Caporalato. La disciplina della confisca e il controllo giudiziale dell'azienda
08 Novembre 2016
Abstract
Con la novella introdotta mediante la legge 29 ottobre 2016, n. 199, Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo del settore agricolo, il Legislatore ha tentato di perfezionare la disciplina del delitto di intermediazione illecita, con l'intento, in realtà conseguito solo marginalmente, di migliorarne la formulazione lessicale e con essa l'efficacia applicativa. Intento rimasto sostanzialmente frustrato, non potendosi ritenere tuttora conseguito un livello di tassatività e determinatezza conforme ai livelli di opportunità che dovrebbero essere propri dalla legislazione penale. Di sicura utilità la responsabilizzazione penale del datore di lavoro che utilizza, assume o impiega manodopera reclutata anche mediante l'attività di intermediazione (non necessariamente con l'utilizzo di caporalato). Pur essendo un'idea interessante appare invece discutibile, la nuova misura cautelare reale del “controllo giudiziale” dell'azienda, fattispecie della quale solamente il tempo potrà dimostrare la reale utilità e proficuità sul campo. Il nuovo art. 603-bis c.p., al primo comma, riscrive la condotta illecita del “caporale”, ovvero di chi recluta manodopera per impiegarla presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno (è soppresso il riferimento allo stato di "necessità"). Rispetto alla fattispecie preesistente, è introdotta una nuova fattispecie-base che prescinde da comportamenti violenti, minacciosi o intimidatori (non compare più il richiamo allo svolgimento di un'attività organizzata di intermediazione né il riferimento all'organizzazione dell'attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento). È poi sanzionato il datore di lavoro che utilizza, assume o impiega manodopera reclutata anche mediante l'attività d'intermediazione con le modalità sopraindicate. La pena è quella della reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 500 a 1.000 € per ogni lavoratore reclutato. Il secondo commadel nuovo articolo 603-bis c.p. prevede una fattispecie di caporalato – analoga a quella dell'attuale primo comma – caratterizzata dall'esercizio di violenza o minaccia; è soppresso il vigente riferimento all'intimidazione. Le sanzioni rimangono invariate rispetto a quanto ora previsto. Il terzo comma riguarda le condizioni ritenute indice di sfruttamento dei lavoratori. Rispetto a quanto già previsto è stato aggiunto il pagamento di retribuzioni palesemente difformi da quanto previsto dai contratti collettivi territoriali. È poi precisato che tali contratti, come quelli nazionali, sono quelli stipulati dai sindacati nazionali maggiormente rappresentativi;che le violazioni in materia di retribuzioni e quelle relative ad orario di lavoro, riposi, aspettative e ferie devono essere reiterate (il testo attuale le richiedeva "sistematiche”); che le violazioni riguardino anche i periodi di riposo, oltre al riposo settimanale. In relazione al mancato rispetto delle norme sulla sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, è soppresso il riferimento alla necessità che la violazione esponga il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l'incolumità personale. Quanto alla sottoposizione dei lavoratori a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti, è soppresso l'avverbio "particolarmente", da cui deriva un ampliamento dei casi in cui si può realizzare tale condizione-indice. Invariate permangono le aggravanti specifiche ad effetto speciale del reato ora collocate al quarto comma del nuovo art. 603-bis c.p. con l'unica eccezione della terza aggravante ove è ora fatto riferimento ai lavoratori "sfruttati" e non più ai lavoratori "intermediati". L'articolo 2 della l. 199/2016 aggiunge al codice penale gli articoli 603-bis.1 e 603-bis.2, a disciplina delle attenuanti e della confisca. L'art. 603-bis.1 c.p.predispone (rispetto alla disciplina vigente dell'art. 600-septies.1 c.p. relativa a tutti i delitti contro la personalità individuale) una circostanza attenuante specifica, ad effetto speciale, applicabile a tutti i soggetti che si siano efficacemente adoperati