Concussione: tra passato e presente, verso un incerto futuro
18 Luglio 2016
Abstract
Persa per strada, a seguito del torno di riforme del 2012 e del 2015, la figura nominata della concussione per induzione a motivo dell'incriminazione dell'induzione, sì, ma sottoforma del nuovo delitto di induzione indebita, il dibattito si agita tra la verifica di quanto resta del passato e la scoperta di quanto v'è realmente di nuovo. I problemi sul tappeto sono profondi, riguardando in particolare la pretesa continuità normativa tra la vecchia concussione induttiva e la nuova induzione indebita e, parallelamente, la residua esistenza di una declinazione induttivo-costrittiva dell'induzione. La concussione da sempre rappresenta un unicum nel panorama normativo europeo, a tal punto radicato nell'esperienza italiana, a sua volta segnata da una via propria nella politica di contrasto alla sopraffazione dei pubblici funzionari, che trova la sua genesi nel diritto romano conla Lex Calpurnia repetundarum del 149 a.C., la Lex Acilia repetundarum del 123-122 a.C. e soprattutto la Lex Iulia de pecunis repetundis del 59 a.C.(VENTURINI; contra, tuttavia, l'autorevolissima voce di MANZINI). In effetti, lo stesso sostantivo con cui si appella il corrispondente delitto, previsto e punito dall'art. 317 c.p., si porta appresso la matrice latina, indicando l'azione del con(cum-)cutere, a significare il contemporaneo scuotimento dell'albero per far cadere e raccogliere i frutti. La semantica già anticipa la dinamica della fattispecie, che, nella versione pura, muove dalla soverchiante forza dell'agente, collocato in posizione di superiorità per la soggettività rivestita, in direzione di una vittima scossa come un albero e dunque supina al sopruso. Ma, a ben guardare, essa tradisce anche un inevitabile profilo critico, che non a caso si alligna nelle più recenti evoluzioni legislative: invero, poiché la vittima non è un albero, si pone il problema dell'incidenza (anche) della sua volontà nel determinismo della corresponsione all'agente dei frutti; problema risolto attraverso il concetto, tuttavia di per sé sfuggente, di costrizione, viepiù esteso sino all'estremo dell'induzione (adesso, se ed in quanto ammessa, solo costringente), insegnandosi che la vittima si vede annullata nella sua volontà, siccome costretta – ossia obbligata a (o imposta di) – dare all'agente quel che chiede (rectius, esige), soddisfacendo tuttavia per ciò solo le sue pretese. Il nodo gordiano dunque si trasla sulla scelta – giacché di scelta pur sempre si tratta – della vittima di così comportarsi a fronte delle alternative possibili, se possibili, fino a quella estrema di rinunziare alla res avuta di mira nell'interazione con la P.A. ed eventualmente, arruolatasi come volontaria nell'esercito della legalità, di denunziare il concussore. Dal codice Zanardelli alla legge 86 del 1990
La fisionomia della concussione trova la sua prima, vera, profonda positivizzazione nel codice Zanardelli. Il legislatore del 1889 avvertì l'esigenza di punire le condotte del pubblico ufficiale il quale, abusando della propria funzione ed incutendo al singolo il metus publicae potestatis, costringesse o inducesse il medesimo a dare o promettere utilità. In particolare erano distintamente delineate due figure principali ed una secondaria, caratterizzate da diversi disvalore e gravità, cui corrispondeva, proporzionalmente, un differente carico sanzionatorio. All'art. 169, infatti, era punita, con la reclusione da tre a dieci anni, la concussione per costrizione o c.d. violenta; all'art. 170, invece, era punita, con la reclusione da uno a cinque anni, la concussione per induzione o c.d. fraudolenta; in appendice a tale seconda figura era punita, con la reclusione da sei mesi a tre anni, altresì l'ipotesi del pubblico ufficiale che ricevesse denaro o altra utilità giovandosi dell'errore altrui (c.d. concussione negativa). Con l'entrata in vigore del codice Rocco, il sistema normativo della concussione che aveva caratterizzato il codice Zanardelli fu profondamente innovato sotto due profili essenziali:
Il modello del codice Rocco resse sino alla crisi istituzionale degli anni '90. Anticipando l'incipiente Tangentopoli, la legge 86 del 1990 realizzò la più significativa e incisiva riforma della parte speciale del diritto penale, novellando anche l'art. 317 c.p., interpolato come segue: Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente a lui o ad un terzo, danaro o altra utilità, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni. Si tratta di una riforma sì, ma non epocale. Al fondo, come tradito da una sostanziale immutabilità del tessuto linguistico, l'impianto concettuale è quello già fissato dal codice Zanardelli. Nondimeno, seppur in un quadro di continuità storico-culturale, talune novità paiono eclatanti. Il profilo di maggior evidenza è forse quello relativo all'estensione dell'incriminazione anche all'incaricato di pubblico servizio (vicenda travagliata su cui, come si vedrà in seguito, un Legislatore incostante sarebbe tornato diverse volte nel torno di pochi anni). Di recente, la Corte di Cassazione nella massima composizione ha avuto modo di affermare che – verificandosi un sempre più frequente sviluppo dei servizi pubblici, in seno ai quali numerosi e diffusi erano i casi di concussione commessi da[i responsabili di tali servizi], cioè da persone anch'esse investite di prerogative pubbliche rilevanti e, come tali, idonee ad incidere sulla libera determinazione del privato nei rapporti dal medesimo intrattenuti con la pubblica amministrazione – la logica sottesa a tale estensione della soggettività attiva non può che essere ravvisata nel fatto che l'abuso, quale elemento primario caratterizzante la concussione, non rinvia necessariamente a condotte coincidenti con l'esercizio dei poteri autoritativi, propri della pubblica funzione, ma anche a comportamenti condizionanti comunque la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo (paragrafo 7 delle motivazioni in diritto di Cass. pen., Sez. unite., 24 ottobre 2013, n. 12228. Vedi in Cass. pen., 2014, 6, 1992, con nota di GAMBARDELLA; in Riv. it. dir. pen., 2014, 3, 1532, con nota di GATTA; in Foro it., 2014, 10 II, 517, con note di DI PAOLA e FIANDACA). L'incaricato di pubblico servizio presenta comunque connotati di pubblicità in rapporto alla qualifica pubblicistica, non della funzione, ma pur sempre del servizio; tuttavia, se si dovesse portare alle estreme conseguenze il ragionamento della Suprema Corte, che incentra il disvalore dell'intervento novellistico sul condizionamento illecito dell'altrui libertà di autodeterminazione, si potrebbero intravedere spazi per ulteriori allargamenti della platea dei soggetti attivi, ogniqualvolta