Legittima difesa e “cause di esclusione della pena”. Ma che ci azzecca ?

Sergio Beltrani
11 Settembre 2017

L'autore esamina l'argomento oggetto del tema estratto come prova scritta di diritto penale nel concorso in magistratura del luglio 2017 (Premessi cenni sulle cause di esclusione della pena, tratti il candidato della difesa legittima e dei relativi limiti, con particolare riguardo ai fatti commessi in occasione del delitto di rissa e a quelli commessi in luogo di privata dimora), manifestando forti perplessità sul prescelto inquadramento dogmatico ...
Abstract

L'autore esamina l'argomento oggetto del tema estratto come prova scritta di diritto penale nel concorso in magistratura del luglio 2017 (Premessi cenni sulle cause di esclusione della pena, tratti il candidato della difesa legittima e dei relativi limiti, con particolare riguardo ai fatti commessi in occasione del delitto di rissa e a quelli commessi in luogo di privata dimora), manifestando forti perplessità sul prescelto inquadramento dogmatico – come causa di esclusione della pena – della legittima difesa.

Antefatto

Premessi cenni sulle cause di esclusione della pena, tratti il candidato della difesa legittima e dei relativi limiti, con particolare riguardo ai fatti commessi in occasione del delitto di rissa e a quelli commessi in luogo di privata dimora: questo il tema estratto come prova scritta di diritto penale nel concorso in magistratura che si è svolto a luglio 2017.

Non essendo immaginabile che la Commissione abbia voluto “giocare” con i candidati, richiedendo loro di premettere cenni su di una categoria (quella delle cause di esclusione della pena) che nulla aveva a che vedere con l'istituto oggetto del tema (la legittima difesa), è inevitabile chiedersi: ma davvero la legittima difesa è una “causa di esclusione della pena”? Ed ancora (se non altro per provare a riabilitarsi, dopo la poco dotta citazione usata come titolo di questo contributo): Cause di esclusione della pena”, cos'erano costoro ?

Le “cause di esclusione della pena”

I principali manuali di diritto penale (F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003; G. FIANDACA ED E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, VII ed., Bologna, 2014; F. MANTOVANI, Diritto penale, IX ed., Padova, 2015; G. MARINUCCI ED E. DOLCINI, Manuale di diritto penale. Parte generale, V ed. aggiornata da E. DOLCINI e G.L. GATTA, Milano, 2015; T. PADOVANI, Diritto penale, X ed., Milano, 2012), e l'opera fondamentale in tema di diritto penale sostanziale [M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, vol. I (artt. 1-84), III ed., Milano, 2004; M. ROMANO E G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II (artt. 85-149), IV ed., Milano 2012; M. ROMANO, G. GRASSO E T. PADOVANI, Commentario sistematico del codice penale, vol. III (artt. 150-240), II ed., Milano, 2011] non menzionano, nel conclusivo indice analitico-alfabetico, l'espressione cause di esclusione della pena: ci sono cause di esclusione della colpevolezza, cause di esclusione della punibilità, cause di estinzione della pena, cause di estinzione della punibilità, cause di non punibilità, ma non cause di esclusione della pena.

La dottrina (F. MANTOVANI, op. cit., 783 ss.), quando impiega l'espressione cause di esclusione della pena (dette anche cause di non punibilità in senso lato), vi ricomprende «quelle situazioni in genere esterne al fatto tipico, che non escludono il reato, ma in presenza delle quali il legislatore ritiene, per varie ragioni, di rinunciare alla punibilità in concreto», e, specificamente, «1) le cause di non punibilità originarie (o esimenti); 2) le cause di non punibilità sopravvenuta (o cause di estinzione del reato)», precisando che tra le prime (espressamente distinte dalle cause scriminanti e dalle cause scusanti) rientrano la fattispecie di cui all'art. 649 c.p. e la più ampia categoria delle immunità; tra le seconde rientrano, invece, gli istituti disciplinati dagli artt. 171 ss. c.p.

