Il delitto di peculato e il discrimine tra finalità pubblica e privata nelle “spese di rappresentanza”

20 Ottobre 2016

La condotta incriminata dal delitto di peculato consiste nell'appropriazione del denaro o della cosa mobile altrui ovvero nella loro utilizzazione a fini privati e non per il perseguimento dell'interesse generale. Il discrimine tra finalità pubblica e privata della spesa disposta dal funzionario non è tanto agevole nei casi concreti, in particolare quando gli esborsi sono giustificati come spese di rappresentanza.
Abstract

La condotta incriminata dal delitto di peculato consiste nell'appropriazione del denaro o della cosa mobile altrui ovvero nella loro utilizzazione a fini privati e non per il perseguimento dell'interesse generale. Il discrimine tra finalità pubblica e privata della spesa disposta dal funzionario non è tanto agevole nei casi concreti, in particolare quando gli esborsi sono giustificati come spese di rappresentanza. La giurisprudenza ha elaborato una definizione rigorosa di tali spese, precisando che sono esclusivamente quelle destinate a soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell'ente pubblico per accrescerne il prestigio nel contesto sociale in cui si colloca e esigendone la correlazione rispetto ai fini istituzionali e la specifica rendicontazione.

La distrazione del denaro pubblico

Con la legge 86 del 1990, come è noto, la condotta di distrazione del denaro o della cosa mobile altrui è stata espunta dalla fattispecie del reato di peculato. L'elemento oggettivo del delitto è stato ridotto alla sola appropriazione, sicché il reato è tornato ad assumere la connotazione originaria di furtum pecuniae pubblicae.

Un orientamento interpretativo, valorizzando la volontà del Legislatore, ha reputato riconducibile al peculato la sola condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che abusa del possesso del denaro o della cosa mobile altrui, appropriandosene in senso stretto. L'impiego del denaro o della cosa mobile altrui (in genere beni pubblici ma, avendo la predetta legge del 1990 abrogato anche il delitto di malversazione a danno dei privati già previsto dall'art. 315 c.p., il peculato è configurabile anche nel caso di appropriazione di beni di privati di cui il pubblico funzionario abbia, per ragioni di ufficio o servizio, la detenzione) da parte del soggetto titolare della qualifica pubblica per fini diversi da quelli stabiliti, invece, può integrare l'abuso d'ufficio, sempre che siano sussistenti gli ulteriori elementi costitutivi di quest'ultima fattispecie.

Un diverso indirizzo, al contrario, individua nell'espansione della condotta di appropriazione, che ricomprenderebbe al suo interno anche la distrazione, una diretta conseguenza della riforma. In questo modo, la nozione di appropriazione delineata in tema di peculato sarebbe pienamente sovrapponibile a quella che è tracciata dalla giurisprudenza per il delitto comune di cui all'art. 646 c.p. Soffermandosi su quest'ultima figura, infatti, la giurisprudenza ritiene che l'appropriazione possa consistere anche nella distrazione a fini diversi da quelli previsti del denaro o della cosa mobile altrui di cui l'agente abbia la detenzione (Cass. pen., n. 23347/2016).

Un approccio intermedio tra queste due posizioni è propugnato da chi ritiene che rientrano nell'area operativa del peculato, oltre alle condotte di appropriazione in senso stretto, i casi di distrazione che consistono nell'impiego del denaro pubblico per scopi privati, non ricollegabili in alcun modo alle finalità istituzionali della pubblica amministrazione. La destinazione di risorse pubbliche a finalità privatistiche costituisce una deviazione della cosa o del denaro dall'interesse generale cui sono destinati. Tale situazione è pienamente assimilabile all'appropriazione.

Si delinea, talvolta, la nozione di distrazione a profitto proprio, differenziandola da quella a profitto altrui, per ricondurre la sola prima ipotesi al peculato, in quanto sussiste un disvalore penale omogeneo rispetto alla generica appropriazione.

Quanto infine alla distrazione a profitto altrui, conformemente allo spirito della riforma si sostiene che il soggetto pubblico che si appropria della risorsa per avvantaggiare altri pone in essere una condotta al limite qualificabile come abuso d'ufficio. In senso opposto si afferma che, ai fini della sussistenza dell'appropriazione non è necessaria l'inclusione della cosa nella sfera patrimoniale dell'agente, potendo integrare gli estremi del reato di peculato anche la messa a disposizione della cosa a favore di altro soggetto privato.