l'agente abusi di una posizione dominante giuridicamente configurata. Le fattispecie, per via della ridetta carica abusiva non sovrapponibili con l'estorsione, potrebbero allocarsi ad esempio nella teoria dei mercati (ove in effetti è semplice pensare all'abuso di posizione dominante alla stregua di un'evoluzione qualificata dell'accezione attuale ex artt. 2 T.F.Ue e 3 della legge antitrust), oppure nella teoria delle organizzazioni complesse (ove potrebbe allignare un'autentica concussione privata – parallela a quella corruzione privata ex art. 2635 c.c. che, però, corruzione viepiù privata non è – in presenza di un'autorità gerarchicamente sovraordinata – quale in primis l'imprenditore ex art. 2086 c.c. – che attui quelle medesime condotte rimproverate oggi solo al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio). Nella legge 86 del 1990, in dipendenza dall'allargamento dei soggetti punibili anche all'incaricato di pubblico servizio, si pone altresì la sostituzione dell'abuso delle funzioni con l'abuso di poteri. Sotto le mentite spoglie di un semplice adeguamento linguistico si agitano invece temi profondi del diritto amministrativo, e, di riflesso, penale, dal momento che, ammesso e non concesso che il tratto qualificante del pubblico ufficiale sia l'esercizio di funzioni e non anche di poteri, l'attribuzione di veri e propri poteri all'incaricato di pubblico servizio lo eleva ad un rango che non gli è proprio, perché lo inserisce appieno nella struttura della pubblica amministrazione. Conseguentemente vien dato per presupposto addirittura a livello normativo il concetto, per vero indimostrato a livello teorico, che la pubblica amministrazione possa contare tra le proprie fila anche soggetti non istituzionalmente (o formalmente) pubblici per il sol fatto di un collegamento funzionale istituito estemporaneamente dall'esercizio di un pubblico servizio. Il vero punto di svolta matura attraverso il non ulteriormente procrastinabile confronto con l'esperienza sovranazionale, nell'ottica della quale, quel che per l'ordinamento italiano ha da sempre rappresentato una pietra miliare del disvalore punibile peculiarmente connaturante i reati contro la pubblica amministrazione, ovvero la prevaricazione annientatrice della volontà della vittima, è invece un limite:
Il pensiero corre immediatamente alla concussione ambientale, rispetto alla quale anche internamente da tempo si discute del fondamento normativo su cui la corrispondente incriminazione riposa (MANES; CONTENTO; FIORE), tuttavia troppo spesso omettendosi di ricordare che, per insegnamento costante della suprema Corte, non integra la fattispecie di concussione ex art. 317 c.p. o di induzione ex art. 319-quater c.p. la condotta di semplice richiesta di denaro o altre utilità da parte del pubblico ufficiale in presenza di situazioni di mera pressione ambientale, non accompagnata da atti di costrizione o di induzione (così, da ultimo, Cass. pen., Sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 11946, la quale, non a caso, ha reputato ricorrere il delitto di corruzione per atto di ufficio nel caso di cittadini stranieri spontaneamente rivoltisi ad un faccendiere incaricato, a sua volta, di metterli in contatto con agenti di polizia che, dietro compenso, si interessavano alle pratiche inerenti il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno). La legge 190 del 2012
È sulla spinta sia dell'accennata temperie culturale di fonte esogena sia della mai sopita domestica emergenza di moralizzazione delle PP.AA. che nasce la legge 190 del 2012, impegnata a riscrivere l'art. 317 c.p. all'interno di una pretesamente più ampia e profonda riforma dei reati contro la P.A.: una riforma che si aggiunge a mille altre, tutte disomogenee e disorganiche, in un Paese dove, solo qualche tempo prima, il Legislatore oltretutto qualificato del rivoluzionario Titolo V della Costituzione si era concesso il lusso di moltiplicare a dismisura, senza alcuna necessità men che meno impellente, i centri decisionali e dispositivi di spesa, così creando innumerevoli occasioni di malaffare (che solo recentemente trovano un fragilissimo argine pratico, la cui introduzione, a livello però della sola legislazione ordinaria, si deve all'art. 9 del decreto legge 66 del 2014, convertito nella legge 89 del 2014, recante l'obbligo per gli enti territoriali anzitutto regionali di dotarsi di centrali di committenza uniche, con fissazione di un tetto massimo di trentacinque soggetti aggregatori per l'intero territorio nazionale). La versione dell'art. 317 c.p. modificata dalla legge 190 del 2012 recitava: Il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da sei a dodici anni. In disparte l'espunzione dai soggetti attivi dell'incaricato di pubblico servizio (cui avrebbe posto rimedio la legge 69 del 2015), la massima ragione di critica stava e sta (non intervenuta sul punto detta legge) in ciò che, pur non incisa la dinamica della concussione, scompare il riferimento all'induzione, fatta confluire in un art. 319-quater c.p. di nuovo conio, rubricato: Induzione indebita a dare o promettere utilità, con riferimento al quale l'elemento di spiccata discontinuità rispetto al passato non risiede tanto nel comma 1, secondo cui, salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni, quanto piuttosto nel comma 2, secondo cui, nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni. Par chiaro che, a fronte di un'estensione della punibilità anche a chi dà o promette denaro o altra utilità, vacilla la sussumibilità dell'induzione indebita nello schema classico della concussione, a termini del quale la vittima, anche se dà o promette alcunché, non è punita proprio in quanto vittima, ossia persona offesa. Con l'induzione indebita, invece, la vittima si trasforma da persona offesa a concorrente necessario nel reato del pubblico funzionario e, quindi, procedimentalmente, a coindagato e, processualmente, a coimputato, con tutte le ricadute in specie istruttorie che ne derivano. Poiché però la condotta induttiva del pubblico funzionario è almeno verbis quella stessa già punita dalla previgente formulazione dell'art. 317 c.p., sorge la quaestio, tanto grave da rimanere irrisolta, di capire cosa, nascostamente (verrebbe da dire, quasi surrettiziamente) è cambiato nella struttura della tradizionale fattispecie concussiva sì da portare all'enucleazione di una frazione di quell'induzione che ab immemore costituiva una modalità costrittiva per farne un autonomo momento di estrinsecazione di una progettualità criminosa condivisa. D'altronde, la riprova di un avvicinamento teorico dell'induzione indebita – quasi che ve ne possa essere, da parte di un pubblico funzionario votato puramene e semplicemente