La declaratoria di inammissibilità: poteri del presidente del Tribunale di sorveglianza
15 Luglio 2015
Abstract
In forza dell'art. 236, comma 2, disp. att. c.p.p., il potere di dichiarare l'inammissibilità di un'istanza diretta al tribunale di sorveglianza è ora disciplinato dalla norma di carattere generale di cui all'art. 666, comma 2, c.p.p. Si tratta di uno strumento assai importante ai fini della deflazione del carico processuale delle udienze del tribunale di sorveglianza e per la migliore organizzazione e gestione delle sopravvenienze, contribuendo a concentrare il lavoro dell'assise collegiale sulle posizioni effettivamente meritevoli di approfondito vaglio e suscettibili di favorevole esito, espungendo in limine quelle istanze che appaiono, invece, manifestamente infondate per difetto delle condizioni di legge ovvero costituiscano mera riproposizione di altra istanza già rigettata sulla base dei medesimi elementi (art. 666, comma 2, c.p.p.). La carenza delle condizioni di legge deve, invero, intendersi rigorosamente e in senso restrittivo, come difetto dei presupposti posti dalla legge per l'emanazione del provvedimento, non controversi e che non implichino alcuna valutazione discrezionale da parte del giudice (Cass. pen., Sez. I, 25 giugno 2003, n. 27344). Il sacrificio del contraddittorio è giustificato, nei detti casi, dal ricorrere di tali tassative condizioni poste dalla legge e proprio per tale ragione la giurisprudenza ha in più occasioni ribadito l'opportunità di un utilizzo rigoroso del detto potere. La dichiarazione di inammissibilità de plano da parte del presidente del tribunale di sorveglianza è legittima, in deroga al principio del contraddittorio, soltanto laddove la richiesta appaia manifestamente infondata (sempre che la manifesta infondatezza, dovuta alla mancanza dei requisiti minimi di legge, non implichi un apprezzamento discrezionale), ovvero sia identica, per oggetto e per elementi giustificativi, ad altra già rigettata (Cass. pen, Sez.I, 19 maggio 2005, n. 23101). La manifesta infondatezza della domanda per carenza delle condizioni di legge
Con riferimento alla prima ipotesi di inammissibilità, la carenza delle condizioni di legge deve intendersi rigorosamente e in senso restrittivo, come difetto, cioè, dei presupposti posti dalla legge per l'emanazione del provvedimento, qualora si tratti di profili non di fatto o di diritto emergenti dagli atti e che non implichino alcuna valutazione discrezionale da parte del giudice (Cass. pen., Sez. I, 11 febbraio 1994, n. 6212), ovvero la soluzione di questioni giurisprudenziali controverse (Cass. pen., Sez. I, 25 giugno 1990). Si tratta, in altri termini, di una carenza dei presupposti normativi che risulti ictu oculi ed alle quali consegua una decisione sostanzialmente vincolata. Soltanto in questi termini ed a queste condizioni, infatti, può giustificarsi il sacrificio del contraddittorio che inevitabilmente consegue all'esercizio del potere di cui all'art. 666, comma 2, c.p.p. (Cass. pen., Sez. III, 3 giugno 1995). Sotto tale aspetto, la detta censura non deve implicare una valutazione sul merito dell'accoglibilità della domanda ma deve riguardare unicamente i presupposti minimi indefettibili, in assenza dei quali la domanda non potrebbe mai trovare accoglimento. L'esercizio del potere-dovere del giudice di sorveglianza di effettuare il controllo di ammissibilità della domanda introduttiva degli interessati è garantito dal controllo che il P.M. esercita formulando il proprio parere in ordine all'eventuale inammissibilità della domanda. (Cass. pen., Sez. I, 3 agosto 1992, n. 2677).
