Paziente ricoverato affetto da disturbo bipolare si suicida: lo psichiatra è penalmente responsabile
19 Settembre 2016
Massima
É responsabile di omicidio colposo, per violazione dei parametri della colpa generica, il medico psichiatra in servizio presso il reparto di neuropsichiatria di una casa di cura il quale ometta l'adozione di adeguate misure di protezione idonee a impedire che una paziente, ricoverata con diagnosi di disturbo bipolare in fase depressiva con ideazione negativa a sfondo suicidario, si allontani dalla stanza in cui è ricoverata, raggiunga un'impalcatura allestita all'esterno della struttura ospedaliera e si uccida lasciandosi cadere nel vuoto. Il caso
Nella sentenza in commento la suprema Corte ha esaminato il caso di un medico psichiatra, in servizio presso il reparto di neuropsichiatria di una casa di cura, imputato del reato di omicidio colposo in relazione al suicidio di una paziente ivi ricoverata perché affetta da disturbo bipolare in fase depressiva, con depressione del tono dell'umore e ideazione negativa a sfondo suicidario. La paziente si era allontanata dalla stanza in cui era degente, aveva raggiunto un'impalcatura allestita all'esterno dell'edificio e si era lanciata nel vuoto. Allo psichiatra era contestato di non avere adottato – con ciò violando le regole cautelari che fondano la colpa generica – misure di protezione idonee a impedire il verificarsi dell'evento mortale. In entrambi i gradi del giudizio di merito il medico veniva ritenuto responsabile del reato ascrittogli, in quanto – in considerazione della posizione di garanzia da lui ricoperta quale psichiatra addetto al reparto in cui la paziente era ricoverata – non aveva disposto, oltre a tutti gli interventi di tipo farmacologico, anche una stretta sorveglianza della donna ventiquattro ore su ventiquattro. Una siffatta misura si rendeva necessaria, sulla base delle linee guida accreditate in ambito psichiatrico, dal momento che la paziente si presentava come un soggetto ad alto rischio, essendole stata diagnosticata una grave forma di depressione, con presenza di idee di suicidio attestate dalla cartella clinica (sia nella parte relativa all'anamnesi, sia in quella concernente l'esame psichico). Secondo i giudici di merito, l'imputato aveva invece gestito la paziente con superficialità e negligenza: ove egli le avesse assicurato una stretta e continua sorveglianza, l'evento mortale certamente non si sarebbe verificato. Aderendo a tali valutazioni, la Corte di cassazione ha peraltro annullato la sentenza di condanna impugnata dall'imputato perché, nelle more del procedimento, il reato si era estinto per prescrizione. I giudici di legittimità hanno così fatto applicazione del principio secondo cui, in presenza di una causa estintiva del reato, l'obbligo di assoluzione dell'imputato per motivi attinenti al merito – ai sensi dell'art. 129 c.p.p. – sussiste solo quando gli elementi rilevatori dell'insussistenza del fatto, ovvero della sua non attribuibilità penale all'imputato, emergano in modo incontrovertibile, sì che la relativa valutazione da parte del giudice sia assimilabile più a una constatazione che a un apprezzamento, senza alcuna necessità di accertamento o di approfondimento. Nel caso in esame, invece, la Corte ha ritenuto – sulla scorta di quanto accertato nella sentenza impugnata – che non solo non ricorresse incontrovertibilmente l'insussistenza del fatto o la sua non attribuibilità all'imputato, ma che anzi fosse positivamente riscontrata l'infondatezza di tutte le doglianze avanzate dal medico avverso la sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti. La questione
Con la sentenza che si annota i giudici della suprema Corte hanno nuovamente affrontato il tema della responsabilità penale del medico psichiatra per suicidio del paziente sottoposto alle sue cure, adottando una soluzione che si ricollega all'orientamento interpretativo già adottato in alcune precedenti pronunce. La questione concerne la configurabilità in capo al medico, ai sensi dell'art. 40, comma 2, c.p., di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche quando quest'ultimo non sia sottoposto a ricovero coatto in forza di trattamento sanitario obbligatorio. Dal riconoscimento di una siffatta posizione di garanzia deriva l'affermazione secondo cui lo psichiatra è tenuto ad apprestare specifiche cautele quando emerga il concreto rischio di condotte lesive che il paziente potrebbe porre in essere ai danni propri o di terzi. In relazione a ciò, ai fini di un'affermazione di responsabilità penale del medico, vengono poi in rilievo le ulteriori questioni del rapporto di causalità tra la condotta omissiva e l'evento lesivo e della definizione della regola cautelare di riferimento rispetto alla quale valutare la colpa del sanitario. Le soluzioni giuridiche
