La messa alla prova per i minorenni e il codice di rito

07 Ottobre 2016

Il codice di procedura penale disciplina oggi in modo articolato e ampio l'istituto della messa alla prova, con indubbie peculiarità nella littera legis rispetto ai riferimenti molto più stringati della normativa speciale di cui al d.P.R. 448/1988, che lo ha visto esordire nel diritto italiano, in ambito minorile.
Abstract

Il codice di procedura penale disciplina oggi in modo articolato e ampio l'istituto della messa alla prova, con indubbie peculiarità nella littera legis rispetto ai riferimenti molto più stringati della normativa speciale di cui al d.P.R. 448/1988, che lo ha visto esordire nel diritto italiano, in ambito minorile. Esigenze di raccordo e di armonizzazione si impongono a qualsiasi interprete: i minorenni non possono essere mai postergati agli adulti; lo impone, in modo insuperabile, la Costituzione (artt. 3, 27, 31, 111 e 117), quali che siano le indicazioni letterali di un legislatore spesso pigro e/o distratto.

L'approdo della messa alla prova al rito processuale ordinario

La messa alla prova è oggetto di grande attenzione da parte del codice di procedura penale, come risulta già dalla gran quantità di disposizioni che compendiano la normativa di riferimento. I destinatari elettivi del codice di procedura sono gli adulti ma non è irrituale considerare che le disposizioni de quibus traggono sicura ispirazione anche dall'esperienza di funzionamento dell'istituto in ambito minorile, dove esso ha esordito, fermi restando i diversi contesti nei quali le norme sono chiamate ad operare (emblematicamente, la collaborazione del reo nella forma del lavoro di pubblica utilità non ha possibilità di impiego nei confronti di un minorenne). Di più, l'attenzione particolare ricevuta dalla messa alla prova nel giudizio ordinario ha ragioni varie: oltre alla già segnalata gran quantità di addentellati normativi che oggi ne fanno cenno, i problemi legati all'esperienza pratica di funzionamento e (soprattutto) le questioni sempre in agenda del legislatore e del giudice. Da quest'ultimo punto di vista, il pensiero va, in modo peculiare: alla sentenza delle Sezioni unite che ha statuito come ai fini dell'individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile la disciplina dell'istituto della sospensione con messa alla prova, il richiamo contenuto nell'art. 168-bis c.p. alla pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie-base, non assumendo a tal fine alcun rilievo le circostanze aggravanti, comprese le circostanze ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato(Cass. pen., Sez. unite, sentenza 31 marzo – 1 settembre 2016, n. 36272); ad altro recente arresto delle Sezioni unite, necessario a precisare che l'ordinanza di rigetto dell'istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova non è autonomamente impugnabile ma è appellabile unitamente alla sentenza di primo grado (Cass. pen., Sez. unite, sentenza 31 marzo 2016 – 29 luglio 2016, n. 33216), intervenendo anche in questo caso su un problema che aveva già registrato un conflitto giurisprudenziale bisognoso del più autorevole chiarimento; alla recente sentenza della Consulta che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 460, comma 1, lettera e), c.p.p., nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga l'avviso della facoltà dell'imputato di chiedere mediante l'opposizione la sospensione del procedimento con messa alla prova (Corte cost., 21 luglio 2016, n. 201).

Nessuno può dormire sogni tranquilli: le criticità sono tante, anche perché emerse con particolare forza in appena due anni di vita dell'istituto (per quel che concerne gli adulti); nondimeno permane un atteggiamento di fiducia nella messa alla prova che, ancora una volta, trae sostanza dal suo modello ispiratore, quello operante in ambito minorile. Questa fiducia emerge a vari livelli: in letteratura l'istituto viene considerato un rito alternativo che si aggiunge ai già noti e collaudati percorsi di deflazione del carico giudiziario, impregiudicate ulteriori connotazioni funzionali ed assiologiche peculiari a ciascuno dei c.d. riti alternativi; in giurisprudenza, il massimo organo giurisdizionale del nostro ordinamento scrive testualmente che l'istituto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio (così Corte cost., 26 novembre 2015, n. 240).