per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, o per assicurare le prove dei reati, o per l'individuazione degli altri responsabili, ovvero per il sequestro di somme o altre utilità trasferite. Dunque una riedizione della logica sottesa al quarto comma dell'art. 56 c.p., unita ad un invito premiante alla delazione che, come indicato nei commenti istituzionali, dovrebbe applicarsi al caso dell'imprenditore coinvolto in procedimento penale per caporalato che possa riferire notizie utili alle indagini su altri episodi di intermediazione illecita relativi ad altre imprese o fruitori di manodopera. L'articolo 4 della l. 199/2016,modifica l'art. 380 c.p.p., aggiungendo il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro commesso con violenza e minaccia tra quelli per cui è obbligatorio l'arresto in flagranza. La disciplina della confisca
L'art.603-bis.2 c.p.benché ciò fosse già previsto nell'art. 600-septies c.p.,inserisce il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro tra i reati per i quali, in caso di condanna o applicazione della pena su richiesta delle parti, è disposta la confisca obbligatoria delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, oltre a quelle che siano il prezzo, il prodotto o il profitto del reato. In relazione all'ipotesi in cui non siano individuabili ed aggredibili le cose indicate, è prevista anche l'esperibilità della confisca per equivalente di beni di cui il reo abbia la disponibilità, anche indirettamente o per interposta persona, per un valore corrispondente al prodotto, prezzo o profitto. Ovviamente ad esclusione del caso in cui la proprietà dei beni da aggradire sia di un terzo estraneo al reato. Secondo costante orientamento della Cassazione, infatti, la legittimità del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente (e a fortiori della confisca stessa) di un bene di proprietà di un terzo estraneo alle indagini può essere giustificata solamente nel caso in cui la titolarità dello stesso in capo al terzo sia fittizia o solamente formale e sia l'indagato a carico del quale il sequestro è disposto a godere della piena disponibilità del bene stesso, tramite l'interposizione fittizia del terzo. Proprio in relazione a tale ultimo concetto la IV Sezione penale della Corte di cassazione ha di recente precisato, con la sentenza n. 18766/2014, che la disponibilità del bene intestato al terzo può esplicitarsi sia con la presenza di una relazione effettuale dell'indagato con il bene, connotata dall'esercizio di poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà, (in senso conforme Cass. pen., Sez. II, 22 febbraio 2013, n. 22153 Ucci), sia con la diversa figura della c.d. interposizione reale o fiduciaria, che ricorre quando l'interponente trasferisce o intesta, ad ogni effetto di legge, taluni beni all'interposto, ma con l'accordo fiduciario sottostante che detti beni saranno detenuti, gestiti o amministrati nell' interesse del dominus e secondo le sue direttive, ossia tutte quelle situazioni in cui l'interposto non è effettivo titolare erga omnes, purché legato da rapporto fiduciario con l'interponente. Attualmente minoritaria appare invece l'interpretazione secondo la quale la disponibilità dell'indagato, al pari della nozione civilistica del possesso, è riferibile a tutte quelle situazioni nelle quali i beni ricadano nella sfera degli interessi economici del reo, ancorché il potere dispositivo su di essi venga esercitato per tramite di terzi. (cfr., in tal senso, Cass. pen. Sez. II, 20 aprile 2012, n. 27308 Costagliola). In altre parole, perché possa ritenersi sufficientemente suffragata la disponibilità del bene in capo all'indagato, a dispetto di differente intestazione formale dello stesso, la realizzazione di atti dispositivi corrispondenti all'esercizio di poteri tipici del diritto di proprietà deve essere attualizzata al momento in cui si opera il sequestro per equivalente. Le norme che lo prevedono, infatti, (art. 322-ter c.p.; art.1, comma 143, legge 244 del 2007; art.11, legge 146 del 2006) rimandando tutte alla disciplina dell'art. 322-ter c.p., richiedono la verifica della disponibilità “attuale” del bene da aggredire, con