La posizione di garanzia - La sentenza in commento non ha approfondito il tema della titolarità in capo allo psichiatra di una posizione di garanzia rilevante ai sensi dell'art. 40, comma 2, c.p., dal momento che l'imputato in sede di ricorso non aveva neppure contestato la sussistenza di tale posizione. I giudici di legittimità si sono limitati a richiamare il precedente costituito da Cass.pen., Sez. IV, 27 novembre 2008, n. 48292. In questa pronuncia si era affermato che, anche fuori dalle ipotesi di ricovero coatto, sullo psichiatra gravano doveri di protezione e di sorveglianza del paziente in relazione al pericolo di condotte autolesive o eterolesive. Lo psichiatra, al pari di qualsiasi altro medico curante, ha l'obbligo giuridico di curare la malattia mentale nel miglior modo possibile, con tutti gli strumenti che ordinamento e scienza pongono a sua disposizione. Detto obbligo ha in sé quello di salvare il paziente dal rischio di condotte autolesive, dovendo ritenersi che le stesse rappresentino un'estrinsecazione, quando non una conseguenza, della patologia che lo affligge. Ne deriva che, se lo psichiatra ha in cura un soggetto che riveli un concreto pericolo di suicidio, la posizione di garanzia comporta l'obbligo di apprestare cautele specifiche, quali la massima sorveglianza da parte del personale infermieristico e l'accompagnamento del paziente che intenda uscire dalla struttura. La titolarità in capo al medico psichiatra di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto, è stata ribadita da Cass.pen., Sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 16975. Vanno segnalate anche altre recenti pronunce, che si sono soffermate sul contenuto e sui limiti della posizione di garanzia. Cass.pen., Sez. IV, 4 febbraio 2016, n. 14766 ha esaminato la responsabilità di uno psichiatra e di una psicologa in servizio presso una casa circondariale per il suicidio di un detenuto. La Corte ha precisato come l'obbligo giuridico di impedire l'evento lesivo, gravante sul sanitario, sia qualificabile al contempo come obbligo di controllo, equiparando il paziente ad una fonte di pericolo, rispetto alla quale il garante avrebbe il dovere di neutralizzarne gli effetti lesivi verso terzi, e di protezione del paziente medesimo, soggetto debole, da comportamenti pregiudizievoli per sé. Nel caso di un detenuto affetto da turbe mentali, dunque, devono essere realizzati tutti gli interventi terapeutici necessari o utili per il miglioramento delle condizioni psichiche del soggetto e, nel contempo, attuate tutte le strategie di controllo all'interno del carcere per sorvegliarne il comportamento. A sua volta Cass.pen., Sez. IV, 7 gennaio 2016, n. 1846 ha affermato che il sanitario (nella specie: neurologo) il quale, avendo in cura un paziente per stati di ansia o sindrome depressiva, in presenza di apprezzabili indici significativi di un atteggiamento di negazione di patologie di diversa natura, ometta di approfondire le condizioni cliniche generali dell'assistito e di assumere le necessarie iniziative per indurlo alla cura di tale patologia, è responsabile per le prevedibili conseguenze lesive derivate dalla patologia medesima.
La colpa - Il riconoscimento di una posizione di garanzia in capo allo psichiatra non è comunque sufficiente a far sorgere la responsabilità penale del medesimo, dovendo essere altresì accertata una sua condotta connotata da colpa in concreto. Al riguardo la sentenza in commento ha condiviso l'impostazione adottata dalla Corte di appello, la quale aveva riscontrato la colpa nel fatto che le condizioni della paziente evidenziatesi nell'imminenza del fatto, le notizie anamnestiche legate alle precedenti esperienze di tentativo di suicidio, unite alla diagnosi di accettazione, rendevano con evidenza largamente prevedibile, e altamente intenso sul piano obiettivo, il rischio di un rinnovato tentativo di suicidio della donna, che viceversa l'imputato ebbe a trascurare e dunque a gestire con manifesta superficialità e scoperta negligenza. Il profilo della colpa è stato così ricostruito con riferimento al carattere di soggetto ad alto rischio del paziente, come definito dalle linee guida riconosciute in ambito psichiatrico. Quanto poi all'individuazione della regola cautelare in base alla quale valutare la colpa del medico, si può scorgere un'evoluzione della giurisprudenza di legittimità. In una prima fase, per stabilire le condizioni di prevedibilità ed evitabilità dell'evento lesivo e la concreta esigibilità da parte del sanitario di condotte idonee a prevenire l'evento, si considerava la condotta diligente che nelle stesse circostanze concrete avrebbe tenuto l'homo eiusdem professionis et condicionis, ossia un agente modello (v. Cass.pen., Sez. IV, 27 novembre 2008, n. 48292). Nella giurisprudenza più recente, invece, al fine di restituire maggiore determinatezza alla regola cautelare in base alla quale valutare la condotta dell'agente concreto, si è introdotto il riferimento alle c.d. linee guida, ossia a quel sapere scientifico e tecnologico codificato e accreditato dalla comunità scientifica che indica gli standard diagnostico-terapeutici conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica in un determinato settore. Si è utilizzato quindi uno strumento che, pur permanendo nell'ambito della colpa generica, viene a costituire una direttiva scientifica di riferimento per l'esercente le professioni sanitarie.
