle conseguenze della sua deposizione in udienza. Rendere testimonianza nel procedimento penale su fatti e circostanze legati all'intimità della persona e connesse alle violenze subite è sempre esperienza difficile e psicologicamente pesante e traumatica, specialmente se poi chi è chiamato a deporre è persona vulnerabile e più di altre esposta ad influenze e condizionamenti esterni.

In questi casi l'adozione di speciali modalità “protette” di assunzione della prova quanto a luogo, ambiente, tempo nonché a regole concrete per procedere all'esame, non solo non contrasta con le esigenze proprie del processo ma, al contrario, concorre altresì ad assicurare la genuinità della prova medesima suscettibile di essere pregiudicata ove si dovesse procedere ad assumere la testimonianza con il sistema ordinario.

Pertanto, il nostro codice, recependo la legge comunitaria ha previsto che nel corso delle indagini preliminari e nella fase dell'udienza preliminare, ove si proceda per il reato di maltrattamenti, per i delitti più gravi in materia di libertà sessuale, di sfruttamento della prostituzione minorile, di stalking, di riduzione in schiavitù e tratta di persone la testimonianza del soggetto minore o di persona maggiorenne può essere assunta mediante incidente probatorio anche al di fuori delle ipotesi di non rinviabilità dell'atto: il c.d. incidente probatorio liberalizzato(art. 392, comma 1-bis, c.p.p.).

L'udienza in questi casi al fine di evitare al minore o al soggetto maggiorenne l'esperienza dolorosa del contesto dibattimentale può svolgersi anche in un ambito diverso dal tribunale, avvalendosi di strutture e di personale specializzato presso l'abitazione della vittima. E ciò all'evidente fine di proteggere la fonte dichiarativa debole dal trauma psicologico di una reiterata e usurante deposizione in sede dibattimentale.

Nel dibattimento la norma di cui all'art. 472, comma 3-bis, c.p. stabilisce i casi in cui il processo debba essere celebrato a porte chiuse, mentre l'art. 498, comma 4-ter, c.p.p. prevede che per i reati di violenza sessuale, tratta delle persone, stalking nel caso di soggetto minore o maggiorenne infermo di mente l'esame possa avvenire tramite l'uso di determinate tecniche quali il vetro specchiato e/o impianto citofonico.

In tal senso la normativa europea, ed in ultimo la Convezione di Istanbul statuisce all'art. 56 lett ì) che gli stati membri adottino le misure affinché le vittime possano testimoniare in aula senza essere fisicamente presenti grazie al ricorso a tecnologie di comunicazione adeguate, quale la sempre più invocata anche nel nostro ordinamento, videoconferenza che eviterebbe altresì il contatto tra vittima ed aggressore.

Ebbene l'utilizzo effettivo di tali modalità all'interno delle aule giudiziarie permetterebbe alle persone LGBTI di affrontare più serenamente il procedimento penale non essendo esposte “pubblicamente” alla visibilità legata al loro orientamento sessuale, al giudizio, al pregiudizio e alle difficoltà di dover riferire circostanze connesse alla sfera dell'intimità omosessuale, lesbica,bisessuale, transessuale ecc.

Per tale motivo appare, quanto mai necessario che l'approccio alla violenza di genere per le persone LGBTI sia effettuato attraverso una metodologia condivisa e multidisciplinare tra tutte le aree di intervento e gli addetti ai lavori, al fine di offrire l'assistenza più consona alla vittima, prevedendo dei percorsi ad hoc di uscita dalla violenza che non possono prescindere da un'attenta analisi della problematica, ancora in Italia poco esplorata ed dalla formazione degli operatori.