all'adempimento del dovere, una lecita o peggio ancora debita – alla piattaforma della corruzione è offerta dalla sistematica, sol che si consideri come l'art. 319-quater c.p. esprima una numerazione dipendente dall'art. 319 c.p., che si staglia nella punizione delle figure corruttive. Quel che preme di sottolineare è che, se le esigenze avute di mira dalla legge 190 del 2012 erano (anche) quelle di ossequiare prospettive sovranazionali, a loro volta recriminanti un (per vero inesistente) difetto di tassonomizzazione della concussione ambientale, il risultato, ben lungi dal raggiungere lo scopo, ha anzi aggravato i rischi di confusione della concussione pura con quella derivazione spuria della corruzione rappresentata, ora, dall'induzione indebita. Ciò è tanto più vero sol che si consideri che l'induzione indebita non cattura affatto la concussione ambientale, la quale, per l'effetto, dovrebbe seguitare a trovare allocazione, ammesso che la trovi, nell'art. 317 c.p.: infatti, ai fini della configurabilità del reato di concussione cosiddetta ‘ambientale', è comunque necessario che venga fornita la prova della consumazione da parte del pubblico ufficiale di uno specifico comportamento costrittivo od induttivo e della correlativa situazione di soggezione del privato (Cass. pen., Sez. VI, 2 marzo 2011, n. 24015, cui adde Cass. pen., Sez. VI, 25 gennaio 2011, n. 14544); simmetricamente esula siffatta forma di concussione, a vantaggio semmai di una qualificazione in termini di corruzione, qualora il privato si inserisca in un sistema nel quale il mercanteggiamento dei pubblici poteri e la pratica della ‘tangente' sia costante, atteso che in tale situazione viene a mancare completamente lo stato di soggezione del privato, che tende ad assicurarsi vantaggi illeciti, approfittando dei meccanismi criminosi e divenendo anch'egli protagonista del sistema (Cass. pen., Sez. VI, 12 aprile 2011, n. 16335, la quale in effetti si è espressa per la caratterizzazione corruttiva della condotta di un privato che aveva promesso all'impiegato di un ufficio anagrafico una somma di denaro per agevolare il rilascio di un certificato di residenza). Nondimeno, un effetto indiscutibilmente si registra dall'entrata in vigore dell'induzione indebita: quello delle crescenti riqualificazioni da concussione ad induzione indebita, la quale ultima, pertanto, sul versante del pubblico funzionario, per le condotte induttive, si dimostra funzionare a pieno titolo come introduttiva di una trattamento sanzionatorio di favore rilevante ex art. 2, comma 4, c.p. (per convincersene, basti considerare che, a fronte di originarie contestazioni di fatti di concussione, Cass. pen., Sez. VI, 14 maggio 2015, n. 32594, ha qualificato come induzione indebita le condotte di un carabiniere che si era fatto consegnare somme di danaro, in un caso, dalla persona poche ore prima sottoposta a contestazione di una violazione del codice della strada con sequestro amministrativo del veicolo, cui aveva prospettato l'opportunità di evitare, in tal modo, ulteriori controlli stradali nella zona; e, nell'altro, da un cittadino extracomunitario in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno, in cambio del rilascio di una formale dichiarazione di ospitalità sottoscritta da un terzo, al fine di non dare impulso all'attivazione della procedura di espulsione; Cass. pen., Sez. VI, 15 luglio 2014, n. 47014, ha qualificato come induzione indebita la condotta di ispettori della polizia municipale che, prospettando ai relativi titolari il rischio di pagamento di sanzioni elevate ovvero di chiusura degli esercizi commerciali in ragione di violazioni amministrative effettivamente riscontrate, avevano indotto i commercianti a fornire loro diverse utilità; Cass. pen., Sez. VI, 1 aprile 2014, n. 28978, ha qualificato come induzione indebita la condotta di un ispettore di polizia che, esibendo il proprio tesserino di riconoscimento, aveva indotto il titolare di un night club a non pretendere il pagamento di beni e servizi, realizzandosi un più tenue, seppur indebito, condizionamento, in luogo della completa sopraffazione della altrui volontà; Cass. pen., Sez. VI, 7 novembre 2013, n. 5496, ha qualificato come induzione indebita la condotta di un ispettore del lavoro dell'Asl che, nel corso di una verifica presso un autolavaggio, aveva prospettato al titolare dell'esercizio di risolvere i problemi derivanti dalle irregolarità riscontrate in cambio della dazione di denaro ed altre utilità). Per completezza mette conto di rilevare soltanto che il favor si caricherebbe dell'effetto dirompente dell'abolitio criminis ove si accedesse alla tesi, tuttavia respinta dalla giurisprudenza, della realizzazione, ad opera della legge n. 190 del 2012, di un'innovazione punitiva rispetto alle stesse condotte punibili nel passato, poiché, cambiando il significato della condotta della vittima[,]si cambia almeno a tratti anche il significato e la tipicità della condotta d'autore: anche il p.u. inducente non commette più la medesima condotta se è ‘in combutta' con l'indotto. È venuto meno un pezzo di Tatbestand, perché il nuovo ‘trasforma il significato della fattispecie'. Se lo stesso fatto ha un altro valore (e nomen iuris), in realtà è un fatto diverso (DONINI). L'ultima tappa del percorso evolutivo che conduce all'assetto vigente del delitto di concussione è rappresenta dall'entrata in vigore della legge 69 del 2015. Rispetto a detta legge, si impone anzitutto qualche riflessione di carattere generale, per chiarire il mutato contesto in cui l'ennesima versione dell'art. 317 c.p. è fatta calare. Nel dettaglio,
Sotto il profilo dell'evidenziato movente economico, viene in rilievo anzitutto l'art. 2 della legge 69 del 2015, che, con l'intento di compulsare condotte ripianatorie, introduce un comma 3 all'art. 165 c.p., per effetto del quale, nei casi di condanna per i reati previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320 e 322-bis, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata al pagamento di una somma equivalente al profitto del reato ovvero all'ammontare di quanto indebitamente percepito dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico servizio, a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell'amministrazione lesa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio, ovvero, nel caso di cui all'articolo 319-ter, in favore dell'amministrazione della giustizia, fermo restando il diritto all'ulteriore eventuale risarcimento del danno. Viene in rilievo, poi, l'art. 4 della legge 69 del 2015, che introduce l'art. 322-quater c.p., a termini del quale, con la sentenza di condanna per i predetti reati, è sempre ordinato il pagamento di una somma pari all'ammontare