l'adozione della dizione: “confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità”. Non “avesse avuto” od “ebbe”. Il che è motivato dal fatto che si aggrediscono beni che non sono in rapporto di pertinenzialità con i reati realizzati. Deve essere da ultimo evidenziato che l'articolo 5 della legge, integrando la formulazione dell'art. 12-sexies del d.l. 306/1992 (l. 356/1992), aggiunge il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro tra i reati per i quali è sempre disposta la confisca obbligatoria c.d. “allargata” del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità, a qualsiasi titolo, in valore sproporzionato al proprio reddito (dichiarato ai fini delle imposte sul reddito) o alla propria attività economica. In ultima analisi tale previsione, più che in relazione al mediatore “caporale”, è destinata ed esplicare la sue efficacia deterrente principalmente, ed opportunamente, nei confronti dal del datore di lavoro che fa utilizzo di lavoratori illecitamente sfruttati. L'articolo 3 della l. 199/2016 prevede come peculiare misura cautelare reale il possibile controllo giudiziario dell'azienda qualora ricorrano i presupposti indicati nel comma 1 dell'art. 321 c.p.p., vale a dire il pericolo che la libera disponibilità della stessa (quale cosa pertinente al reato) possa aggravare o protrarre le conseguenze dello stesso o agevolare la commissione di altri reati. La dizione nei procedimenti lascia pensare che il Legislatore abbia voluto fare riferimento alle indagini preliminari e alla fase del processo antecedente alla sentenza di prima grado. Anche perché, in caso di assoluzione, il bene tornerebbe al legittimo proprietario ed in caso di condanna o patteggiamento, sarebbe obbligatoriamente confiscato ai sensi dell'art. 603-bis.2 c.p., con conseguente applicazione della specifica disciplina. In conseguenza dell'estensione del reato di caporalato anche al datore di lavoro, si è dunque prevista la possibilità che il giudice, in luogo del sequestro preventivo ex art. 321, comma 1, c.p.p. che dunque non dovrebbe essere mai coesistente con la nuova cautela, disponga il “controllo” dell'azienda ove è commesso il reato di cui all'art. 603-bis c.p., quando l'interruzione dell'attività conseguente al sequestro possa compromettere i livelli occupazionali e diminuirne il valore economico. Con il decreto dispositivo, il giudice (si ritiene a richiesta del P.M.) nominerà uno o più amministratori giudiziariesperti in gestione aziendale, scegliendoli tra gli iscritti all'albo degli amministratori giudiziari, che provvederanno ad affiancare l'imprenditore con il compito di monitorare eventuali anomalie circa l'andamento dell'attività aziendale obblighi di controllo con particolare riferimento: alle condizioni di lavoro, alla regolarizzazione dei lavoratori (che, all'atto dell'avvio del procedimento penale per caporalato, prestavano la propria opera in nero) e garantire che siano adottate tutte le misure idonee a prevenire la reiterazione del reato. Viene, infine, previsto che, nei casi di sequestro preventivo di beni di cui è consentita la confisca ai sensi dell'art. 321, comma 2, c.p.p. (quindi ex art 240 c.p., cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, cose che ne sono il prodotto o il profitto; cose che del reato costituiscono il prezzo) e nei casi di confisca obbligatoria disposta ex art. 603-bis.2 c.p. (introdotto dall'art. 2 della l. 199/2016), trovi applicazione la disciplina del comma 4-bis dell' art.12-sexies del d.l. 306/1992. A ben vedere, nulla di diverso da quanto accade ordinariamente in esito al sequestro preventivo di aziende, se non per il fatto che “formalmente” la società controllata non è in sequestro ma sotto un controllo atipico e, come si avrà modo di precisare a breve, dai contenuti non ben specificati. L'ideazione di una procedura di controllo giudiziale, infatti, appare una crasi del tutto singolare tra la disciplina del sequestro preventivo e quella dell'amministrazione di sostegno, da cui deriva un ibrido di dubbia funzionalità e coerenza. Una nuova e più avanzata frontiera del simbolismo penale, che pare non tener conto né delle reali modalità