Il rapporto di causalità - La pronuncia che si annota ha infine ravvisato la sussistenza, nella fattispecie al suo esame, di un nesso di causalità tra la condotta omissiva dello psichiatra e il suicidio della paziente, rilevando che laddove l'imputato avesse assicurato una stretta e continua sorveglianza della paziente, l'evento lesivo oggetto di giudizio non si sarebbe verificato con certezza, secondo una valutazione prognostica ex ante condotta in coerenza al principio dell'elevata probabilità logica e credibilità razionale. Occorre dunque verificare se, ove il medico avesse tenuto il comportamento alternativo corretto, l'evento non si sarebbe verificato; ossia se il comportamento alternativo conforme alla regola cautelare sarebbe stato in concreto idoneo a evitare l'evento dannoso. In particolare l'evento deve costituire la concretizzazione del rischio che la regola cautelare intendeva prevenire (per l'applicazione di questi criteri alla specifica ipotesi della responsabilità omissiva dello psichiatra, v. ancora Cass.pen., Sez. IV, 27 novembre 2008, n. 48292). Le Sezioni Unite hanno altresì precisato (v. Cass.pen., Sez. unite, 10 luglio 2002, n. 30328) che il nesso di causalità tra la condotta omissiva e l'evento va accertato mediante un giudizio c.d. controfattuale, il quale deve rispondere (sulla base del sapere scientifico del tempo) al quesito se, mentalmente eliminato il mancato compimento dell'azione doverosa, l'evento lesivo – come hic et nunc verificatosi – sarebbe venuto meno. Significativa sul punto è anche Cass.pen., Sez. IV, 27 aprile 2015, n. 22042, la quale è giunta ad affermare che anche il medico di famiglia è responsabile ex art. 589 c.p. per il rilascio del porto d'armi al paziente affetto da turbe psichiche, se omette di annotare il disturbo mentale del paziente nel certificato anamnestico preliminare agli accertamenti di idoneità effettuati da parte dei competenti medici della Asl. Osservazioni
Il quadro sin qui delineato lascia trasparire una possibile criticità, legata a un'eccessiva estensione dell'ambito della responsabilità penale del medico e, in particolare, dello psichiatra. Nella stessa giurisprudenza della suprema Corte si rinviene, comunque, un opportuno correttivo. Si tratta della nozione di rischio consentito, ossia di quel rischio inerente a una determinata attività e che non può essere completamente eliminato pur con l'adozione di condotte appropriate. Nel caso di attività come quella medica, che comportano una pericolosità in tutto o in parte ineliminabile e che, tuttavia, si accetta che vengano esercitate per la loro intrinseca rilevanza (la cura del paziente), il rischio (per la salvezza del paziente) non può essere certamente evitato ma deve essere governato e mantenuto entro determinati limiti (v. Cass.pen., Sez. IV, 22 novembre 2011, n. 4391). Il mantenimento del rischio con condotte appropriate entro congrui limiti – per la cui individuazione possono soccorrere le linee guida – esclude l'addebito per colpa. Si è così affermato che l'agente tenuto alla vigilanza di un soggetto che non è in grado di agire responsabilmente, nel nostro caso in quanto presenta turbe comportamentali dovute a malattia psichiatrica, non attua alcuna condotta censurabile per colpa qualora intervenga sulla persona da sorvegliare con strategie appropriate, che lasciano comunque spazio a qualche collaterale ed ineliminabile rischio (v. Cass. pen., Sez. IV, 4 febbraio 2016, n. 14766). |