di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico servizio a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell'amministrazione cui il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio appartiene, ovvero, nel caso di cui all'articolo 319-ter, in favore dell'amministrazione della giustizia, restando impregiudicato il diritto al risarcimento del danno. Può sembrare quasi inutile sottolineare la criticità dogmatica dell'ordine di pagamento di cui si tratta, sospeso a metà strada tra una collocazione sostanzialistica, alla stregua di quanto lasciato intendere da quella finale salvezza del diritto al risarcimento del danno, che retrospetticamente lo accredita come mezzo per assicurare quantomeno una minima soddisfazione risarcitoria, ed una collocazione processualistica, come comando tipico – di un rapporto però non penale ma civile – a propensione condannatoria (dotato o meno di provvisoria esecutività?), alla stregua di quanto lasciato intendere dalla secca individuazione del beneficiario in persona di quella, e soltanto quella, P.A. cui il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio appartiene. Tuttavia, al fine di salvare per lo meno lo stimolo culturale dell'introduzione di detto ordine, può avanzarsi l'auspicio che i conditores iuris avessero in mente il sistema sanzionatorio previsto dal diritto romano. La Lex Calpurnia repetundarum, infatti, istituì la quaestio perpetua, collegio di giudici nominati dal Senato e presieduto dal praetor peregrinus. Il procedimento che si instaurava dinanzi a tale collegio, esplicantesi attraverso la legis actio sacramenti, aveva natura – notasi – civile, in quanto finalizzato alla restituzione del maltolto e quindi permeato da una prospettiva restitutoria perfettamente consona alla caratterizzazione della concussione come abuso perpetrato in danno delle popolazioni assoggettate. Fu solo con la Lex Acilia repetundarum che la concussione assunse natura di un vero e proprio reato, sanzionato con pena pecuniaria, talché la legis actio sacramenti, da azione civile, assunse il contenuto di un'azione penale di risarcimento a tutti gli effetti. Lo spessore della prima tradizione romanistica, però, nulla toglie all'estraneità della previsione di un ordine come quello di cui si discute al sistema punitivo-risarcitorio dell'ordinamento contemporaneo, il quale, con specifico riferimento alla concussione, ben lungi dal negligere l'evoluzione della stessa concussione romanistica da figura civile a figura penale, la incastona in un tessuto processuale soggiacente, di riflesso rispetto alla responsabilità civile da reato ex artt. 185 c.p. e 2059 c.c., alla regola della consecutio della liquidazione all'evidenza di un nocumento eziologicamente riconducibile al fatto di reato. A detta regola l'ordine del novello art. 322-quater c.p., nel non ammettere eccezioni (giacché con la sentenza di condanna … è sempre ordinato il pagamento), disobbedisce; ragion per cui ne pare imprescindibile la sussunzione, previamente accettata la traslazione speculativa dal diritto processuale al diritto sostanziale, nella categoria degli strumenti liquidatori di forme di danno punitivo. La qual cosa, nondimeno, invece di risolvere i problemi, li acuisce, perché è lo stesso danno punitivo a sollevare dubbi di compatibilità con i principi che presiedono alla responsabilità civile (sul punto emblematica è l'ordinanza con cui Cass. civ., Sez. I, 16 maggio 2016, n. 9978, ha recentissimamente rimesso gli atti al primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni unite della questione della riconoscibilità o meno, per contrasto con l'ordine pubblico, delle sentenze straniere recanti condanne a titolo di danno punitivo). Fermo quanto precede, il novello art. 322-quater c.p. parrebbe avere la funzione di chiudere, in chiave processuale, l'inespressa ma inevitabile anticipazione applicativa del parimenti novello comma 3 dell'art. 165 c.p., destinato a rilevare già in sede di indagini preliminari agli effetti dell'art. 275, comma 2-bis, c.p.p. Nondimeno le discrasie sono evidenti: oltre all'atecnicismo di un inedito ordine di pagamento, esulante persino dai binari della confisca, detto ordine, che è rivolto in favore della pubblica amministrazione cui il soggetto appartiene, non necessariamente coincidente con quella lesa, perde per strada il profitto, menzionato invece dall'art. 165 c.p. quale condizione della sospensione condizionale della pena, rimanendo confinato all'ammontare di quanto indebitamente ricevuto. Né la perdita è di poco conto, dal momento che il pubblico funzionario, generalmente tutt'altro che sprovveduto, ben può mettere a profitto quanto indebitamente ricevuto, facendolo fruttare per aggiungere vantaggio a vantaggio. Eppoi parrebbe che la sentenza di condanna importi di per sé la soggezione al ridetto ordine di pagamento, senza specificazioni disciplinari nel caso di cumulo soggettivo derivante dall'esito condannatorio e del pubblico funzionario e degli altri concorrenti: ma, a prescindere dall'evolvere dell'ermeneusi verso la solidarietà passiva o meno, se, dal lato del pubblico funzionario, tanto nella concussione quanto nella corruzione o nell'induzione indebita, l'ordine acquisisce un significato ablativo, in quanto proiettato a levargli la disponibilità del controvalore del mercimonio di funzioni e poteri pubblici, dal lato dell'extraneus, che però ha ragion d'essere solo nella corruzione o nell'induzione indebita, esso proietta una carica autenticamente afflittiva, in quanto aggiunge alla pena tradizionale un'altra pena pecuniaria variabile consistente nell'ablazione di ciò di cui egli non ha più la disponibilità (trasmessa al pubblico ufficiale in esecuzione del sinallagma). Detto questo, neppure sfugge che gli artt. 2 e 4 della legge 69 del 2015 condividono un vizio di fondo, collegato al riferimento esclusivo ad una sentenza di condanna quale presupposto sia della sottoposizione della sospensione condizionale alla previa riparazione sia dell'ordine di pagamento alla pubblica amministrazione di appartenenza del pubblico funzionario: il vizio di fondo sta in ciò che è finita nel dimenticatoio la sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. Anche in questo caso la perdita non è di poco conto, dal momento che, presa per buona la prospettiva dell'ultimo Legislatore, secondo cui i delitti contro la P.A. muovono da un'ispirazione, se non da un vero e proprio movente, di matrice economica, il tessuto ordinamentale presenta un baco capace di offrire a chi ha di mira la locupletazione di ingiusti vantaggi il commodus discessus di una soluzione concordata del procedimento (la quale – sia consentito di far notare – entra di per se stessa nel calcolo economico ante delictum di un