L'introduzione di un sistema efficace di formazione per gli operatori, previsto dall'articolo 25 della direttiva Vittime, rappresenta un obiettivo a lungo termine che gli stati europei devono realizzare. L'Agenzia per L'Unione europea per i diritti fondamentali ha riscontrato che alcuni Stati membri concentrano l'attenzione sulla formazione per gruppi specifici di vittime; altri mettono a disposizione percorsi di formazione ad hoc. Quest'ultima risulta essere quanto mai indispensabile per consentire un'efficace protezione e assistenza per le vittime nonché una effettiva partecipazione al procedimento penale, in quanto riconoscere la violenza domestica all'interno delle coppie gay e lesbiche sfida i tradizionali ruoli di genere e il consueto modo di intendere la violenza come un problema che riguarda, in modo esclusivo, le donne eterosessuali. Del resto, gli studi recenti sembrano sempre più concordi nel ritenere che l'elemento chiave del maltrattamento non sia rappresentato dal genere biologico o dall'orientamento sessuale dell'aggressore quanto, piuttosto, dal suo bisogno di controllare la vittima e subordinarla al suo potere. Ecco, quindi, che una quantità̀ di dati empirici sempre maggiore mette in evidenza come la violenza domestica si manifesti fra partner dello stesso sesso, secondo dinamiche in cui le somiglianze rispetto a quanto accade all'interno delle coppie eterosessuali sono certamente superiori delle differenze. È innegabile, tuttavia, che parlare di violenza domestica all'interno delle coppie gay e lesbiche potrebbe esporre al rischio di rinforzare lo stereotipo, omofobico ed erroneo, secondo cui le relazioni omosessuali sono per loro natura sbagliate. Eppure, nonostante gli indubbi passi avanti, nel senso di un adeguamento del nostro sistema processuale agli standard imposti dalla normativa europea, resta tuttavia la sconcertante sensazione che le più serie criticità della legislazione nazionale – nei casi di processi con vittima vulnerabile – siano essenzialmente legate ed esasperate dall'irragionevole durata del processo italiano.
Qualunque soluzione legislativa deve infatti fare i conti con i tempi del processo che ne fanno per definizione un processo “non equo” sia per la persona offesa che per l'imputato: è chiaro quindi che le gravissime disfunzioni conseguenti all'eccessiva lentezza dei processi indeboliscono sensibilmente il diritto delle vittime ad ottenere giustizia.
Se infatti il procedimento penale è esageratamente lungo, la vittima del reato non solo può perdere interesse alla definizione del giudizio ma può anche sentirsi abbandonata da uno Stato che promette tutela e non la assicura in tempi ragionevoli. In effetti alla persona offesa è notificato il rinvio a giudizio dell'imputato, talora dopo anni da quando è rimasta vittima del reato anche se con le modifiche apportate dal decreto femminicidio all'art. 132-bis disp. att. c.p.p., il testo novellato, prevede ora (alla lett. a.-bis)), fra i reati per i quali è prevista priorità assoluta nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi, anche quelli previsti dagli articoli 572 c.p. (maltrattamenti) da art. 609-bis a 609-octies c.p. (reati contro la libertà sessuale) e art. 612-bis c.p. (atti persecutori).

Cenni in tema di accesso al gratuito patrocinio e di risarcimento danni delle vittime di reato