tecniche con cui si realizza usualmente l'amministrazione giudiziale delle aziende in sequestro, né delle reali conseguenze che le procedure di sequestro o “controllo” esplicano sull'andamento economico delle società ablate. Con le immancabili ricadute in ambito occupazionale. Tra le singolarità più rilevanti possono evidenziarsi le seguenti: a) la misura cautelare reale ex art. 321 c.p.p., si basa su un giudizio di pericolosità del soggetto, unito parallelamente alla necessità di sottrarre allo stesso la disponibilità dei beni illecitamente acquisiti. Affinché il sequestro si possa ritenere valido e non lesivo di diritti fondamentali, quali la libertà personale o la libera iniziativa economica, lo stesso deve basarsi su un pericolo attuale e concreto tale da far supporre che la disponibilità della res, possa comportare la reiterazione del reato o l'aggravio dello stesso. Tanto premesso non si vede come possano ritenersi sussistenti i presupposti dell'art. 321 c.p.p., e nel contempo decidere di mantenere il controllo e la disponibilità di un'azienda nella disponibilità dell'indagato solo affiancandogli un controllore. b) Il concetto di “affiancamento nella gestione” appare di difficile definizione, non essendo chiaro se esso comporti il conferimento di poteri gestori in capo agli amministratori giudiziari di sostegno o se al contrario questi permangano in capo all'imprenditore. Inoltre, mentre il concetto di affiancamento nella gestione lascerebbe presupporre la piena titolarità dei poteri in capo all'imprenditore, l'art. 3, comma 3, l. 199/2016 prevede che lo svolgimento degli atti di amministrazione utili all'impresa debba essere autorizzato dall'amministratore giudiziario, incrementando ulteriormente la confusione e la sovrapposizione dei ruoli. Provocatoriamente potrebbe ritenersi che gli atti inutili alla gestione non richiedono autorizzazione al pari di quelli dannosi o che, al contrario, se gli atti devono essere autorizzati dall'A.G. tanto valeva porre sotto sequestro la società. L'ultimo capoverso dell'art.3, comma 3, l. 199/2016 prevede che l'A.G. “controllore” possa adottare adeguate misure anche in difformità da quelle proposte dall'imprenditore o dal gestore, che quindi parrebbe privo di poteri gestori quantomeno in merito a tali tematiche. In ultimo la previsione di un obbligo trimestrale di rendicontazione dell'A.G. circa le irregolarità dell'andamento dell'attività aziendale, certifica come, in linea teorica, queste siano possibili malgrado l'attività di controllo, palesandone cosi indirettamente l'inefficacia. Permane poi il dubbio circa l'efficacia degli atti non autorizzati, anche se il termine affianca nella gestione dovrebbe implicare la permanenza dei poteri gestori in capo all'imprenditore, con conseguente validità delle attività dal medesimo compiute. c) Il controllo giudiziario dell'azienda presso cui è stato commesso il reato dovrebbe essere disposto: qualora l'interruzione dell'attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale. Tale previsione appare criticabile per diversi motivi: in primo luogo perché sembra non tenere in alcun conto quelli che sono gli effetti ordinari di una procedura di sequestro preventivo di una qualsiasi azienda. Tutti gli interventi di amministrazione giudiziaria, infatti, hanno ripercussioni negative sul valore economico delle imprese, poiché la legalizzazione delle entità economiche che operano in contesti di elevata permeabilità all'illegale, costituisce un costo aggiuntivo che rende le società in amministrazione giudiziaria svantaggiate sul marcato reale. Ciò comporta una fisiologica diminuzione del fatturato aziendale dovuto ad una flessione delle committenze (che non vedono mai di buon grado il curiosare dello Stato nelle proprie attività economiche) e, di conseguenza, la perdita di quote di mercato con correlata necessità di riduzione del personale lavorativo. Paradigmatico in tal caso è il sequestro di società cooperative che mediante il meccanismo delle cartiere ottengano profitti illeciti mediante la realizzazione di reati tributari (usualmente consistenti in false fatturazioni per operazioni inesistenti e in evasione di iva