La legittima difesa: natura giuridica

La legittima difesa (disciplinata dall'art. 52 c.p.) rientra tra le cause di giustificazione (dette anche scriminanti, e da taluno, con terminologia – alla luce di quanto appena premesso - impropria, esimenti), ovvero tra «quelle situazioni normativamente previste, in presenza delle quali viene meno il contrasto tra un fatto conforme ad una fattispecie incriminatrice e l'intero ordinamento giuridico» (G. FIANDACA ed E. MUSCO, op. cit., 267).

Nessuna norma adopera le espressioni cause di giustificazione o scriminanti: gli artt. 50-54 c.p. prevedono che, in determinate condizioni, l'agente non è punibile, ovvero è esclusa la punibilità; l'art. 59, comma 1, c.p. menziona le circostanze che […] escludono la pena; l'art. 119, comma 2, c.p., menziona le circostanze oggettive che escludono la pena; analoga terminologia è, talvolta, utilizzata anche in relazione a fattispecie del tutto diverse (cfr., ad es., artt. 47, 49, comma 2, ed 85, comma 1, c.p.), che nulla hanno in comune con le cause di giustificazione (S. BELTRANI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2017, 303).

L'inquadramento dogmatico delle cause di giustificazione nella struttura del reato vede la dottrina divisa (S.BELTRANI, op. cit., 305):

  • i fautori della teoria della tripartizione (e di quella, da essa derivata, della quadripartizione), ritengono che le cause di giustificazione negano l'antigiuridicità della condotta;
  • diversamente, i fautori della teoria della bipartizione qualificano le cause di giustificazione come elementi negativi della tipicità del fatto, che soltanto in difetto di esse risulta punibile: in tale ottica, il fatto commesso dall'agente in presenza di una causa di giustificazione pecca di tipicità, poiché tipico può dirsi il solo fatto-reato corrispondente a quello astratto descritto dalla norma incriminatrice, e posto in essere in assenza di cause di giustificazione.

Nondimeno, qualunque sia l'opzione prescelta, è pacifica l'opinione, mirabilmente sintetizzata dal prof. ROMANO (op. cit., 523), che le cause di giustificazione (o scriminanti) rientrino tra le cause di esclusione del reato, non (soltanto) della pena: invero, sotto il profilo strettamente processuale, pacificamente, in presenza di una causa di giustificazione (od anche soltanto nel caso in cui sussista dubbio sull'esistenza di una causa di giustificazione: cfr. art. 530, comma 3, c.p.p.), il giudice deve assolvere l'imputato perché il fatto non costituisce reato.

I limiti della valenza scriminante della legittima difesa

L'art. 52 c.p. stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa. La ratio dell'istituto è riconducibile al brocardo vim vi repellere licet: in presenza di un'ingiusta aggressione altrui, lo Stato privilegia la reazione del titolare del bene protetto, ovvero di chi agisca nel suo interesse, in tal modo evitando di intervenire per punire l'aggressore (con conseguente economia delle risorse pubbliche).

La legittima difesa scrimina soltanto in presenza di una serie di condizioni, alcune di natura oggettiva, altre di natura soggettiva, che ne limitano in concreto l'efficacia.

Condizioni oggettive

Sotto il profilo oggettivo, perché la difesa sia legittima occorre che l'aggressione dalla quale ci si difende sia ingiusta e concretizzi un pericolo attuale di un'offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, produrrà la lesione di un diritto dell'aggredito.

In proposito, nel rinviare a quanto più ampiamente esposto in altra sede (S. BELTRANI, op. cit., 337 s.), può in sintesi riepilogarsi che l'aggressione:

  1. è ingiusta anche se perpetrata da soggetto penalmente irresponsabile, perché incapace o immune;
  2. può consistere in una azione o in una omissione (contro cui sia necessario reagire, ad es., per costringere il medico inerte a prestare il dovuto soccorso all'ammalato), anche colposa;
  3. deve avere ad oggetto un diritto, personale o patrimoniale, proprio od altrui, purché non appartenente all'aggressore;
  4. deve minacciare una offesa ingiusta, cioè non legittimata dall'ordinamento, poiché non autorizzata (come, al contrario, sarebbe, ad es., la condotte posta in essere in esercizio di un diritto, su consenso dell'avente diritto, usando legittimamente le armi, ovvero posta in essere a sua volta per legittima difesa), né imposta (come, al contrario, sarebbe, ad es., la condotta posta in essere in adempimento di un dovere).
  5. deve creare un pericolo attuale per il bene protetto, desunto da un effettivo e specifico contegno dell'aggressore, che appaia concretamente preludere, nell'immediato, alla perpetrazione di una determinata offesa ingiusta, che risulti poter essere scongiurata soltanto dalla reazione difensiva, la cui necessità si imponga, a sua volta, immediatamente;