Residuano le ipotesi di distrazione a finalità pubbliche diverse da quelle da quelle prestabilite: queste condotte, in presenza dei requisiti previsti dall'art. 323 c.p., sarebbero qualificabili all'abuso d'ufficio.

Con riferimento a tali ultime fattispecie, però, è stata proposta un'ulteriore distinzione: quando lo scopo pubblico diverso da quello prescritto è comunque astrattamente riconducibile al novero delle attribuzioni istituzionali dell'ente, sono state manifestate concrete perplessità sulla rilevanza penale della condotta. Il fatto che, nonostante la deviazione dal fine per il quale le risorse sono state apprestate, l'agente persegua un obiettivo compatibile con le attribuzioni dell'ente pubblico deporrebbe per la rilevanza dell'azione al più sul piano amministrativo e contabile. Di quest'ultima impostazione si ravvisa un eco anche in giurisprudenza: di recente, infatti, è stato escluso il delitto di peculato nell'ipotesi in cui la disposizione di risorse pubbliche avvenga per finalità diverse da quelle specificamente previste ma pur sempre nell'ambito delle attribuzioni del ruolo istituzionale svolto dall'agente pubblico in virtù delle norme organizzative dell'ente, perché in questa situazione permane la connessione fra la res ed il dominus e, quindi, la legittimità del possesso (Cass. pen., n. 699/2014, in una fattispecie in cui la cessione, ad un prezzo notevolmente inferiore a quello di mercato, di azioni di proprietà di un comune era comunque attraverso una procedura di evidenza pubblica, seppur irregolare, durante la quale erano stati ponderati gli interessi pubblici implicati dall'atto).

Le spese “di rappresentanza”

Il discrimine tra finalità pubblica e privata della spesa disposta dal funzionario pubblico potrebbe sembrare intuitivo. La giurisprudenza, ad esempio, ha qualificato come peculato la condotta di un incaricato di pubblico servizio che, invece di investire le risorse di cui aveva la disponibilità per le finalità pubbliche istituzionalmente previste, le aveva impiegate per acquistare quote di fondi speculativi, in violazione della regolamentazione esistente in materia ed allo scopo di favorire una promotrice finanziaria beneficiaria delle relative provvigioni (Cass. pen., n. 25258/2014).

La distinzione tra scopi pubblici e interessi egoistici delle spese, tuttavia, non è tanto netta quanto potrebbe presumersi. Un ambito nel quale questa differenziazione non è facile è costituito dalle spese di rappresentanza di un ente pubblico, di cui la giurisprudenza si è occupata sovente, anche di recente (Cass. pen., n. 6405/2016).

Al riguardo, va rilevato che manca una definizione normativa di spese di rappresentanza, sebbene il Legislatore abbia fatto riferimento diverse volte a tale tipologia di esborsi pubblici significativamente per una esigenza di contenimento dei costi dell'amministrazione (Si veda, ad esempio, l'art. 6, comma 8, del decreto legge 78 del 2010, convertito dalla legge 122 del 2010, secondo cui le amministrazioni pubbliche (...) non possono effettuare spese per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza, per un ammontare superiore al 20 percento della spesa sostenuta nell'anno 2009 per le medesime finalità).

Alla lacuna normativa ha posto riparo la giurisprudenza, che fornisce una precisa definizione di tali pagamenti pubblici. La natura in esame può essere riconosciuta esclusivamente alle spese destinate a soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell'ente al fine di accrescerne il prestigio nel contesto sociale in cui si colloca (Cass. pen., n. 27719/2013; Cass. pen., n. 10135/2013). Tale funzione promozionale rappresenta la finalità che giustifica l'attribuzione della somma ed il suo utilizzo.

Rendere concreta questa nozione, come si può comprendere, non è sempre agevole e, a tale scopo, può soccorrere la casistica. È stato ritenuto responsabile del reato di peculato, ad esempio, il sindaco che abbia dato ordine di pagare con denaro del comune il conto di un pranzo organizzato per i carabinieri che si erano recati presso l'ente locale per il sequestro di documenti (Cass. pen.,n. 10908/2006); analoga responsabilità è stata ravvisata per il direttore generale di una Asl che aveva imputato a detta funzione le spese relative ad acquisti in supermercati, ai costi di traghetti, a consumazioni in un bar, ad acquisto di batterie e ricariche per telefoni cellullari, a tariffe per parcheggio e lavaggi auto (Cass. pen., n. 10135/2013) e per il presidente di una società pubblica che gestiva una tratta autostradale che era fatto rimborsare come spese di rappresentanza quelle, invece, effettuate per organizzare pranzi e ricevimenti di natura eminentemente politica (Cass. pen., n. 27719/2013, in una fattispecie in cui, peraltro, è stato contestato il reato di truffa).