Il “ritorno” della messa alla prova al rito processuale per i minorenni

Non si può dunque dubitare che ci sia stata e ci sia tuttora particolare attenzione alle norme del codice di procedura penale dedicate alla messa alla prova; nemmeno si deve dubitare che permanga interesse per l'istituto in ambito minorile (le esperienze di funzionamento sono varie, a seconda dei tribunali, ed alcune sono estremamente positive). Nondimeno, un nodo esegetico sembra irrisolto: l'applicazione nei confronti dei minorenni delle norme destinate elettivamente agli adulti. Sul punto, occorre muovere dalla regola in base alla quale nel procedimento a carico di minorenni si osservano le disposizioni del presente decreto e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di procedura penale (art. 1 d.P.R. 448/1988). Orbene, in linea di metodo è decisivo stabilire quali siano le situazioni per le quali le disposizioni del decreto prevedono tutto quel che c'è da disciplinare, non richiedendo l'applicazione del codice di procedura penale, e quali siano le situazioni per le quali le medesime disposizioni non prevedono tutto, richiedendo l'applicazione del codice di rito, eventualmente in funzione integrativa. Il Legislatore speciale dispone evidentemente di entrambe le opzioni, e lo rende manifesto nell'esordio del decreto: può far da solo e può lasciar spazio alle norme del codice di procedura penale. Purtroppo non esiste alcun vademecum su quali siano le materie che esauriscono la propria disciplina nella legislazione speciale e quelle che richiedono un'integrazione con il codice di rito. Ne discende un bel grattacapo per l'interprete, fermo restando che le norme del codice di procedura penale fungono spesso da palinsesto anche dinnanzi al giudice specializzato per i minorenni, in piana applicazione del principio emarginato, non fosse altro che per l'organicità e la completezza che il decreto del 1988 non ha e che forse non deve avere, per non infrangere una logica organica del sistema, che è bene prezioso, unitamente alla specializzazione della giustizia minorile. Un dato è certo: le formule presenti nei due comparti normativi presentano differenze sulle quali occorre svolgere una rilettura critica, all'insegna del principio di ragionevolezza.

Non si propone una didascalia delle norme vigenti; piuttosto, l'ipotesi di lavoro è che oggi, paradossalmente, le formule normative descrivono un istituto a volte più agile per gli adulti che per i minorenni. L'assunto va opportunamente verificato.

Emergenze applicative per i minorenni nella fase delle indagini preliminari

La lettera della legge è sempre l'abbrivio per l'interprete. Così, la disciplina della messa alla prova annovera per gli adulti articolazioni normative assenti in ambito minorile, come la possibilità che si acceda all'istituto nella fase delle indagini preliminari. Il dato non è univoco: occorre richiamare quanto stabilito dall'art. 1 del d.P.R. 448/1988 per stabilire se questa materia sia tra quelle per le quali le disposizioni speciali “prevedono”, e dunque impongono, di non applicare l'istituto secondo le possibilità concesse agli adulti, oppure “non prevedono”, e dunque consentono di applicare l'istituto dando spazio alle maggiori latitudini concesse dal codice di procedura penale. Sul punto, non sfugge ad alcun lettore che l'art. 28 d.P.R. 448/1998 parla di sospensione del processo, il che rende letteralmente inapplicabile l'istituto a fasi del procedimento precedenti all'avvio del processo, così come avviene invece per gli adulti con la previsione in sede di indagini preliminari; nondimeno, emerge la possibilità (più che ragionevole) che questa differenza vada ascritta agli effetti non voluti e alle distorsioni applicative di una normativa mal coordinata e lenta ad adeguarsi, piuttosto che ad un'oculata scelta politico criminale, o di buona amministrazione del processo, che si avrebbe grande difficoltà ad individuare. In altri termini, sussistono motivi per una censura a questa differenziazione normativa e alle distonie applicative che ne possono derivare; viceversa, non vi sono argomenti che la possano “convalidare”. Censurare queste indicazioni normative non è un atto di irriverenza, e non rappresenta un'eversione del sistema; piuttosto, la giustizia minorile è specializzata e deve poter vivere in modo fecondo delle idealità che la caratterizzano sul piano teorico e programmatico e che ne sorreggono gli auspici di progresso, ben espressi anche a livello di istituzioni sovranazionali, da ultimo nella direttiva (Ue) del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2016, n. 800, sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali.