Dal canto suo, la reazione (che può concretizzarsi in una azione – più frequentemente – od in una omissione, come ad es. nel caso di chi ometta di soccorrere il bruto che accusi un malore durante l'aggressione) è legittima se (S. BELTRANI,op. cit., 338 ss.):

  1. sussiste la necessità di difendersi, che si ha quando il soggetto si trovi nell'alternativa tra reagire e subire, nel senso che non può sottrarsi al pericolo, senza offendere l'aggressore (Cass. pen., Sez. I, n. 6811/1994), e va valutata ex ante (Cass.pen., Sez. IV, n. 33591/2016);
  2. il pericolo creato dall'aggressione sia altrimenti inevitabile: la difesa non sarebbe, ad es., legittima in tutti i casi nei quali il soggetto vittima dell'aggressione abbia avuto la possibilità di darsi alla fuga, allontanandosi dall'aggressore senza pregiudizio e senza disonore (Cass.pen., Sez. I, n. 18926/2013 e Cass. pen., Sez. I, n. 5697/2003). Naturalmente la possibilità di fuggire non potrebbe essere opposta al soggetto che, in adempimento del dovere, debba fronteggiare l'aggressione (si pensi agli appartenenti alle Forze dell'ordine);
  3. vi sia proporzione tra l'offesa che si rischia di ricevere e la difesa ad essa opposta. Il requisito della proporzione tra offesa e difesa viene meno nel caso di conflitto fra beni eterogenei, allorché la consistenza dell'interesse leso (ad es., la vita della persona) sia molto più rilevante, sul piano della gerarchia dei valori costituzionali, di quello difeso (l'integrità fisica), ed il danno inflitto con l'azione difensiva abbia un'intensità e un'incidenza di gran lunga superiore a quella del danno minacciato (Cass. pen., Sez. I, n. 47117/2009, in fattispecie nella quale la legittimità della difesa è stata esclusa, perché l'azione difensiva aveva cagionato la morte dell'offensore, in reazione alla minaccia di lesioni personali non gravi; Cass. pen., Sez. I, n. 45407/2004, in fattispecie di conflitto tra l'interesse leso alla vita o incolumità della persona, e quello difeso al patrimonio). La proporzione va valutata ex ante (cioè al momento in cui l'aggressione ebbe luogo, e tenendo conto del modo in cui essa venne percepita dall'aggredito, dei mezzi usati e di quelli in concreto a sua disposizione: Cass. pen., Sez. IV, n. 33591/16) ed in concreto (cioè bilanciando i beni in conflitto, e tenendo anche conto delle qualità personali dell'aggressore e dell'aggredito: ad es., sarà legittima la difesa a mano armata da parte di soggetto di corporatura esile, contro l'aggressione, pur a mani nude, di soggetto di stazza fisica notevolmente superiore, non viceversa).
In particolare, legittima difesa e rissa

Con riferimento alla condizione oggettiva della necessità di difendersi (S. BELTRANI, op. cit., 339), si è molto discusso sulla possibilità di ritenere necessitata la difesa opposta da un soggetto ad un pericolo che egli stesso abbia volontariamente determinato.

L'orientamento giurisprudenziale ormai dominante sembra convenire sul fatto che la determinazione volontaria dello stato di pericolo esclude la configurabilità della difesa legittima per difetto della necessità della difesa (Cass. pen., Sez. I, n. 2654/2011 e Cass. pen., Sez. I, n. 18926/2013): invero, l'uso della parola necessità, nella formulazione legislativa dei requisiti della legittima difesa, assume necessariamente una portata perentoria, che esclude, dal suo rigoroso orizzonte applicativo, qualsiasi caso di volontaria determinazione di una situazione di pericolo, compreso quello in cui l'agente abbia contribuito ad innescare una sorta di duello o sfida contro il suo avversario, abbia organizzato o partecipato ad una spedizione punitiva nei suoi confronti, o abbia comunque accettato uno scontro armato (Cass. pen., Sez. I, n. 12740/2012).

