Il concetto di “infermita' di mente” elaborata dalla giurisprudenza di legittimità

Alessio Innocenti
14 Luglio 2015

Gli artt. 88 e 89 c.p. — laddove individuano, quale causa di esclusione della imputabilità o attenuazione della stessa, l'incapacità (totale o parziale) di intendere e volere dell'agente al momento del fatto — precisano che essa deve derivare da “infermità”.Visto lo stretto nesso individuato dall'ordinamento tra assenza di imputabilità (id est incapacità di intendere e volere) e infermità mentale, onde definire in modo sufficientemente preciso l'ambito applicativo delle norme espresse negli artt. 88 e 89 c.p., si rende necessario un approfondimento in ordine alla concezione di “infermità” elaborata dalla giurisprudenza di legittimità.
Abstract

Gli artt. 88 e 89 c.p. — laddove individuano, quale causa di esclusione della imputabilità o attenuazione della stessa, l'incapacità (totale o parziale) di intendere e volere dell'agente al momento del fatto — precisano che essa deve derivare da “infermità”.

Visto lo stretto nesso individuato dall'ordinamento tra assenza di imputabilità (id est incapacità di intendere e volere) e infermità mentale, onde definire in modo sufficientemente preciso l'ambito applicativo delle norme espresse negli artt. 88 e 89 c.p., si rende necessario un approfondimento in ordine alla concezione di “infermità” elaborata dalla giurisprudenza di legittimità.

I diversi orientamenti giurisprudenziali prima dell'intervento delle Sezioni Unite

Per comprendere appieno i diversi orientamenti giurisprudenziali ed apprezzare la portata “storica” della svolta operata dalle Sezioni unite, occorre volgere lo sguardo, seppur brevemente, ai diversi approcci che si sono fatti strada nella scienza psichiatrica e che hanno fortemente influenzato le decisioni di legittimità che si sono stratificate nel corso degli ultimi decenni.

Secondo il più tradizionale (e risalente) paradigma medico, le infermità mentali altro non sono se non vere e proprie malattie del cervello e/o del sistema nervoso, aventi, perciò, un substrato organico o biologico. Tale modello nosografico è stato elaborato da Emil Kraepelin sul finire del XIX secolo ed afferma, sostanzialmente, la qualificazione dell'infermità di mente alla stregua di una manifestazione patologica sostanziale; essa muove dal concetto del disturbo psichico come infermità "certa e documentabile" e predica (e in un certo senso presuppone) la configurazione di specifici modelli di infermità e della loro sintomatologia.

Agli inizi del XX secolo, sotto l'influenza del pensiero di Freud, si è affermato un diverso paradigma, detto psicologico, per il quale i disturbi mentali rappresentano compromissioni dell'apparato psichico a causa delle quali la realtà inconscia prevale sul mondo reale. Per questa teoria nello studio delle infermità mentali devono ritenersi maggiormente rilevanti i fatti interpersonali, di carattere dinamico, piuttosto che gli aspetti strettamente biologici, di carattere statico. I disturbi mentali vengono, quindi, ricondotti a "disarmonie dell'apparato psichico in cui le fantasie inconsce raggiungono un tale potere che la realtà psicologica diventa, per il soggetto, più significante della realtà esterna" e, "quando questa realtà inconscia prevale sul mondo reale, si manifesta la malattia mentale". Il concetto di infermità, quindi, si allarga, fino a comprendere non solo le psicosi organiche, ma anche altri disturbi morbosi dell'attività psichica, come le psicopatie, le nevrosi, i disturbi dell'affettività: oggetto dell'indagine, quindi, non è più la persona-corpo, ma la persona-psiche.

Infine, intorno agli anni 70 del secolo XX si è proposto un altro indirizzo, detto “sociologico”, per il quale la malattia mentale è disturbo psicologico avente origine sociale, non più attribuibile ad una causa individuale di natura organica o psicologica, ma a relazioni inadeguate nell'ambiente in cui il soggetto vive; esso nega la natura fisiologica dell'infermità e pone in discussione anche la sua natura psicologica ed i principi della psichiatria classica, proponendo, in sostanza, un concetto di infermità di mente come "malattia sociale".

Il mutamento di prospettiva in ambito scientifico-psichiatrico ha influenzato profondamente la giurisprudenza, comportando una apertura del corpo giudiziario verso aspetti e disturbi della psiche umana, fino a poco tempo fa ritenuti assolutamente ininfluenti ai fini dell'accertamento giudiziale della capacità di intendere e volere e, dunque, dell'imputabilità.

Secondo un primo orientamento, che può dirsi ormai superato, il concetto di infermità di cui agli artt. 88 e 89 c.p. doveva identificarsi con quello di vera e propria “malattia mentale”, intesa in senso stretto. Si trattava di una trasposizione normativo-giurisprudenziale del paradigma medico, imperante verso la fine del XIX secolo.