e ritenute certificate). L'esperienza pratica dimostra inequivocabilmente come tali società, una volta ricondotte alla piena legalità con la procedura di amministrazione giudiziaria, si avviino fisiologicamente al fallimento non avendo la reale possibilità di essere competitive in un mercato che pratica usualmente prezzi più contenuti. Inoltre il tempo di latenza di cui i reati tributari hanno bisogno per acquisire visibilità agli occhi del diritto consente alle imprese che operano con modalità delinquenziali di avvantaggiarsi sul mercato per diversi anni prima che l'intervento repressivo dello Stato possa arrestarne l'operato, rendendo permanente la situazione di svantaggio che zavorra gli imprenditori onesti. Da ultimo le logiche delinquenziali si basano spesso sull'intuitu personae, tale che le aziende in cui l'indagato vede inibito il proprio ambito di azione vengono progressivamente a perdere quelle entrature commerciali alla medesima figura correlate, non necessariamente in modo illegale. In secondo luogo, l'amministrazione giudiziaria di beni in sequestro preventivo dovrebbe essere fisiologicamente finalizzata alla custodia e alla conservazione delle società ablate e del loro valore, sia nell'ottica che queste siano avocate al patrimonio dello Stato mediante confisca sia, a maggior ragione, nell'ipotesi in cui dovessero essere poi rese al legittimo proprietario nei confronti del quale il prosieguo dell'attività di indagine o l'esito del processo dovesse dimostrare l'innocenza. Se cosi è, nessuna misura cautelare reale dovrebbe mai compromettere il valore economico del bene aggredito, intervenendo in un momento storico in cui l'indagato è, o dovrebbe essere ritenuto, un presunto innocente. In terzo luogo l'art.3, comma 3, cpv, l. 199/2016, prevede che al fine di impedire che si verifichino situazioni di grave sfruttamento l'amministratore giudiziario controlla il rispetto delle norme e delle condizioni lavorative la cui violazione costituisce indice di sfruttamento lavorativo, procede alla regolarizzazione dei lavoratori che la momento dell'avvio del procedimento per i reati previsti dall'art. 603 bis prestavano la propria attività lavorativa in assenza di regolare contratto e, al fine di evitare che le violazioni si ripetano adotta adeguate misure anche in difformità da quelle proposte dal l imprenditore o dal gestore. Anche tale capoverso si presta ad incentivare confusioni. Non rendendo intellegibile chi tra l'imprenditore ed il controllore abbia in effetti poteri decisionali e gestori sull'amministrazione del bene. Nel paragrafo citato, come già evidenziato, parrebbe evidenziarsi la primazia del controllore rispetto all'imprenditore controllato senza avvedersi del fatto che proprio la regolarizzazione dei lavoratori in nero, (fattore sul quale a ben vedere si edifica la redditività di tali tipologie di società edificate sullo sfruttamento della manodopera) sarebbe la prima causa di depauperamento del valore economico dell'azienda che, dovendo praticare prezzi maggiori, finirebbe presto con il non essere più competitiva sul mercato. Con la conseguenza tanto paradossale quanto probabilmente che, subito dopo essere stati assunti, i lavoratori sarebbero entro breve tempo licenziati a causa del dissesto dell'azienda. Con conseguente frustrazione del primo requisito preveduto per l'esperibilità del controllo giudiziale. Il tutto senza tenere in considerazione il fatto che tali realtà imprenditoriali sono spesso costituite da piccole società scarsamente patrimonializzati intestate a soggetti di comodo che, ben difficilmente potrebbero avere le risorse economiche necessarie alla piena regolarizzazione dei lavoratori. d) altri elementi anomalo rispetto alla necessità di non depauperare le società in controllo possono essere individuati nel numero dei controllori e nel regime di pagamento delle spese del controllo giudiziario. Quanto al primo elemento il comma 2 del art. 3 l. 199/2016 prevede la facoltà che possano essere nominati uno o più amministratori giudiziari di cui al d.lgs. 4 febbraio 2010, n. 14. Tale previsione è di difficile comprensione poiché non si vede in base a quale logica mentre