Dalla soluzione del problema dipende l'ulteriore valutazione della compatibilità o meno della legittima difesa con il reato di rissa (art. 588 c.p.).

In proposito, la giurisprudenza è ormai ferma nel ritenere che la legittima difesa può essere invocata soltanto da chi si sia lasciato coinvolgere nella contesa al solo scopo di resistere all'altrui violenza: la difesa attiva deve, cioè, essere contenuta nei limiti della necessità di neutralizzare l'aggressione subita, senza eccedere in iniziative offensive che, in quanto tali, superano l'ambito di applicabilità della scriminante. Diversamente, non è ipotizzabile la legittima difesa in favore dei corissanti, poiché essi sono ordinariamente animati dall'intento reciproco di offendersi ed accettano la situazione di pericolo nella quale volontariamente si sono posti, sicché la loro difesa non può dirsi necessitata; peraltro, anche essi possono eccezionalmente risultare scriminati, quando, sussistendo tutti gli altri requisiti previsti dalla legge, vi sia stata da parte di uno o più corissanti una reazione assolutamente imprevedibile e sproporzionata, ossia una offesa che, per essere diversa e più grave di quella accettata, si presenti del tutto nuova, autonoma ed in tal senso ingiusta (si pensi al caso in cui, nel corso di una scazzottata, uno dei corissanti estragga una pistola, con ciò legittimando la difesa degli antagonisti: Cass. pen., Sez. V, n. 4402/2009 e Cass. pen., Sez. V,n. 32381/2015)

Condizioni soggettive

Sotto il profilo soggettivo (S. BELTRANI, op. cit., 341), non può mai ritenersi legittima la difesa di chi intenda strumentalizzare, coscientemente e volontariamente, le possibilità offerte dall'art. 52 c.p. non per difendere un diritto posto in attuale pericolo da una offesa ingiusta altrui, ma soltanto per sfogare un proprio risentimento, prescindendo dalla necessità di difendersi da un'altrui aggressione ingiusta (Cass. pen., Sez. I, n. 2764/1998).

Per accertare la reale intenzione dell'aggredito, notevole rilevanza assumono, a livello indiziario (art. 192, comma 2, c.p.p.), i mezzi adoperati per respingere l'aggressione.

Quando manca la proporzione tra difesa ed offesa, per eccesso nell'uso dei mezzi adoperati dall'aggredito nel difendersi, occorre differenziare tra eccesso dovuto a negligenza, imperizia, imprudenza ed, in genere, a colpa nella valutazione dell'entità dell'offesa o della misura della difesa, ed eccesso consapevole e volontario:

  • nel primo caso ricorre l'eccesso colposo;
  • nel secondo il delitto è doloso perché la condotta e l'evento sono volontari e previsti.
La legittima difesa con riguardo ai fatti commessi in luogo di privata dimora

Con la legge 59 del 2006, il Legislatore ha aggiunto all'art. 52 c.p. due commi, che disciplinano la legittima difesa che si svolga nel domicilio od in luoghi ad esso equiparabili.

Secondo parte della dottrina, sarebbe stata in tal modo introdotta una nuova causa di giustificazione, «autonoma e distinta, quale forma di estensione della possibilità di reagire da parte di chi venga aggredito nel proprio domicilio, o in luoghi ad esso assimilati in base al 3° comma» (T. PADOVANI, op. cit., 168); l'orientamento (peraltro privo di conseguenze pratiche) non convince, attesa l'evidente sussistenza di un rapporto di species a genus tra la previsione in oggetto (caratterizzata unicamente – a livello descrittivo – dall'ambito spaziale nel quale si verifica l'offesa cui si è legittimati a reagire) e quella di cui all'art. 52, comma 1, c.p. (S. BELTRANI, op. cit., 342).