Per tale tesi rilevavano, cioè, solo “le insufficienze cerebrali originarie o quelle derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche, contraddistinte, queste ultime, da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità", sicché "esula dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle cosiddette abnormità psichiche, come le nevrosi e le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso e si sostanziano in anomalie del carattere non rilevanti ai fini dell'applicabilità degli artt. 88 e 89 c.p., in quanto hanno natura transeunte, si riferiscono alla sfera psico-intellettiva e volitiva e costituiscono il naturale portato di stati emotivi e passionali" (così, Cass. pen., Sez. VI, n. 26614/2003). Nel solco di questo indirizzo interpretativo decisamente restrittivo possono essere ricondotte, tra le altre, le seguenti pronunce: Cass.pen., Sez. III, 25 marzo 2003, n. 22834; Cass.pen., Sez. I, 4 aprile 1995, n. 7315; Cass.pen., Sez. V, 19 novembre 1997, n. 1078).

Un secondo orientamento, rifacendosi al paradigma psicologico, ha iniziato a recepire, invece, un concetto ben più ampio di “infermità”, intesa non più solo e soltanto come “malattia mentale” in senso stretto, bensì ricomprendente anche le anomalie psichiche non classificabili secondo rigidi e precisi schemi nosografici e, quindi, sprovviste di sicura base organica. Ciò che rileva, per questa tesi, ai fini della esclusione o della diminuzione dell'imputabilità, è l'intensità dell'anomalia medesima, dovendosi accertare se essa sia o meno in grado di escludere totalmente o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere (Cass.pen., Sez. I, 9 aprile 2003, n. 19532; Cass.pen., Sez. I, 22 aprile 1997, n. 5885; Cass.pen., Sez. I, 4 marzo 1997, n. 3536; Cass., Sez. I, n. 14122/1986).

Una variante di tale secondo orientamento ha dato rilievo, al fianco dell'intensità del disturbo, anche un ulteriore requisito ovvero quello della necessità della sussistenza di una correlazione diretta tra il disturbo psichico e l'azione delittuosa posta in essere dal soggetto agente e quindi tra abnormità psichica effettivamente riscontrata e determinismo dell'azione delittuosa (Cass.pen., Sez. I, 9 aprile 2003, n. 19532; Cass. pen., Sez. I, 4 marzo 1997, n. 3536).

La nozione di “infermità di mente” elaborata dalle sezioni unite del 2005

Le Sezioni unite della Suprema Corte, con sentenza 25 gennaio 2005, n. 9163, ha affrontato i diversi orientamenti giurisprudenziali fino ad allora affermatisi, definitivamente abbandonando la teoria restrittiva dell'infermità di mente come vera e propria malattia mentale.

La Suprema Corte, conscia del fatto che l'adesione all'una o all'altra tesi non è questione meramente accademico-teorica priva di rilievo, ha affermato senza mezzi termini la rilevanza del "disturbo di personalità" laddove in concreto sia indicativo di una situazione di infermità mentale che escluda la rimproverabilità della condotta al soggetto agente, cioè la sua colpevolezza, dovendo in tal caso trovare necessariamente applicazione gli artt. 85 e 88 c.p.

Pur non negando uno strettissimo rapporto tra i due piani del giudizio (quello biologico e quello normativo) e rigettando l'idea di un concetto normativo di infermità del tutto artificiale scollegato dal dato empirico, la Cassazione apre alla rilevanza penale di una serie di patologie, variamente definite ("disturbo psichico o neuro psichico", "turbe mentali patologiche, per un profondo disturbo della coscienza, per deficienza mentale od altra grave anomalia mentale", "condizioni psicopatologiche di carenza dello sviluppo o disturbo morboso delle capacità mentali", "qualsiasi anomalia o alterazione psichica", "anomalia psichica", "infermità mentale permanente o temporanea, disturbi psichici temporanei, sviluppo psichico imperfetto o altra anomalia psichica permanente e grave"), seppur non riconducibili ad una specifica malattia mentale avente base organica.

Si osserva, infatti, che anche ai disturbi della personalità può essere attribuita una attitudine, scientificamente condivisa, a proporsi come causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente; del resto, osserva la Corte, tale concezione “si appalesa, al postutto, pienamente in consonanza col disposto dell'art. 85 c.p. – di cui, anzi, si pone come ineludibile germinazione – e, più in generale ed ancor prima, con la impostazione sistematica dell'istituto, secondo il suo orientamento costituzionale cui sopra si è accennato: ai fini di tale codificato generale principio, difatti, non può non rilevare una situazione psichica che, inserita nel novero delle "infermità", determini, ai fini della imputabilità, una incolpevole non riconducibilità di determinate condotte al soggetto agente, quale persona dotata "di intelletto e volontà", libera di agire e di volere, cognita del valore della propria azione, che ne consenta la sua soggettiva ascrizione, senza che su tale sostanziale condizione possa fare aggio la mancanza (o la difficoltà) della sua riconducibilità ad un preciso, rigido e predeterminato, inquadramento clinico, una volta che rimanga accertata la effettiva compromissione della capacità di intendere e di volere.”