Un cenno infine merita anche la materia del gratuito patrocinio a favore delle vittime
in quanto il decreto femminicidio, in materia di ammissione al patrocinio a spese dello Stato per non abbienti, ha modificato il comma 4-ter dell'art. 76 del Testo Unico sulle spese di giustizia approvato con d.P.R. 115/2002, che era stato inserito con legge 38/2009, di conversione del d.l. 11/2009; la disposizione riguarda i casi nei quali, in relazione ad alcuni reati, la persona offesa può essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito previsti dal citato Testo unico. Nella nuova versione, si amplia il catalogo dei reati cui tale previsione si riferisce, nel senso che vi vengono aggiunti i delitti di cui agli artt. 572, 583 bis, 612-bis c.p. (maltrattamenti, pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, atti persecutori), le cui vittime potranno perciò chiedere l'ammissione al gratuito patrocinio a prescindere dal loro reddito. Con la modifica in oggetto il Legislatore italiano sembra voler dimostrare che sono maturi i tempi per introdurre anche in Italia un principio che in altri Paesi è già realtà come quello che è inserito nella disciplina dell'istituto dell'aiuto giudiziario in Francia.
In Francia è stata introdotta oltre ad una forma di patrocinio parziale a carico dello Stato che si aggiunge all' assistenza legale del tutto gratuita per coloro che si trovino in determinate condizioni reddituali anche la possibilità di concedere il beneficio della difesa gratuita in giudizio a coloro il cui reddito non rientri negli standard previsti allorché la peculiarità della situazione concreta e l'oggetto della lite giustifichino tale trattamento eccezionale. Appare opportuno soffermarsi, per completezza di esposizione, sulla problematica del risarcimento del danno subito dalle vittime di reato che concerne evidentemente uno degli argomenti più dibattuti a livello europeo. In ambito europeo il cammino percorso vede come pietra miliare il Libro Verde della Commissione Comunità Europee sul risarcimento delle vittime dei reati, preceduto in data 16 ottobre 2001 dalla pubblicazione della Commissione di una proposta di direttiva del Consiglio in tema di risarcimento delle vittime di criminalità. A distanza di solo un triennio il Consiglio è intervenuto drasticamente con l'introduzione della Direttiva 2004/80/Ce del 29 aprile 2004 relativa all'indennizzo delle vittime di reato. La direttiva 2004/80/Ce del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa all'indennizzo delle vittime di reato, mira a facilitare l'accesso ad un indennizzo per i cittadini dell'Unione che, vittime di un reato intenzionale e violento in uno Stato membro diverso da quello di residenza, non siano riusciti ad ottenere un risarcimento dall'autore del reato, in quanto questi non possiede le risorse necessarie oppure non può essere identificato o perseguito. Nel novembre 2007, la Corte di giustizia dell'Unione ha accertato la mancata adozione, da parte dello Stato italiano, di qualsivoglia misura di attuazione della direttiva entro i termini dalla stessa previsti (sentenza 29 novembre 2007, causa C-112/07, Commissione c. Italia). Oggi, a più di sette anni di distanza, l'inadempimento dell'Italia ai propri obblighi ai sensi della direttiva continua ad essere oggetto di controversie dinnanzi alla Corte di giustizia e ai tribunali nazionali. Mancata adozione della direttiva che compromette chiaramente la possibilità per le vittime di accedere una sorta di giustizia riparativa, che qualora invece fosse efficacemente attuata aumenterebbe di fatto la fiducia nel sistema giudiziario italiano. Ebbene, nonostante i meccanismi che permettono di ottenere una sorta di riparazione per le vittime siano noti all'interno dei Paesi europei, come per esempio, la possibilità di esperire un azione per il risarcimento di danni subiti, da promuovere alternativamente nel processo civile ovvero in quello penale, la condanna al risarcimento del danno, di fatto non assicura, il pagamento e dunque il ristoro dei danni, nei casi di insolvibilità dell'autore del reato, al quale consegue un senso di forte frustrazione per le vittime. Nelle more, dunque, di una corretta ed adeguata trasposizione della direttiva molto è lasciato all'interpretazione dei tribunali italiani. Invero, le Corti di merito hanno sviluppato divergenti orientamenti giurisprudenziali quanto alla possibilità di ottenere un simile risarcimento in casi concernenti cittadini residenti in Italia e vittime di reati commessi sul territorio italiano, ovvero in assenza di un elemento di trans nazionalità, alimentando cosi una sorta di disomogeneità di tutela a livello nazionale. Solo di recente, il tribunale di Bologna, Sezione III, con sentenza del 7 giugno 2016 ha condannato Ministero e Presidenza del Consiglio dei ministri per l'inadempimento da parte dell'Italia della direttiva sul risarcimento delle vittime la quale ha previsto che gli stati membri indennizzino le vittime in caso di reati violenti dolosi quando non sia possibile conseguire le somme dal reo. Un precedente questo che apre una breccia all'interno del nostro ordinamento al fine di dare piena attuazione alle disposizioni del Legislatore europeo.

In conclusione

È chiaro che vi è nel nostro Paese una progressiva evoluzione dell'architettura normativa a protezione della vittime di violenza di genere ma molto resta affidato a protocolli virtuosi tra Tribunali, forze dell'ordine, Asl, e Centri antiviolenza sul territorio, che svolgono un ruolo di prevenzione e di sensibilizzazione, prodromico al processo penale. Tale modello di intervento deve necessariamente essere trasposto ed utilizzato con le dovute differenziazioni anche per le vittime di violenza quando queste siano persone omosessuali, lesbiche, transessuali ecc. che per la particolare condizione legata all'orientamento sessuale, sono considerate soggetti maggiormente vulnerabili e per tale ragione devono poter beneficiare della garanzie processuali che l'ordinamento offre “prima” e “durante” il procedimento penale.