Altre ipotesi in cui è stata esclusa l'inammissibilità della domanda di misura alternativa per manifesta infondatezza della stessa riguardano:
Per contro, si è ritenuto correttamente dichiarata l'inammissibilità nelle seguenti fattispecie:
In definitiva, sono sempre sottratti alla declaratoria di inammissibilità senza contraddittorio i casi di:
Il caso dei collaboratori di giustizia
Il caso delle istanze formulate da condannati per taluno dei reati di cui all'art. 4-bis, ord. penit., assume particolare delicatezza dopo le sentenze della Corte costituzionale n. 306/1993, 357/1994 e 68/1995 e la successiva modifica normativa che, recependone il dictum, ha limitato l'inammissibilità delle istanze dei benefici penitenziari ivi indicati alle ipotesi in cui l'interessato, condannato per un reato di cui all'art. 4-bis cit., non sia stato dichiarato collaboratore di giustizia, ovvero si trovi in quelle particolari condizioni sussunte a livello normativo tali da escludere la preclusione assoluta all'accesso al beneficio invocato (es. ruolo marginale del soggetto nell'attività delittuosa contestata) e sempre che risultino elementi che consentono di escludere in maniera certa l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. Invero, in tali ipotesi il presidente del tribunale di sorveglianza non potrebbe dichiarare inammissibile l'istanza ai sensi dell'art. 666 c.p.p. sul presupposto della mancanza di condizioni, per essere stato l'istante condannato per uno dei delitti indicati nell'articolo, ma l'istanza stessa deve essere esaminata dal tribunale di sorveglianza (Cass. pen., Sez. I, 2 febbraio 1996, n. 6625). Per tale indirizzo, infatti, neanche la condizione di soggetto condannato per uno dei delitti elencati nel citato art. 4-bis, ord. penit. preclude, in assoluto, la concessione dei benefici penitenziari, dovendosi accertare se l'interessato abbia prestato collaborazione con gli organi inquirenti ovvero se si versi in ipotesi di collaborazione ininfluente o impossibile, come statuito medesimo articolo (Cass. pen., Sez. I, 8 luglio 1998, ord. 3374). Peraltro, un più recente indirizzo afferma che la dichiarazione di inammissibilità de plano di una richiesta proposta in relazione ad una misura alternativa può essere riservata al presidente del collegio giudicante solo quando difettino i requisiti posti direttamente dalla legge per l'accoglimento della stessa e la relativa statuizione non implichi alcuna valutazione discrezionale (Nel caso di specie, il presidente del tribunale di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile la domanda di affidamento in prova al servizio sociale, rilevando che l'instante stava espiando una condanna per reato aggravato ex art. 7 d.l. 152/1991 e che dagli atti non emergevano elementi utili a legittimare l'ammissibilità della domanda: Cass. pen., Sez. I, 14 ottobre 2011, n. 40974). La mera riproposizione dell'istanza rigettata
Con riferimento alla prima ipotesi di inammissibilità sopra indicata, la giurisprudenza ha precisato che l'istituto dell'inammissibilità trova fondamento nel principio della preclusione processuale, in forza del quale non può essere riproposta un'istanza fondata sui medesimi presupposti di fatto e sulle stesse ragioni di diritto di quella precedente, già dichiarata inammissibile ovvero rigettata con provvedimento non impugnato e perciò divenuto definitivo (Cass. pen., Sez. I, 8 febbraio 2000, n. 6628). La giurisprudenza interpreta in senso restrittivo le ipotesi che possono rientrare nella detta previsione normativa, precisando che ogni allegazione che presenti elementi di novità – anche minimi – rispetto al patrimonio di dati posto alla base di precedente decisione, tali dunque da modificare il quadro istruttorio posto alla base della precedente decisione, impone la trattazione del procedimento nelle forme camerali partecipate di cui all'art. 678, c.p.p.
Impugnazione
Avverso il decreto del presidente del tribunale di sorveglianza che dichiara inammissibile, per difetto delle condizioni di legge, un'istanza diretta ad ottenere un beneficio penitenziario o una misura alternativa alla detenzione non è ammessa alcuna opposizione ma esclusivamente il ricorso per cassazione previsto dall'art. 666 c.p.p. (Cass. pen., Sez. I, 18 luglio 1997, n. 2099).Al proposito, la Corte di legittimità ha affermato che l'art. 666, comma 7, c.p.p., secondo il quale il ricorso contro l'ordinanza decisoria del procedimento di esecuzione non ha efficacia sospensiva (salvo che il giudice che l'ha emessa disponga diversamente), è norma eccezionale di stretta applicazione, in quanto derogatoria del principio generale dell'effetto sospensivo delle impugnazioni, fissato dall'art. 588, comma 1 c.p.p. Pertanto, il ricorso per cassazione proposto avverso il decreto di inammissibilità adottato ai sensi dell'art. 666, comma 2, c.p.p. esplica l'effetto suo proprio di sospendere l'esecuzione del provvedimento fino alla conclusione del giudizio di cassazione (Cass. pen., Sez.V, 5 luglio 1994).
In conclusione
Sul delicato contemperamento tra il “diritto al procedimento” posto in capo all'interessato e l'esigenza di economia processuale sottesa alla previsione del potere presidenziale di cui all'art. 666, comma 2, c.p.p. si gioca, in definitiva, la partita della compatibilità costituzionale del controverso istituto dell'inammissibilità. Per tale motivo l'operatività dell'istituto è stata fortemente circoscritta dalla giurisprudenza di legittimità, che ha manifestato una netta avversione per il sacrificio del contraddittorio, fornendo una interpretazione restrittiva dei casi in cui è consentita al presidente del tribunale di sorveglianza (e al magistrato di sorveglianza monocratico) la declaratoria di inammissibilità. Guida all'approfondimento
Dalia, I diritti del detenuto nel procedimento di sorveglianza, in Grevi (a cura di), Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria, Bologna, 1982, 2471982, 247; Fiorentin, Esecuzione penale e misure alternative alla detenzione, Milano 2013; Kostoris, Linee di continuità e prospettive di razionalizzazione nella nuova disciplina del procedimento di sorveglianza, in Grevi (a cura di), L'Ordinamento Penitenziario tra riforma ed emergenza, Padova, 1994, 227.
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