Del resto, si è detto che la normativa in materia di messa alla prova (quella codicistica) è già oggetto di un continuo riassestamento, non di mero maquillage, anche su impulso della Consulta. Probabilmente il tempo provvederà naturalmente ad un ampio rimodellamento dell'istituto che ne garantisca la coerenza assiologica ma questa è una prospettiva davvero poco confortante, da conservare come ultima chance. Nell'attualità ci sono i colpi di scure della Corte costituzionale e c'è il Legislatore che prevedibilmente interverrà con gli opportuni correttivi; nelle more, già i magistrati possono ben rimediare al vulnus segnalato facendo piana e corretta applicazione del favor minoris.

Si può pertanto formulare il serio e ragionevole auspicio che l'istituto funzioni in sede di indagini preliminari anche per i minori, che non vi sia più spazio, nei tribunali per i minorenni, per ordinanze di rigetto dell'istanza di sospensione del processo con messa alla prova che siano argomentate osservando che l'istanza è prematura e non può essere presa in considerazione in questa fase e dunque, in definitiva, che siano fondate sul dato della “non previsione” del procedimento nella lettera dell'art. 28 del d.P.R. 448/1988.

Il passo da compiere è chiaro: la differenziazione tra adulti e minorenni con riguardo alla possibilità di una messa alla prova in sede di indagini preliminari non ha nulla di ragionevole, e va dunque superata. La materia deve ritenersi rientrante tra quelle che il decreto del 1988 non prevede e per essa vale la regola dell'applicazione delle norme del codice, senza nessuna complicanza.

Altre incongruenze (rinvio)

Ci sono anche altre incongruenze da segnalare, che fanno capo alla medesima connessione problematica tra codice di procedura penale e processo minorile. Un cenno in questa sede vale senz'altro a segnalare come il tema introdotto sia tutt'altro che circoscritto alla questione concernente l'applicazione dell'istituto della messa alla prova durante le indagini preliminari.

Si pensi, dunque, alla richiesta di probation in concomitanza con l'emanazione del decreto di giudizio immediato. La littera legis è particolarmente lineare, prevedendo che Se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine e con le forme stabiliti dall'articolo 458, comma 1 c.p.p.: così l'art. 464-bis c.p.p. lascia chiaramente spazio alla richiesta di messa alla prova. Va ricordato che per gli adulti operano i limiti oggettivi e soggettivi di cui all'art. 168-bis c.p., sicché, teoricamente, residua il problema del coordinamento con l'art. 28 d.P.R. 448/1988, che com'è noto, viceversa, non contempla limitazione alcuna rispetto al quantum di pena previsto per il reato a carico del minorenne. L'indispensabile raccordo sistematico fa sì che le previsioni del codice di rito debbano essere adattate ai minorenni e dunque che la possibilità di messa alla prova debba operare senza le limitazioni previste nel codice di rito per quel che concerne la gravità del reato sub iudice. Non deve accadere che limiti di pena elevati siano rilevati quale motivo di preclusione alla concessione della sospensione con messa alla prova, in violazione del decreto sul processo minorile.

Ancora, si pensi al c.d. immediato custodiale nei confronti di soggetto collocato in comunità (o sottoposto a misura differente dalla custodia cautelare in carcere). Alcuni precedenti ne segnalano l'attualità, in apparente applicazione del codice di rito, che configura questa possibilità per il soggetto sottoposto a custodia cautelare; si tratta però di una palese violazione della legge speciale. In ragione dei contenuti della misura, infatti, si può solo astrattamente pensare che i riferimenti del codice di rito siano utili a spiegare l'emanazione del decreto che dispone il giudizio immediato nei confronti di chi sia sottoposto al collocamento in comunità.

