Reformatio in pejus. Le Sezioni unite intervengono sulla valutazione delle prove dichiarative decisive

15 Luglio 2016

La sentenza delle Sezioni unite n. 27620, emessa il 28 aprile 2016 e depositata il 6 luglio 2016, risolve il contrasto insorto sulla rilevabilità della violazione di legge conseguente alla violazione dell'art. 6 Cedu, scegliendo la terza via di considerare non la violazione in sé ma gli inevitabili riflessi sul vizio di motivazione.
Abstract

La sentenza delle Sezioni unite n. 27620, emessa il 28 aprile 2016 e depositata il 6 luglio 2016, risolve il contrasto insorto sulla rilevabilità della violazione di legge conseguente alla violazione dell'art. 6 Cedu, scegliendo la terza via di considerare non la violazione in sé ma gli inevitabili riflessi sul vizio di motivazione; la Corte offre così un nuovo riferimento per risolvere il difficile innesto della Convenzione Edu nel nostro ordinamento, oltre che una guida pratica di risoluzione dei casi più frequenti nella pratica giudiziaria, riassunte con massime ufficiali:

I principi contenuti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, come viventi nella giurisprudenza consolidata della Corte EDU, pur non traducendosi in norme di diretta applicabilità nell'ordinamento nazionale, costituiscono criteri di interpretazione (convenzionalmente orientata) ai quali il giudice nazionale è tenuto a ispirarsi nell'applicazione delle norme interne.

L'affermazione di responsabilità dell'imputato pronunciata dal giudice di appello su impugnazione del p.m., in riforma di una sentenza assolutoria fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia stata disposta la rinnovazione a norma dell'art. 603, comma 3, c.p.p., integra di per sé un vizio di motivazione della sentenza di appello ex art. 606, comma 1, lett. e), per mancato rispetto del canone di giudizio al di la di ogni ragionevole dubbio di cui all'art. 533, comma 1. In tal caso, al di fuori dei casi d'inammissibilità del ricorso, qualora il ricorrente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell'art. 6 par. 3 lett. d), della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la Corte di Cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata.

Gli stessi principi trovano applicazione nel caso di riforma della sentenza di proscioglimento di primo grado, ai fini delle statuizioni civili sull'appello proposto della parte civile

Dalla motivazione rafforzata alla immediatezza nei casi di ragionevole dubbio

La difficile compatibilità della riforma di una sentenza assolutoria con il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio era da tempo avvertito nel nostro ordinamento, per la difficoltà – insuperabile – di conferire certezza ad una seconda, diversa, valutazione del materiale probatorio di primo grado assunto nel principio di immediatezza.

I rimedi, tuttavia, si sono rilevati presto inadeguati per eccesso – nella naufragata legge 46/2006, che aveva tentato d'incidere tout court sull'appellabilità della sentenza assolutoria, senza riuscire a superare il vaglio della Corte costituzionale – e per difetto, nell'illusoria garanzia della c.d. motivazione rafforzata.

Quest'ultima pretendeva di risolvere con uno sforzo motivazionale più rigoroso, non meramente alternativo al giudizio di assoluzione, i ragionevoli dubbi sul grado di certezza di una seconda valutazione, rispetto ad una sentenza di assoluzione formatasi nella dialettica e nella immediatezza della prova dichiarativa, che si intendeva valutare diversamente.

Sul piano delle garanzie il risultato appariva immediatamente sterile per l'elementare ragione che l'imputato assolto in primo grado non poteva beneficiare di un controllo sul merito della condanna, perché intervenuta in secondo grado, a differenza dell'imputato riconosciuto colpevole in primo grado: serviva qualcosa di più concreto ed efficace.

Il percorso di adeguamento della giurisprudenza italiana approda ad una intepretazione convenzionalmente orientata dell'art. 603 c.p.p., che regola i poteri istruttori della Corte di appello, alla luce dell'art. 6, par. 3, lett. d) della Cedu, che garantisce all'imputato il diritto di esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico.

Tale riferimento, seguito dalle Sezioni unite, è stato criticato autorevolmente in forza dell'obiezione che la norma Cedu non dice nulla di più – e molto di meno – del nostro art. 111 Cost. e, pertanto, tali garanzie erano già da tempo presenti nel nostro ordinamento.