autore-stratega). Viene in rilievo, infine, l'art. 6 della legge 69 del 2015, che introduce un comma 1-ter all'art. 444 c.p.p., volto a stabilire che nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 322-bis del codice penale [sicché scompare la corruzione dell'incaricato di pubblico servizio ex art. 320 c.p.] l'ammissibilità [e non semplicemente la positiva delibabilità] della richiesta di cui al comma 1 è subordinata alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato: ciò che genera problemi di difficile coordinamento con la previsione della confisca obbligatoria anche per equivalente – legittimante in indagini il sequestro preventivo a cognizione contratta ex art. 321, comma 2, c.p.p. – ai sensi dei commi 1 e 2 dell'art. 322 c.p. Inoltre di tutta evidenza appare il difetto di coordinamento rispetto agli artt. 2 e 3 della legge 69 del 2015: rilevato che, per quanto diversi paiano essere gli ambiti applicativi di questi ultimi rispetto a quello dell'art. 6, siccome rispettivamente afferenti ai filoni lato sensu ripianatorio-risarcitorio e restitutorio-ripristinatorio, l'art. 6 ha purtuttavia in comune con l'art. 2 l'enucleazione della centralità del profitto, nozione tradizionale che, a stretto rigore, insieme al prezzo, rientrante nel fuoco dell'art. 6 ma non anche dagli artt. 2 e 4, ed al prodotto, negletto da tutti, giustifica bensì un'ablazione nell'ordinamento per così dire comune, ma sub specie di una misura di sicurezza, qual è la confisca, in ragione della pericolosità della res. Invece con l'art. 6, che in tal senso recupera la linea degli artt. 2 e 4, esasperandola, si versa nell'ipotesi di una condizione processuale accedente ex se al più fluido dei riti alternativi: nondimeno l'aggravamento che ne risulta, non solo contraddice la logica semplificatoria propria di tutti i riti alternativi, che alternativi sono rispetto alla complessità ed alle lungaggini del dibattimento, ma viepiù depotenzia chirugicamente l'efficacia del patteggiamento nella maturazione di precipitati procedimentali fruibili, in prospettiva d'accusa, nei tronconi dibattimentali connessi o collegati ex artt. 12 e 371 c.p.p. a quello breviter definito. Nel contesto testé tratteggiato la legge 69 del 2015 opera l'ennesima interpolazione dell'art. 317 c.p. mediante l'inserimento, quale soggetto attivo del reato, accanto al pubblico ufficiale, nuovamente dell'incaricato di pubblico servizio, nella parentesi tra la legge 86 del 1990 e la legge 190 del 2012 invece eliminato sulla base dell'assunto che la capacità di ingenerare il famoso metus publicae potestatis appartiene solo al pubblico ufficiale, siccome esclusivo titolare di poteri coercitivi riconnessi alla funzione (SEVERINO). Sicché con un classico ritorno al passato si chiude (prevedibilmente solo per ora) l'iter evolutivo della veste giuridica del fenomeno della concussione, con profonde perplessità che, sciupate le occasioni per dissolverle, ormai si avvitano su se stesse. Una prima inerisce alla confermata collocazione sistematica dell'art. 319-quater c.p.: se è vero che nessun insuperabile presupposto logico-giuridico v'è a sostegno dell'unicità della concussione racchiusa tutta in una fattispecie con pluralità di condotte alternative, un indubbio profilo di criticità presenterebbe, invece, la collocazione dell'induzione indebita qualora si volesse recuperare tout court la condotta induttiva al filone speculativo della concussione indebita semplice pur in seno al blocco di norme che prevedono e puniscono la corruzione. Qui però comincia il lavoro dell'interprete. Poiché il dato sistematico non è neutro rispetto alla ricostruzione della fattispecie, l'odierna vicinanza topografica dell'induzione indebita alla corruzione impone di prendere atto a contrario che altro è l'induzione indebita ed altro è la concussione ancorché indebita semplice, dovendosi concludere che il concetto di induzione dell'art. 319-quater c.p. è diverso per aggiunta (sotto il profilo di un interesse proprio del privato) da quel concetto originario di induzione che, quand'anche formalmente scomparso dal tenore letterale dell'art. 317 c.p., mantiene pur sempre sue esistenza e valenza all'interno del più forte e più ampio concetto di costrizione. La seconda perplessità è rappresentata dalle previsioni sanzionatorie,riguardate da due angoli di visuale:
In definitiva, può affermarsi che sia la riforma ex lege 190 del 2012 sia quella ex lege 69 del 2015, nelle loro proiezioni esterofile, appaiono schizofreniche e scontano una minusvalenza logica
Quanto del passato sopravvive nel presente
La tradizione penalistica italiana in materia di reati contro la P.A. ante tsunami 2012-2015, italianamente, si confaceva alla (e si preoccupava della) conformazione nostrana del diritto amministrativo, con una P.A. cui la legge stessa accorda prevalenza sul privato, a tal punto da conferirle il potere di degradarne i diritti soggettivi a meri interessi, che – per il fatto di ripetere una conformazione legislativa sia pure indiretta – sono (non poco eufemisticamente) definiti legittimi (in dottrina, per tutti, CANNADA-BARTOLI; in giurisprudenza, tra le innumerevoli, Cass. civ, Sez. III, 9 giugno 1995, n. 6542). In linea di principio, il privato, che di per sé ha armi spuntate contro la P.A. per lo spazio di insindacabile discrezionalità che le è riservato nell'individuazione del modo più opportuno di perseguimento dell'interesse pubblico, quando subisce l'illegittimità di un pubblico funzionario che prezzola la mera dovutezza dell'agire, facendo pesare quel che è e pertanto quel che può fare in suo danno, in realtà subisce la sopraffazione del medesimo in virtù della mera qualifica pubblicistica al medesimo inerente anche se (ed anzi proprio perché) dà o promette quel che non dovrebbe, in quanto non tenuto a dare o promettere alcunché, avendo diritto a beneficiare dell'imparzialità e del buon andamento della P.A. A fronte di ciò, quel che oggi resta di detta tradizione, a costituire il vero precipitato storico dell'evoluzione normativa della figura della concussione, è che la relativa fattispecie continua ad individuare il più grave dei delitti del Titolo II del codice penale (per tutti, ROMANO, 95; FORNASARI; FIANDACA-MUSCO, 207; POMANTI; BENUSSI; PIOLETTI). Partendo da tale dato di fatto, v'è da chiedersi quale sia il corrispondente bene giuridico così severamente tutelato ed in cosa esso si differenzi da quello protetto dal novello art. 319-quater c.p. Suole affermare che esso consiste nel normale e regolare funzionamento della P.A., inciso dall'abuso che il pubblico funzionario fa di qualità e poteri: qualità e poteri in tanto abusati in quanto deviati dalla finalità tipica, coincidente con il perseguimento e la promozione del bene