l'art. 35 del d.lgs. 159/2011 (Testo unico antimafia) e l'art. 2-sexies l. 31 maggio 1965, n. 575 prevedono la nomina di un unico amministratore giudiziario (che può eventualmente ricorrere all'ausilio di coaudiutori previa autorizzazione del giudice delegato), nella presente ipotesi di gestione congiunta con l'imprenditore titolare i controllori possano eventualmente essere più di uno. Quanto al pagamento delle spese della procedura di controllo il comma 4 dell'art 3 l. 199/2016, prevede nei casi di sequestro di cui al comma 2 dell'art 321 del c.p.p., l'applicabilità delle disposizioni di cui al comma 4-bis dell'art. 12-sexies del d.l.8 giugno 1992 n. 306, che rimandando all'art. 2-octies della legge 575/1965 oggi trasposta nell'art. 42 del d.lgs. 159/2011, dispone che le spese utili per la conservazione e l'amministrazione sono sostenute prelevando i relativi fondi dalla gestione dei beni sequestrati salvo l'ipotesi in cui non essendovi i fondi sufficienti le relative somme siano anticipate dallo Stato. Se ciò è vero nell'ipotesi di sequestro, dovrebbe pertanto concludersi che nell'ipotesi del controllo preveduto dal n° 1 debba trovare applicazione la disciplina generale di cui all'art. 150 del Testo unico sulle spese di giustizia (normativa originariamente preveduta negli articoli 265 c.p.p. e 84 disp. att. c.p.p., norme abrogate per susseguente incorporazione della relativa disciplina nel d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (artt. 149-156) come modificati dal d.l. 30 giugno 2005, n. 115). Norma secondo la quale le spese per la custodia e la conservazione dei beni sottoposti a sequestro sono a carico dell'Erario, il quale, in caso di successiva confisca, le avrà anticipate in vista dell'acquisizione del bene al proprio patrimonio; in caso di dissequestro potrà condizionare la restituzione al ristoro delle spese anticipate per la custodia del bene dell'imputato, tranne nell'ipotesi in cui il bene sia di un terzo il quale nulla dovrà per le spese di custodia. In conclusione nelle ipotesi di controllo giudiziario le spese per l'attività dei controllori sarebbero a carico dell'Erario pur mantenendo l'imprenditore la gestione dell'azienda, mentre nelle ipotesi di sequestro le spese della procedura sarebbero sostenute con le risorse dell'azienda stessa ove presenti. Con l'articolo 6 viene aggiunto il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro tra quelli per i quali è prevista la responsabilità amministrativa degli enti, di cui al d.lgs. 231/2001. Come noto, la disciplina di cui al d.lgs. 231/2001 concerne gli enti, società ed associazioni (anche prive di personalità giuridica) privati, nonché gli enti pubblici economici, i quali sono responsabili (sulla base della specifica normativa) sotto il profilo amministrativo, per i reati commessi da determinati soggetti nell'interesse o a vantaggio dell'ente (o società o associazione). La sanzione pecuniaria a carico dell'ente "responsabile" del reato di caporalato è stabilita tra 400 quote e 1.000 quote (art. 25-quinquies d.lgs. 231/2001); si ricorda che l''importo di una quota va da un minimo di 258 a un massimo di 1.549 euro. In conclusione
Benché meritoria negli intenti la novella sembra aver conseguito solo parzialmente gli scopi che si era proposta, non essendo riuscita a migliorare la tassatività e la determinatezza nella formulazione delle norme incriminatrici, né a sviluppare un sistema di intervento che, nella fase delle indagini, consentisse al contempo di tutelare sia la redditività delle imprese che il diritto dei lavoratori alla giusta retribuzione del proprio lavoro e alla svolgimento dello stesso in condizioni di dignità e decoro. In chiave di prospettiva futura sarebbe pertanto opportuna una migliore analisi delle dinamiche economiche che caratterizzano le società in sequestro, e l'elaborazione di un sistema integrato di tutel nel quale oltre alla sanzionabilità del “caporale” e del datore di lavoro, si elaborino fattispecie incriminatrici che puniscano economicamente (magari proprio con il pagamento dei lavoratori) anche le aziende che acquistino prodotti o servizi da soggetti che sfruttano la manodopera. |