È innegabile, in ogni caso, che la giurisprudenza della Corte Edu ha svolto un ruolo decisivo nel guidare e condurre interpretazioni orientate sempre più decise ed efficaci, e che Cedu e Costituzione operano in una sorta di collegamento funzionale che rende più agevole l'espansione delle garanzie; il giudice nazionale, deve tenere presente infatti – secondo la Corte costituzionale – gli indirizzi affermatisi a Strasburgo nella loro “sostanza”, per dare attuazione alle interpretazione convenzionalmente orientate.

E così, alcuni principi del diritto processuale penale, a lungo tempo collocati ai margini del sistema, riprendono vita: l'oralità, di cui non vi è traccia nel codice, è presente nella legge delega del 1987, al punto 2 n. 2, ove si prescrive esplicitamente l'adozione del metodo orale, come uno dei criteri con cui attuare i caratteri del modello accusatorio; parimenti, il principio di immediatezza aveva trovato una sola ipotesi di nullità speciale prevista dall'art. 525 c.p.p. e (sempre più) numerose eccezioni.

Oggi, invece, nei casi di riforma peggiorativa, costituiscono un metodo legale per preservare la logicità della motivazione nell'affrontare ragionevoli dubbi non più altrimenti superabili: principio rivoluzionario nel significare che anche il “non detto” che emerge dalla escussione delle fonti di prove orali – quali il contegno delle parti, le movenze, le pause, gli scatti, le incertezze nelle risposte – non può essere ignorato nel caso si renda necessario distaccarsi, in senso peggiorativo, dalla interpretazione di chi ha goduto di un punto di vista privilegiato.

L'estensione della regola nei casi particolari

Di particolare interesse sono i passaggi incidentali della sentenza che chiariscono la necessità di dare applicazioni ai principi anche in casi analoghi, al fine di prevenire future interpretazioni restrittive, lesive della Convenzione.

Ragioni di coerenza, infatti, impongono alla Corte di appello di procedere alla assunzione della prova secondo il principio di immediatezza anche nel caso di impugnazione del pubblico ministero contro una pronuncia di assoluzione emessa nell'ambito di un giudizio abbreviato, ponendo così il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio al di sopra delle ragioni di economia (e della rinuncia al contradditorio parziale o totale) del rito speciale, compensate dalla riduzione di pena.

Ancora, a nulla rileva che gli interessi in gioco riguardino la libertà personale o gli interessi civili, estendendo la garanzia di un giusto processo all'imputato di un processo penale con riferimento ad ogni possibile statuizione.

Sul punto, la mente corre alle minori garanzie in favore di soggetti sottoposti a procedimento di prevenzione patrimoniale, con sequestri che comprendono l'intero patrimonio; appare inevitabile che il percorso garantista imposto dai dettami (anche) europei finisca per interessare, prima o poi, soggetti con interessi di natura esclusivamente patrimoniale, spesso compressi con modalità più gravose e invasive ma non meno importanti di quelli in gioco nel “garantito” processo penale.

La Corte affronta, infine, il caso della impossibilità della prova sopravvenuta, eliminando, anche in questa ipotesi limite, la possibilità di fare ricorso alla motivazione rafforzata, strumento oggi definitivamente scomparso dal nostro ordinamento: se il teste, valutato utile ai fini di una pronuncia assolutoria, non si può risentire (per fatto non imputabile all'imputato) non è possibile addivenire ad una sentenza certa di condanna sulla base di una diversa valutazione ex actis.

Il significato peculiare di “decisività” della prova da riassumere

La prova da riassumere deve essere idonea, da sola o insieme ad altri elementi di prova, a modificare il giudizio di condanna; e in ciò la sentenza consente un ricorso più ampio rispetto alla prova decisiva non assunta prevista dall'art. 606, comma1, lett. d), c.p.p.

Quest'ultima presuppone una richiesta di parte negata e che la prova, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia (fra le tante, la Corte richiama la sentenza emessa dalla Sez. IV, 23 gennaio 2014, n. 6783).