L'ampliamento del campo d'ordinaria applicazione della legittima difesa presuppone che l'offesa ingiusta si realizzi previa commissione di una violazione di domicilio (art. 614, commi 1 e 2, c.p.), ovvero che taluno si sia indebitamente introdotto o trattenuto all'interno di un'abitazione o di un altro luogo di privata dimora (e nelle sue pertinenze), oppure in ogni altro luogo all'interno del quale taluno eserciti <<un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale>> per perpetrare un'aggressione: la specifica menzione di questi ultimi luoghi appare, peraltro, superflua, poiché essi già rientravano tra i luoghi indicati dall'art. 614, commi 1 e 2, c.p., in quanto il concetto di <<luogo di privata dimora>> è, infatti, per consolidato orientamento giurisprudenziale, più ampio di quello di <<abitazione>>, rientrandovi ogni luogo non pubblico che serve all'esplicazione della vita professionale, lavorativa e commerciale (per tutte, Cass. pen., Sez. V, n. 879/1997).

La norma fa espresso riferimento ai casi previsti dall'art. 614, il che ha indotto parte della dottrina a ritenere che non integri il presupposto di operatività dell'art. 52, comma 2, c.p. il mero tentativo di violazione del domicilio: «il delitto di violazione di domicilio deve essere stato consumato: non basta dunque che l'aggressore abbia tentato di entrare in uno di quei luoghi (ad es., non si potrà sparare contro chi stia scalando il muro sul quale si apre una finestra dalla quale si accede ad un appartamento o ad uno studio professionale» (G. MARINUCCI ed E. DOLCINI, op. cit., 279). Tuttavia, ove si ammetta la possibilità sistematica di ampliare il campo di operatività delle cause di giustificazione codificate per analogia in bonam partem, anche l'ambito di operatività della difesa legittima domiciliare, per trasparente identità di ratio, sembra poter essere ampliato fino a ricomprendere i casi di reazioni a violazioni di domicilio meramente tentate.

La scriminante in esame opera sul presupposto che il soggetto che si introduce fraudolentemente nella dimora altrui, agisca per insidiare l'altrui sfera domestica ovvero le persone che in essa si trovano: ne è stata, pertanto, esclusa la configurabilità in un caso nel quale l'introduzione nell'abitazione dell'imputato era avvenuta non per aggredire quest'ultimo, ma per soccorrere la di lui convivente, che stava per essere aggredita da uno degli altri occupanti la medesima abitazione (Cass. pen., Sez. V, n. 35709/2014).

Il riferimento alla legittimità della presenza del soggetto che reagisce all'interno di uno dei predetti luoghi, impone di ritenere che la scriminante operi non soltanto in favore del dominus, bensì anche del terzo che si trovi in uno di quei luoghi non invito domino (un amico in visita, un cliente in attesa di essere servito): si tratta di una scriminante propria, che può operare (non in favore di chiunque, bensì) soltanto in favore di determinati soggetti, la cui ratio risiede nel fatto che «il legislatore ha in effetti inteso ampliare l'ambito dell'autotutela difensiva negli spazi in cui ciascuno ha ragione di sentirsi maggiormente protetto da intenzioni aggressive: il domicilio rappresenta la proiezione spaziale della persona, e per questo l'art. 14, 1° co., Cost. lo qualifica “inviolabile”. Questo nesso di trasposizione tra persona e domicilio può valere peraltro soltanto per chi sia presente nel domicilio in forza di un titolo legittimo» (T. PADOVANI, op. cit., 170 s.).

Com'è ovvio, per i soggetti non legittimamente presenti in uno dei luoghi indicati dall'art. 52 novellato, l'operatività della legittima difesa non è esclusa, ma resta ancorata alle condizioni ordinariamente previste dall'art. 52, comma 1, c.p., che configura la corrispondente scriminante comune: per questo, come per ogni altro aspetto non specificamente disciplinato, la novella si inserisce in un tessuto normativo preesistente, non modificato.