Un indirizzo meno rigoroso sembra seguito da un altro arresto giurisprudenziale che ha riconosciuto come spese di rappresentanza i costi sostenuti con denaro attribuito al gruppo consiliare da un consigliere della provincia autonoma di Trento per materiale propagandistico fornito al partito politico di riferimento, per pranzi consumati in occasione di incontri in campagna elettorale e per regali destinati agli elettori di riguardo (Cass. pen., n. 33069/2003).

A ben vedere, però, non sussiste alcun contrasto tra orientamenti giurisprudenziali perché, in questa seconda decisione, è stato ritenuto che le predette spese, in considerazione della natura del gruppo consiliare a cui apparteneva il politico e della sua stretta connessione con il partito di riferimento, non interrompevano il nesso funzionale con i compiti del gruppo stesso. È dunque necessario che le spese, non solo mirino ad accrescere il prestigio della pubblica amministrazione ma siano collegate alle finalità istituzionali dell'ente.

Anche la giurisprudenza della Corte dei conti ha contribuito all'elaborazione della nozione in esame, affermando che la spesa di rappresentanza debba anche rispondere a criteri di ragionevolezza, sobrietà (Corte dei conti, Sez. Abruzzo, n. 394/2008) e congruità, sia con riguardo all'evento eventualmente realizzato, sia con riferimento ai valori di mercato; debba presentare i caratteri dell'ufficialità e dell'eccezionalità (Corte dei conti, Sezione I giurisdizionale centrale, n. 346/2008); debba essere espletata necessariamente da un organo di vertice, istituzionalmente rappresentativo, avente titolo a impegnare all'esterno il nome e l'immagine della pubblica amministrazione e non essere rivolta a politici (Corte dei conti, Sez. Umbria, n. 160/2000) o a manifestare vicinanza ai dipendenti (Corte dei conti, Sez. Lombardia, 19 luglio 2016, n. 200, che ha escluso la legittimità di spese iscritte sotto la voce “cesto di fiori” e “necrologio” per lutto di dipendente o amministratore comunale o Corte dei conti, Sez. Piemonte, che ha negato la natura di rappresentanza alle spese per un rinfresco per lo scambio di auguri natalizi tra i dipendenti spese per un rinfresco per lo scambio di auguri natalizi, spese per un rinfresco per lo scambio di auguri natalizi,spese per un rinfresco per lo scambio di auguri natalizi,).

Segue: le spese “riservate”. L'obbligo di rendicontazione

Accanto alle spese di rappresentanza, la giurisprudenza penale si è imbattuta nella previsione di capitoli dei bilanci di enti pubblici denominati spese riservate. Nonostante la definizione, francamente di per sé molto discutibile tenuto conto degli obblighi di trasparenza che incombono sulle pubbliche amministrazioni, anche per queste si pone il problema della rendicontazione. La giurisprudenza ritiene che, ove pure l'ordinamento interno dell'ente pubblico non prevedesse l'obbligo di fornire giustificazione di tali esborsi, esso dovrebbe desumersi comunque dai principi costituzionali in materia di spesa pubblica. In particolare, dagli artt. 3, 81, 97, 100 e 103 della Cost. si ricava che ogni spesa, ancorché definita riservata, è soggetta a controllo e deve essere giustificata, indicandone la ragione e il beneficiario (Cass. pen., n. 23066/2009).

Allo stesso modo, secondo la giurisprudenza, l'obbligo di rendicontazione precisa e specifica ricorre per le spese di rappresentanza, anche nei casi in cui sussistessero ragioni di riservatezza (Cass. pen., n. 6405/2016)

L'utilizzo del denaro pubblico da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, dunque, presuppone, per un verso, il rispetto della finalità istituzionale per la quale la somma è stata attribuita e, per altro verso, la giustificazione puntuale di ogni esborso.

Il riparto degli oneri probatori e l'errore sui poteri dispositivi

Da quanto illustrato deriva che, secondo la giurisprudenza, ciascuna uscita deve … essere collegata al fine pubblic» anche se definita di rappresentanza. Ne consegue che l'organo della accusa deve dimostrare l'appropriazione del denaro di cui aveva la disponibilità il pubblico ufficiale per ragioni d'ufficio e l'assenza ab origine della ragione giustificativa, laddove il pubblico ufficiale è comunque tenuto alla rendicontazione degli esborsi effettuati, per la loro appostazione contabile e per il controllo di conformità al fine istituzionale (Cass. pen., n. 36718/2011).