Nello scenario preso in esame dalla sentenza, invece, il giudice di appello deve prendere in considerazione non prove negate ma prove da riassumere, il cui contenuto rappresentativo si era già completamente dispiegato in primo grado ed ha dunque già formato oggetto della decisione impugnata, che proprio su esso ha fondato l'esito assolutorio; quindi, la prova è decisiva se ha la potenzialità in astratto, da sola o con altri mezzi di prova, di incidere sul mutamento del giudizio, fermo restando che solo l'immediatezza consentirà di comprendere se la prova sarà effettivamente dotata di efficacia dimostrativa.

La Corte è perentoria nello statuire che l'immediatezza nell'assunzione della prova non è suscettibile di surrogati interpretativi che farebbero ricadere l'apprezzamento nel solo dato cartolare.

Vengono, dunque, respinti quegli orientamenti restrittivi fondati sulle talvolta propugnate eccezioni afferenti al carattere estrinseco dell'attendibilità, all'esigenza di valorizzare elementi asseritamente travisati o nuove acquisizioni documentali, ovvero alla natura difensiva e non probatoria delle dichiarazioni di coimputati nel medesimo reato. Trattasi, infatti, di distinzioni evanescenti, i cui contorni tendono, peraltro, a confondersi col crisma della decisività.

In conclusione

I due orientamenti al vaglio delle Sezioni unite partivano da un dato certo, ovvero che la necessità di una nuova istruzione dibattimentale – in caso di riforma peggiorativa – è imposta dall'art. 6 Cedu, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo e quindi si risolve in una violazione di legge processuale, da eccepire ai sensi della lett. c) dell'art. 606 c.p.p.

Ciò pacificamente ammesso, il contrasto verteva sullo stabilire se il regime di rilevabilità dovesse seguire l'art. 581, comma 1, lett.c), c.p.p., che impone specifica motivazione, ovvero se il rilievo della questione, alla luce dell'interpretazione flessibile e pratica della Corte di Strasburgo, potesse legittimare la Corte di cassazione a pronunziarsi d'ufficio.

Il secondo orientamento voleva ampliare notevolmente l'area di intervento ex officio della suprema Corte ogni qual volta si verifica una chiara violazione di carattere convenzionale di carattere oggettivo e generale, creando una zona franca dalla scure della inammissibilità per genericità o aspecificità dei motivi.

Le Sezioni unite non prendono posizione sulla rilevabilità d'ufficio delle violazioni della Convenzione ma adottano un sillogismo pregevole per cambiare completamente la prospettiva del ragionamento: scandendo con attenzioni le fasi temporali, si nota come la mancata riassunzione della prova dichiarativa, che si intendere valutare diversamente, non rileva e non concreta nessuna violazione, fin quando la sentenza non è stata emessa e solo se l'esito è di riforma in peius.

Ciò che importa, in termini più chiari, non è la violazione in sé, che sarebbe altrimenti rilevante anche pro reo, ma gli effetti che produce sulla sentenza che non dispone di altri strumenti per rispettare – con logica motivazione – il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio sancito dall'art. 533 c.p.p.

Norma processuale sì ma solo apparentemente ricondubile alla lett. c) dell'art. 606 c.p.p., perché non sanzionata a pena di nullità, inutilizzabilità o decadenza; non rilevabile ai sensi della lett. b) perché tale previsione attiene alle sole norme extraprocessuali.

Empasse solo apparente perché il ragionevole dubbio è qualificato dalla Corte un metodo logico di valutazione che deve sempre orientare la motivazione della sentenza; per la confutazione del dubbio, nel caso di assoluzione in primo grado il libero convincimento non può bastare; per sgombrare il campo da dubbi già ritenuti ragionevoli dal precedente giudicante occorre riassumere la prova nel rispetto dei principi di immediatezza e contradditorio; qualsiasi altra strada espone la motivazione alla censura di pena la illogicità censurabile in sede di legittimità per violazione della lett. e) dell'art. 606 c.p.p.

Si supera così la necessità di fare ricorso all'intervento di ufficio della suprema Corte, occorrendo la censura della motivazione con specifica doglianza alla nuova e diversa valutazione della prova: al di fuori dei casi d'inammissibilità del ricorso, qualora il ricorrente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell'art. 6 par. 3 lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la Corte di cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata.

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