Così non è. L'art. 22 del d.P.R. 448/1988 è la norma fondante la misura del collocamento in comunità ed esso precisa, al comma 3, che a questa misura si applicano le disposizioni dell'articolo 21 commi 2 e 4; ebbene, a norma del comma 4 appena indicato, il minorenne al quale è imposta la permanenza in casa è considerato in stato di custodia cautelare, ai soli fini del computo della durata massima della misura. L'immediato custodiale richiede dunque indefettibilmente la custodia cautelare; alterum non datur. Et de hoc satis.

Fatti questi brevi cenni, ragioni di economia escludono la possibilità di approfondimenti su queste ulteriori incongruenze nel raccordo tra processo minorile e codice di procedura penale.

In conclusione

Le declinate esigenze di raccordo sistematico appaiono ineludibili. La messa alla prova per i minorenni, oggi, è più di quel che scriveva il Legislatore nel decreto del 1988 e riceve nuove latitudini applicative dagli innesti al codice di procedura penale del 2014. L'operatore del diritto, sia esso magistrato o avvocato, può, e perciò deve, farsi carico delle proprie responsabilità e dare corso a indirizzi applicativi ispirati assiologicamente. Nessuna violazione di legge, nessun deficit di tassatività nell'ispirare la giustizia minorile al principio di specialità mai disgiunto dal favor minoris.

In altri termini, gli sviluppi che hanno caratterizzato e caratterizzano la messa alla prova, prima nella normativa, poi nelle indicazioni giurisprudenziali, per quel che concerne gli adulti, vanno opportunamente estesi al funzionamento del tribunale per i minorenni, onde evitare che si consumino sgradevoli sperequazioni a danno dei più giovani. Bisogna sempre guardare al soggetto che viene processato o, semplicemente, sottoposto ad indagini. L'individualizzazione dell'intervento in ambito minorile, del resto, non è un elemento di contorno; essa è ben radicata sulle matrici culturali del processo costruito nel 1988 per i più giovani (ma già gli assicurano fondamento le norme sul tribunale specializzato) e trova facile riscontro nelle norme. All'osservatore mediamente attento non può essere sfuggito che assai di frequente la normativa che regola il processo minorile pone in capo al giudice poteri ampiamente discrezionali; questo accade affinché gli stessi poteri siano teleologicamente orientati, indefettibilmente, alle esigenze educative del minorenne. La messa alla prova non fa eccezione.

Passi l'annotazione, insieme al paradigma riparativo, all'apice nell'eventuale mediazione penale con la vittima del reato, l'istituto veicola le direttrici essenziali del processo minorile, in particolare la minima offensività dello stesso, la sussidiarietà e la residualità dell'intervento penale e del ricorso alla sanzione e alla detenzione (dando altresì attuazione, in termini più generali, al principio del minimo sacrificio per il minorenne).

La messa alla prova è un explicit processuale (rectius procedimentale) utile a realizzare tutto questo ed anche a superare la prospettiva di una giustizia carcerocentrica (la suprema Corte annota così la l. 67/2014: il legislatore ha dato impulso ad un profondo ripensamento del sistema sanzionatorio che ancora oggi "gravita tolemaicamente intorno alla detenzione muraria": Cass. pen., Sez. unite sentenza 31 marzo – 1 settembre 2016, n. 36272).

Un auspicio finale: non si attendano interventi dall'alto. La strada della Consulta è già abbastanza trafficata per pensare a nuovi convogli che portino i pesi della messa alla prova. Sono sufficienti buon senso ed operosità di tutti nella scelta di percorsi coerenti alle direttrici costituzionali indicate in premessa: tante norme per un unico scopo, la cura del minorenne.

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