pubblico (in dottrina FIANDACA-MUSCO, 208; SEMINARA, 709; in giurisprudenza, Cass. pen., Sez. VI, 25 agosto 2008, n. 33843; Cass. pen., Sez. VI, 3 marzo 1993, n. 2019). Altra sensibilità, però, affianca alla pubblicità della funzione la libertà di autodeterminazione del singolo, incisa da quel metus publicae potestatis che lo determina al compimento di un atto o di per se stesso pregiudizievole o comunque non voluto in quanto non dovuto. Sebbene, dunque, dal tenore dell'art. 317 c.p. e dalla sua collocazione sistematica emerga chiaramente la prevalenza della tutela della funzione, pubblica per definizione, tanto che soggetto attivo seguita ad essere soltanto il pubblico funzionario (incentrandosi la descrizione della fattispecie sul disvalore della condotta dal medesimo agita anziché sul profilo della conseguente compressione della sfera d'azione del privato), nell'art. 317 c.p., assai più che nell'art. 319-quater c.p., si rinvengono concrezioni inducenti alla plurioffensività (esplicitamente, sul punto, Cass. pen., Sez. VI, 10 ottobre 1992, n. 3134). Una plurioffensività filtrata dalla tutela, oltreché del buon andamento, dell'imparzialità ex art. 97 Cost.: talché, tradizionalmente, se il buon andamento può essere inteso nei termini dell'uso proprio della qualità e del corretto esercizio dei poteri da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, in aggiunta ad esso, su un altro e distinto piano che coinvolge la P.A.-apparato attraverso il pubblico funzionario-persona fisica in uno svolgimento univoco (dall'alto verso il basso) nel rapporto con il privato, l'imparzialità attinge l'indifferenza della P.A., e quindi per essa della sua propaggine operativa incarnata dal pubblico funzionario, alla realizzazione di alcun interesse diverso dall'interesse pubblico: ciò spiega la ragione per cui essa risalta per contrasto rispetto al suo opposto, definibile come il vantaggio rinveniente al soggetto agente o a un terzo [ma, notasi, non o non necessariamente alla P.A.] dalla dazione o promessa ‘strappata' alla decisione non più libera del privato (ROMANO, 97). Così stando le cose rispetto all'art. 317 c.p., nell'art. 319-quater c.p., il bene giuridico continua ad essere il normale e regolare funzionamento della P.A., fermo però che la determinazione del privato al compimento di un atto profittevole e per ciò voluto ancorché non dovuto eppur prospettatogli dal pubblico funzionario tradisce la sua accettazione, necessariamente successiva, dell'illiceità. Conseguentemente detto normale e regolare funzionamento della P.A. è protetto, non solo contro l'infedeltà del pubblico funzionario, ma anche contro la disponibilità del privato ad ossequiarla, annacquando la plurioffensività della fattispecie a mano a mano che la volontà del privato cede alla richiesta induttiva. Riprendendo il filo del discorso lasciato poc'anzi in sospeso, una volta confermato il valore euristico della concussione quale criterio orientatore dell'interprete nell'identificazione del massimo grado di riprovevolezza della condotta e quindi del massimo grado di aggressione al bene giuridico; ed una volta però altresì focalizzata l'attenzione su una lettura di quest'ultimo responsivo, già in seno all'art. 317 c.p., alla dinamica della fattispecie, il terreno di prova della tenuta della concussione a fronte di sovrastanti possibilità di svuotamento della sua operatività a tutto vantaggio dell'induzione indebita, rilevato che le ipotesi di una costrizione-coartazione sono pressoché solo teoriche, passa attraverso la descrivibilità di una condotta induttiva sì, ma costrittiva, giacché essa sola sfugge all'induzione indebita per accedere alla concussione, conseguentemente aggiungendosi, in un catalogo dei reati arricchito piuttosto che impoverito dalla legge 190 del 2012, alla stessa induzione indebita come forma di induzione partecipata per interesse dal privato. Nella concussione la condotta è ora rappresentata dalla costrizione, intesa quale pressione esercitata dal pubblico funzionario sul privato ma anche, contemporaneamente, quale effetto psicologico finale di cui il privato è vittima. Nondimeno la costrizione non è rilevante di per se stessa, giacché deve rappresentare la proiezione ed in certo qual modo l'effetto dell'abuso della qualità e dei poteri. L'abuso, pertanto, innerva la condotta, preordinandola alla limitazione, fino all'annullamento, della libertà di determinazione del privato. Ma non basta che il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio compiano un atto contrario alle prescrizioni di legge o regolamento o ad istruzioni legittimamente impartite, eventualmente omettendo un atto doveroso in forza di dette prescrizioni ed istruzioni e ad ogni modo usando di un potere bensì loro spettante ma con modalità non consentite, che ne segnano un'indebita strumentalizzazione (ROMANO, 103): se si fermasse a tanto, commetterebbero un abuso d'ufficio o in limine un'omissione di atti d'ufficio (ad esempio, Cass., Sez. II, 5 maggio 2015, n. 23019, recuperata una definizione di costrizione come comportamento del pubblico funzionario che agisce con modalità o forme a tal punto pressanti da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita, il quale, solo per evitare il danno minacciatogli, si rassegna alla dazione o alla promessa, nondimeno ha escluso che costituisca concussione, paventando l'eventualità che possa costituire abuso d'ufficio ex art. 323 c.p., la condotta di un presidente di provincia consistente nell'aver indotto, abusando delle funzioni, il responsabile dei servizi sociali del medesimo ente a sospendere il pagamento delle rette degli studenti ospiti di un centro educativo con l'obiettivo, effettivamente conseguito, di ottenere le dimissioni del direttore del centro stesso e la nomina al suo posto di persona politicamente gradita). Agli effetti della concussione, detti pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio devono al contempo sopraffare il privato, intimidirlo e quindi premere sul medesimo (rectius: sulla sua volontà), costringendolo a dare o promettere denaro o altre utilità, con la conseguenza che la dazione o la promessa assurgono alla qualifica di evento (neppure giuridico ma) naturalistico del reato: in una prospettiva dinamica, da una parte, vi sono il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che abusano sì di qualità o poteri, tuttavia per coartare il privato, e, dall'altra, il privato che subisce, non trovando alternative e, perciò, pur consapevole di dare o promettere il non dovuto, determinandosi egualmente a soddisfare la richiesta. Questa è la cifra intima della concussione. Il concetto classico di induzione