Per tale ragione, pur nel silenzio della novella, anche la scriminante propria della legittima difesa domiciliare incontra i limiti generali:

Naturalmente, nel ricollegare i principi generali stabiliti dall'art. 52, comma 1, c.p. alla nuova disciplina, deve aversi riguardo alla speciale natura della situazione di fatto che essa regolamenta. Proprio con riferimento alla condizione dell'inevitabilità della reazione, si è, ad esempio, troppo frettolosamente ipotizzato che la ampliata facoltà di reazione non possa operare quando – come si ritiene in generale – sia possibile un commodus discessus («tale limite non è stato intaccato dalla novella legislativa e continua ad operare anche nei casi di aggressione nei luoghi di privata dimora»: G. MARRA,Legittima difesa: troppa discrezionalità. Non chiamiamola licenza di uccidere, in Dir. e giust. 2006, 5, 96), non valorizzando adeguatamente il contesto domiciliare (et similia) nel quale il fatto, per definizione, si sta verificando. Potrebbe pretendersi che il derubando – ove comodamente possibile - abbandoni il proprio appartamento (od il proprio ufficio), all'interno del quale abbia sorpreso il ladro, lasciandogli campo libero, anziché sparargli, e ritenere, in caso contrario, l'illegittimità della reazione armata ? Certamente no! La possibilità di fuga potrà, al più, rendere non legittima la reazione del terzo presente nel domicilio et c. non invito domino (S. BELTRANI, op. cit., 344).

L'ampliamento della facoltà di reazione disposto dalla novella ha, in realtà, avuto luogo unicamente attraverso la previsione di una presunzione assoluta di proporzionalità (all'offesa) della reazione (così, fra le tante, anche Cass. pen., Sez. IV, n. 19375/2013) perpetrata attraverso l'impiego a) di un'arma legittimamente detenuta, oppure b) di altro oggetto idoneo (ovvero atto ad offendere: ad es., coltello da cucina, statuina contundente, martelletto), anche se di provenienza non lecita.

La reazione armata (et c.) deve essere finalizzata alla difesa degli interessi aggrediti (non potendo esser legittimate mere ritorsioni, che strumentalizzino il pericolo), ed in particolare deve esser rivolta a tutela:

a) della incolumità propria od altrui (la nuova disposizione, rispetto a quanto già desumibile dalla preesistente disciplina, consente l'attentato all'incolumità dell'aggressore per tutelare quella propria o del terzo aggredito, pur se quest'ultima sia offesa in grado minimo: ad es., deve ritenersi proporzionata la reazione armata domiciliare anche al mero pericolo di percosse lievi, ovvero provenienti da soggetto non dotato di particolare prestanza fisica);

b) di beni propri od altrui, ma in entrambi i casi soltanto a condizione che:

  • non vi sia desistenza, ovvero cessazione della condotta criminosa prima della consumazione del reato …
  • e sussista pericolo di aggressione (quest'ultimo va necessariamente riferito all'incolumità fisica del soggetto che reagisce o del terzo non aggressore, poiché altrimenti si consentirebbe una reazione armata, in possibile pregiudizio anche della vita - che rientra tra i diritti inviolabili della persona, ex art. 2 Cost. – o comunque della salute – che, a sua volta, costituisce «fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività» exart. 32 Cost. – dell'aggressore, a tutela del patrimonio, bene strumentale che riceve tutela soltanto «allo scopo di assicurarne la funzione sociale», exart. 42, comma 2, Cost.). La previsione di tale requisito risulta, a ben vedere, sovrabbondante, poiché la sua necessità era già desumibile dalla lett. a) dell'art. 52, comma 2, c.p. (S. BELTRANI, op. cit., 345); risulterebbe, ad es., comunque illegittima la reazione armata in danno del ladro che stia fuggendo con la refurtiva senza in alcun modo porre a repentaglio l'incolumità personale del derubato, poiché, pur non essendovi stata desistenza, difetterebbe, in questo caso, il «<pericolo di aggressione».

Per quanto riguarda la distinzione tra l'incolumità e gli altri beni, cui corrispondono diversi limiti di operatività della scriminante in oggetto, deve ritenersi che la prima ricomprenda tutte le attribuzioni della persona (non, dunque, soltanto la vita e l'incolumità personale, ma anche, ad es., la libertà personale: non potrebbe, infatti, negarsi legittimità alla reazione armata della vittima, in danno di chi si sia introdotto nel domicilio per portare a compimento un sequestro di persona); tra i secondi, rientreranno, residualmente, tutti gli altri interessi giuridicamente rilevanti (S. BELTRANI, op. cit., 346).