Per le Sezioni unite, in sostanza, una lettura sistematica delle norme rilevanti e una interpretazione autenticamente garantista delle disposizioni che disciplinano l'imputabilità, presupposto necessario della colpevolezza, impongono di distinguere il concetto di “infermità” ex artt. 88 e 89 c.p. da quello, più ristretto e rigoroso, di vera e propria “malattia mentale”: ciò che rileva è, infatti l'attitudine del disturbo a influire sulla capacità di discernimento e di autodeterminazione dell'autore del fatto, escludendole o scemandole notevolmente.

Ciò, si badi bene, non significa riconoscere rilevanza a qualsiasi disturbo o disarmonia: non possono, infatti, avere rilievo, ai fini della imputabilità, altre "anomalie caratteriali", "disarmonie della personalità", "alterazioni di tipo caratteriale", "deviazioni del carattere e del sentimento", quelle legate "alla indole" del soggetto, che, pur afferendo alla sfera del processo psichico di determinazione e di inibizione, non si rivestano, tuttavia, di quel rilievo di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente, nei termini e nella misura voluta dalla norma, secondo quanto sopra si è detto; né, di regola, possono assumere rilievo alcuno gli stati emotivi e passionali, per la espressa disposizione normativa di cui all'art. 90 c.p., salvo che essi non si inseriscano, eccezionalmente, per le loro peculiarità specifiche, in un più ampio quadro di "infermità", avente le connotazioni sopra indicate.

La Corte individua poi un ulteriore requisito fondamentale, essendo necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo.

L'esame e l'accertamento di tale nesso eziologico si appalesa necessario, secondo i Supremi giudici “al fine di delibare non solo la sussistenza del disturbo mentale, ma le stesse reali componenti connotanti il fatto di reato, sotto il profilo psico-soggettivo del suo autore, attraverso un approccio non astratto ed ipotetico, ma reale ed individualizzato, in specifico riferimento, quindi, alla stessa sfera di possibile, o meno, autodeterminazione della persona cui quello specifico fatto di reato medesimo si addebita e si rimprovera; e consente, quindi, al giudice – cui solo spetta il definitivo giudizio al riguardo – di compiutamente accertare se quel rimprovero possa esser mosso per quello specifico fatto, se, quindi, questo trovi, in effetti, la sua genesi e la sua motivazione nel disturbo mentale (anche per la sua, eventuale, possibile incidenza solo "settoriale"), che in tal guisa assurge ad elemento condizionante della condotta: il tutto in un'ottica, concreta e personalizzata, di rispetto della esigenza generalpreventiva, da un lato, di quella individual-garantista, dall'altro.”

Dalle argomentazioni si qui illustrate, le Sezioni unite hanno definitivamente espresso il seguenti principio di diritto: “ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrano nel concetto di "infermità" anche i "gravi disturbi della personalità", a condizione che il giudice ne accerti la gravità e l'intensità, tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, e il nesso eziologico con la specifica azione criminosa.”

La giurisprudenza successiva conferma l'approdo delle Sezioni Unite

La giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza delle Sezioni unite del 2005 di cui si è detto sopra, si è conformata al dictum dell'autorevole collegio, coltivando un concetto ampio, sebbene non illimitato, di “infermità di mente” penalmente rilevante. Può, pertanto, dirsi ormai pacifico che l'incapacità di intendere e volere (totale o parziale) penalmente rilevante – come causa di esclusione della imputabilità (artt. 85 e 88 c.p.) o come attenuante di natura soggettiva “inerente alla persone del colpevole” (artt. 70 e 89 c.p.) – possa conseguire non solo a malattie mentali vere e proprie ma anche a disturbi della personalità purché essi siano di tale gravità da escluderla o grandemente scemarla e sempre che vi sia un nesso eziologico tra questi e il fatto commesso.

Tra le molte pronunce rese dalla Suprema Corte dopo la sentenza delle Sezioni Unite, in particolare, possono essere ricordate le seguenti:

In conclusione

La giurisprudenza di legittimità ormai consolidata e la dottrina maggioritaria riconoscono rilievo ai fini e per gli effetti degli artt. 88 e 89 c.p. non solo alle malattie mentali in senso stretto, ma anche ai disturbi della personalità, variamente nominati e definiti, purché ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni:

  • la sussistenza di un disturbo della psiche, anche di carattere transitorio, al momento del fatto di reato;
  • il disturbo sia di tale gravità da escludere o grandemente scemare la capacità di intende e volere;
  • vi sia un nesso eziologico tra il disturbo ed il fatto commesso, nel senso che il reato deve trovare il suo determinismo (rectius, un condizionamento rilevante) nella patologia mentale che affligge il soggetto agente.

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