Chiarita la struttura della costrizione, per verificare l'an ed il quantum di un recupero anche ai sensi dell'art. 317 c.p. dell'induzione a latere dell'induzione indebita ex art. 319-quater c.p., che è pur sempre induzione, pare preliminarmente necessario cogliere l'in sé dell'induzione, anzitutto attraverso il recupero delle elaborazioni teoriche elaborate in costanza del sistema normativo anteriore alla legge 190 del 2012. Due sono le tesi che si contendevano (e si contendono) il campo:
La prima tesi segna una distinzione manichea tra costrizione ed induzione, mentre la seconda, in fondo, ha maggior pregio scientifico. Infatti, se è vero che l'antica previsione del codice Zanardelli di due distinte fattispecie di concussione, una per costrizione e l'altra per induzione, parrebbe presupporre una distinzione ontologica tra costrizione ed induzione, tale da legittimare l'affermazione della loro diversa essenza nonostante la reductio ad unitatem realizzata dal codice Rocco, in realtà lo stesso codice Zanardelli conferiva all'induzione un portato più ampio della mera induzione in errore: l'espressione contenuta nell'art. 170 in sé racchiudeva anche tutte le ipotesi di coazione implicita, la quale si realizza quante volte il soggetto agente avesse impiegato ‘mezzi di persuasione', ‘facendo intendere alla persone […] l'utilità di condiscendere alle voglie del funzionario', o ‘subdolamente ispirando il timore di un danno in caso di rifiuto' (IMPALLOMENI; CARRARA, secondo cui in particolare è necessario, pur nell'ipotesi di costrizione implicita commessa con l'inganno, il metus del privato). La giurisprudenza sembra porsi nella scia della tradizione laddove, seguitando ancora oggi ad accedere all'impianto che concepisce l'induzione come una commistione tra inganno, convinzione e prevaricazione, ne fa discendere la posizione del discrimen tra costrizione ed induzione, e quindi tra induzione costrittiva ed induzione indebita, nella diversa intensità della pressione psicologica esercitata sul privato dal pubblico funzionario. Suole ormai tralaticiamente ripetere che, nel delitto di concussione di cui all'art. 317 c.p., come modificato dall'art. 1, comma 75, della legge n. 190 del 2012, la costrizione consiste nel comportamento del pubblico ufficiale che, abusando delle sue funzioni o dei suoi poteri, agisce con modalità o con forme di pressione tali da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita, il quale, di conseguenza, si determina alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciato (Cass. pen., Sez. II, 9 ottobre 2014, n. 46401, la quale ha giudicato corretta la qualificazione in termini di concussione per costrizione della condotta di un tecnico comunale che aveva preteso dal gestore di uno stabilimento balneare, in cambio di una rapida regolarizzazione degli abusi edilizi, il conferimento dell'incarico professionale allo studio tecnico dei figli). Chiara è la conseguenza, secondo cui non è sufficiente ad integrare il delitto in esame qualsiasi forma di condizionamento, che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare una coercizione psicologica cogente in capo al soggetto passivo (Cass. pen., Sez. II, 5 maggio 2015, n. 23019). Di contro, nel delitto di induzione indebita, previsto dall'art. 319-quater c.p., introdotto dalla legge n. 190 del 2012, la condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno, pressione morale con più tenue valore condizionante – rispetto all'abuso costrittivo tipico del delitto di concussione di cui all'art. 317 c.p., come modificato dalla predetta l. n. 190 – della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Cass. pen., Sez. VI, n. 32594 del 2015, cit.). Il punto è che quello esposto non è l'unico percorso possibile. Ben rappresentata è anche l'opinione per cui occorre aver di mira non già la strenuità pressoria della condotta, bensì la difformità o meno rispetto all'ordinamento della conseguenza dedotta dal pubblico funzionario come alternativa della dazione o promessa oggetto di sollecitazione. Secondo l'opinione che si va esponendo, il fattore di differenziazione tra induzione e costrizione, che costituiscono l'elemento oggettivo rispettivamente dei delitti di cui gli artt. 319-quater e 317 c.p., non va individuato nella maggiore o minore intensità della pressione psicologica esercitata sul soggetto passivo dell'agente pubblico, ma nella tipologia del danno prospettato, che è ingiusto nel delitto di cui all'art. 317 e conforme alle previsioni normative in quello di cui all'art. 319-quater (Cass. pen., Sez. VI, 23 maggio 2013, n. 29338, la quale ha ritenuto la concussione a proposito del caso di un funzionario comunale che aveva subordinato il rilascio di una concessione edilizia ad un soggetto che ne aveva titolo all'affidamento di alcuni lavori ad una ditta da lui indicata). Il conflitto interpretativo pareva avviato a risoluzione a seguito dell'adozione di una linea mediana ad opera di Cass., Sez. unite, n. 12228 del 2014, cit., datasi peso di spiegare che la concussione è caratterizzata, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all'alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita, distinguendosi pertanto dall'induzione indebita, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest'ultimo non si risolva in un'induzione in errore), di pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico, fermo però che, nei casi ambigui, il criterio del danno antigiuridico e del vantaggio indebito non può andar disgiunto da una rigorosa analisi dei dati di fatto, ragion per cui è l'insieme degli elementi della vicenda concreta a far emergere se nel privato si configura l'inevitabilità di accedere alla richiesta del pubblico funzionario o viceversa la condivisione con il medesimo di un'illiceità di fondo conveniente ad entrambi. Nondimeno, a dispetto dell'arresto di cui si tratta, successive pronunce riproducono tal quale l'insegnamento della tipologia del danno come crinale tra concussione (se il danno è contra ius) ed induzione indebita (se il danno è, più che secundum, praeter ius) sul presupposto di una base comune consistente nella prospettazione – e quindi nella minaccia – di un danno. Pare tuttavia opportuno rilevare che siffatte più recenti prese di posizione hanno – del resto in continuità con il passato – sempre portato all'enucleazione in concreto di un danno contra ius reggente la ricorrenza di forme concessive: Cass. pen., Sez. VI, 21 gennaio 2014, n. 37475, ha confermato la qualificazione di concussione in relazione a reiterati pagamenti di piccole somme effettuati in favore di vari appartenenti alla Polizia di Stato – pur in assenza di esplicite richieste da parte di questi ultimi – da un imprenditore operante nel settore del trasporto di materiali al fine di evitare controlli pretestuosi ed assillanti