L'operatività della presunzione di proporzione tra la reazione violenta del soggetto titolare dello jus excludendi e la condotta di chi ne abbia violato il domicilio richiede, inoltre, che si consideri la natura eventualmente necessitata, o comunque giustificabile, della condotta di chi abbia fatto ingresso nell'altrui domicilio (Cass. pen., Sez. V, 3 aprile 2014, D. ed altro).

Osservazioni

1. L'inquadramento dogmatico della legittima difesa tra le cause di esclusione della pena è quanto meno ingannevole, se non tout court non condivisibile:

  • sia ove si intendesse valorizzare l'atecnica espressione adoperata dall'art. 59, comma 1, c.p. per definire gli istituti disciplinati dagli artt. 50 a 54 c.p., poiché la predetta disposizione adopera la – diversa – espressione circostanze che […] escludono la pena (circostanze, non cause);
  • sia ove si intendesse evocare una delle categorie enucleate dalla dottrina, poiché, come illustrato, secondo la dottrina le cause di giustificazione (o scriminanti) rientrano tra le cause di esclusione del reato, non della pena, tanto vero che il giudice, ove ricorra una situazione di legittima difesa, deve assolvere l'imputato perché il fatto non costituisce reato.

Al contrario, con la poco adoperata espressione cause di esclusione della pena si intende, al più, fare riferimento o alle cause di non punibilità originarie (o esimenti) tra le quali rientrano la fattispecie di cui all'art. 649 c.p. e la più ampia categoria delle immunità, e che si distinguono dalle cause scriminanti e dalle cause scusanti), oppure alle cause di non punibilità sopravvenuta (o cause di estinzione del reato) (tra le quali rientrano gli istituti disciplinati dagli artt. 171 ss. c.p.).

2. La legittima difesa non è, in assoluto, incompatibile con il reato di rissa, che tuttavia può risultare scriminato soltanto nei limiti innanzi specificati.

3. Al contrario di quanto ritenuto da parte della dottrina (G. MARINUCCI ED E. DOLCINI, op. cit., 280), la disciplina della c.d legittima difesa domiciliare non ha comportato il rilascio di una indiscriminata “licenza di uccidere”; essa risulta, a ben vedere, non particolarmente innovativa, avendo, al più, reso legittime limitate condotte in precedenza rilevanti sub specie di eccesso colposo (ex art. 55 c.p.), se dall'aggressione derivi un pericolo lieve per l'incolumità personale dell'aggredito (Cass. pen., Sez. IV,n. 19375/2013). Non a caso, sin dalle prime applicazioni, la giurisprudenza ha osservato che «anche alla stregua di tale novellato disposto legislativo, l'uso di un'arma legittimamente detenuta, quanto al rapporto di proporzione di cui al comma 1, concretizza l'esimente in discorso quando è volto a “difendere la propria o altrui incolumità”, ovvero “i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione”», precisando che siffatta valutazione deve pur sempre aver riguardo alla situazione concreta sussistente ex ante, ovvero nel momento in cui si faccia uso dell'arma: pertanto, nel caso paradigmatico del soggetto che abbia esploso uno o più colpi d'arma da fuoco all'indirizzo del ladro ormai in fuga, colpendolo alle spalle, più non sussisterebbe la necessità di “difendere la propria o altrui incolumità”, e, quanto ai beni patrimoniali, più non sussisterebbe un “pericolo di aggressione”; se non abbia portato con sé la refurtiva, inoltre, il ladro avrebbe, in sostanza, desistito dal suo iniziale intento aggressivo (Cass. pen., Sez. IV, n. 32282/2006: in applicazione del principio, è stata confermata la sentenza di merito che aveva esclusa la scriminante nella condotta dell'imputato, che aveva esploso un colpo di pistola dalla finestra dell'abitazione, uccidendolo, contro un ladro, in precedenza introdottosi nella sua abitazione, allorquando questi si stava dando alla fuga).

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