dei propri mezzi, dopo che uno degli operanti, nel corso di un incontro, gli aveva fatto capire che pagando qualcosa avrebbe potuto rendere i controlli meno pressanti; Cass. pen., Sez. VI, 6 febbraio 2014, n. 48034, ha confermato la qualificazione di concussione in relazione alla condotta di un carabiniere che aveva chiesto a due imprenditori agricoli – in un caso ottenendolo – il versamento di somme di danaro asseritamente destinate ad aiutare il figlio malato di un collega con la minaccia tacita che, in caso contrario, avrebbe assunto iniziative vessatorie nei confronti loro e delle rispettive aziende; Cass. pen., Sez. VII, 12 novembre 2014, n. 50482, ha confermato la qualificazione di concussione in relazione alla condotta del direttore generale di un'agenzia territoriale di edilizia residenziale che aveva richiesto ed ottenuto da alcuni imprenditori, legati da rapporti contrattuali con la predetta agenzia, versamenti di somme di danaro e acquisti di quadri, a prezzi maggiorati, presso la galleria d'arte gestita dalla moglie, con la minaccia, in caso contrario, di interrompere detti rapporti o di ritardare i pagamenti. Se ne ricava la regola, da riguardarsi per sicuramente esistente nel diritto positivo, che, a fronte della prospettazione di un danno ingiusto, sempre ricorre la concussione. Rimane però aperta la discussione proprio a proposito di quei casi ambigui su cui si era soffermata Cass., Sez. unite, n. 12228 del 2014, cit.: se persuasione, suggestione, inganno si accompagnano comunque alla rappresentazione di possibili conseguenze pregiudizievoli, si apre uno spazio per un'induzione costrittiva che trasmoda tout court nella costrizione; simmetricamente, sotto concorrente profilo, in disparte la violenza, che è coattiva per definizione,se la minaccia, in specie “implicita”, assume i toni di una più fine “pressione morale”, poiché di minaccia pur sempre si tratta, ancorchéammantata di buone maniere intese a veicolare un “più tenue valore condizionante”, vi è spazio per una costrittività induttiva che, facendo prevalere l'oggettiva ingiustizia dell'alternativa sull'attenuazione dell'impatto del condizionamento, riconduce del par alla costrizione. Afferrabili, seppur a fatica, i concetti di minaccia e persuasione e soprattutto le figure chiasmiche che ne derivano nell'etereo della loro dimensione, il problema sta nella concretezza della loro verificazione: a tal proposito, parrebbe di poter dire che proprio l'indicazione delle Sezioni unite di far convergere il criterio della tipologia del danno prospettato sull'analisi di fatto volta a saggiare, in un apprezzamento sincretistico delle risultanze probatorie, i residui spazi di libertà del privato (vittima o vittima-partecipe) rende conto dell'insoddisfacente capacità distintiva sia di detto criterio sia però anche di quello, concettualmente disomogeneo perché non più oggettivo ma soggettivo, dell'entità della pressione psicologica esercitata dal pubblico funzionario sul privato medesimo. In conclusione
Permanendo l'incertezza, non è da escludere una nuova rimessione della questione della distinzione tra concussione ed induzione indebita alle Sezioni unite, a dimostrazione di un'ambiguità sistematica che, a meno di prendere atto di un marcato ridimensionamento, voluto dagli ultimi interventi legislativi, dell'area applicativa della concussione, è arduo comporre ad opera della sola giurisprudenza con puri strumenti esegetici. A questa potrebbe forse suggerirsi di recuperare, nondimeno con un immane sforzo in direzione della tassativizzazione di elementi che la legge 190 del 2012, consapevolmente o meno, ha lasciato inespressi, la distinzione criminologica tra corruzione burocratica, ove allignano più frequentemente fatti di netta e franca sopraffazione riconducibili alla concussione, e corruzione politico-affaristica, ove il tipo di relazioni – appunto affaristiche – tra soggetti pubblici e soggetti privati imprenditori potrà indiziare verso la nuova fattispecie dell'induzione indebita (sempre che rimanga esclusa la corruzione) (PALAZZO). Nel frattempo l'amara considerazione, a dispetto di proclamate velleità di moralizzazione della vita pubblica, è che, già ridotto il numero dei denuncianti dalla semplice possibilità che una prospettata concussione possa essere riqualificata come corruzione impropria, almeno in quei casi in cui non vi è stata prepotenza patente e temeraria, e cioè nella maggioranza dei casi (VASSALLI), Basta esserne consapevoli. CANNADA-BARTOLI, Affievolimento, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 670 CARRARA, Programma, V, Lucca, 1868, 152 CHIAROTTI, Concussione, in Enc. dir., Milano, 1961, VIII, 705 CONTENTO, La realtà normativa della “concussione ambientale”, in AA.VV., I delitti contro la P.A. Riflessioni sulla riforma, Napoli, 1989, 108 DONINI, Il corr(eo)indotto tra passato e futuro. Note critiche a SS.UU., 24 ottobre 2013-14 marzo 2014, n. 29180, Cifarelli, Maldera e a., e alla l. n. 190 del 2012, in Cass. pen., 2014, 5, 1488 FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, I, Bologna, 2007, 205 FIORE, La “concussione ambientale”: quale spazio normativo?, in AA.VV., I delitti contro la P.A., cit., 114 FORNASARI, Concussione,in AA.VV., Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2008, 170 GRISPIGNI, I delitti contro la pubblica amministrazione, Roma, 1953, 157 IMPALLOMENI, Il codice penale italiano, Firenze, 1890, 167 MANES, La "concussione ambientale" da fenomenologia a fattispecie extra legem, in Foro It., 1999, II, 645 MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, V, Torino, 1987, 190 PAGLIARO, Confronti testuali tra le due leggi più recenti sui delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, in Cass. pen., 2015, 5, 1720 PALAZZO, Le norme penali contro la corruzione tra presupposti criminologici e finalità etico-sociali, in Cass. pen., 2015, 10, 3395 PIOLETTI, Concussione, in Dig. disc. pen., Agg.,I, Torino, 2000, 93 POMANTI, La concussione, Milano, 2004, 14 RICCIO, Concussione, in Noviss. Dig. it., III, Torino, 1959, 1073 ROMANO, I delitti contro la pubblica amministrazione, I delitti dei pubblici ufficiali, Art. 314-335-bis c.p., sub Art. 317, Milano, 2013, 95 SALTELLI-ROMANO DI FALCO, Commento teorico-pratico del codice penale, III, Torino, 1940, 207 SEMINARA, sub Art. 317, in CRESPI STELLA ZUCCALA' (a cura di), Commentario breve al codice penale, Padova, 2003, 708 SEVERINO, La nuova legge anticorruzione, in Dir. pen e proc., 2013, 1, 9 STORTONI, Delitti contro la P.A., in AA.VV., Diritto penale, lineamenti di parte speciale, Bologna, 1998, 127 VASSALLI, La riforma dei delitti contro la P.A., in Quad. Giust., 1985, 46, 2 VENTURINI, Scritti di diritto penale romano, Padova, 2015, I, 467 |