Il pubblico ministero, dunque, deve dimostrare che la spesa non è riconducibile alle finalità istituzionali dell'ente cui è preposto il pubblico ufficiale; a tale scopo, in un sistema che esige la specificità del rendiconto, appare corretto ritenere che si possa anche fare leva sulla genericità delle giustificazioni fornite ovvero sui dati temporali e spaziali dei pagamenti, se indicativi di un fine privato (a maggior ragione se inverosimili o falsi). Il funzionario, invece, per negare l'appropriazione della somma, deve fornire adeguata dimostrazione del perseguimento di uno scopo generale, indicando la ragione istituzionale dell'esborso ed il destinatario. Il giudicante, poi, non può esimersi di vagliare detta giustificazione.

Questo riparto degli oneri probatori opera a prescindere dalle modalità concesse per la spendita del denaro pubblico e, in particolare, anche nel caso in cui l'amministrazione abbia dotato il soggetto preposto all'impiego di una carta di credito, assegnandogli un limite di spesa (Cass. pen., n. 6405/2016). In questo caso, il meccanismo contabile dell'apertura di credito con concessione della carta presuppone che all'atto del compimento della spesa sia emessa una doppia nota contabile: una è rilasciata immediatamente all'esibitore della carta; l'altra, che inviata all'istituto bancario emittente, è inclusa in un estratto conto e sottoposta alla verifica del debitore. La spesa, in tal modo, è valutabile immediatamente dall'organo di controllo amministrativo al quale colui che ha compiuto la spesa deve inviare specifico rendiconto.

La giustificazione dell'impiego del denaro per ragioni dell'ufficio, dal punto di vista temporale, può anche non essere prossima alla spesa; anzi, proprio il meccanismo descritto comporta che essa possa intervenga dopo l'esborso. Detto ritardo, però, è irrilevante: ciò che conta è che sia fornita all'amministrazione la possibilità di verificare il rispetto del fine pubblico, producendo l'obbligatorio rendiconto (Cass. pen., n. 36718/2011).

L'illegittimità della destinazione, invero, potrebbe derivare da un'ignoranza dell'agente sui limiti dei propri poteri dispositivi. In tal evenienza non è configurabile un errore di fatto su legge diversa da quella penale ma piuttosto un errore o un'ignoranza della legge penale che, come tale, non vale a escludere l'elemento soggettivo del reato di peculato che consiste nella coscienza e volontà di far proprie somme di cui il pubblico ufficiale ha il possesso per ragioni del suo ufficio.

Né potrebbe sussistere un caso di ignoranza inevitabile della legge penale, esclusa in radice dalla specifica qualificazione dei soggetti che spendono denaro pubblico. Non va dimenticato, infatti, che si tratta di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, perfettamente consapevoli, pertanto, del rigore con cui si devono compiere le spese pubbliche.

In conclusione

Secondo la tesi “mediana” illustrata in precedenza, dunque, la condotta di peculato consiste nell'esercizio di atti dispositivi sul denaro o sulla cosa mobile altrui incompatibili con la ragione del possesso o della disponibilità (ma meglio, a tale ultimo riguardo, dovrebbe dirsi della detenzione dal momento che si esclude che per delineare la nozione di possesso contemplata dall'art. 314 c.p. possa farsi ricorso alla disposizione di cui all'art. 1140 c.c., ritenendosi sufficiente il riscontro della disponibilità, anche solo giuridica, della cosa, accompagnata dalla consapevolezza della sua altruità) degli stessi da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio. Quest'ultimo, in tal modo, si comporta uti dominus. L'azione incriminata può consistere nell'appropriazione (potendo assumere in questo caso anche la forma della consumazione, dell'alienazione o della ritenzione della cosa) o nell'utilizzazione a fini privati del denaro o della res, che vengono sottratti agli scopi di interesse generale.

La destinazione del bene pubblico a finalità pubbliche ma assolutamente diverse da quelle istituzionali dell'ente cui è preposto l'agente integra il reato di abuso d'ufficio (mentre il perseguimento di un obiettivo pubblico in qualche conciliabile con le funzioni istituzionali porterebbe a escludere la rilevanza penale del comportamento).

L'utilizzo del denaro pubblico da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, pertanto, presuppone il rispetto della finalità istituzionale. In questa prospettiva, l'indirizzo giurisprudenziale prevalente appare rigoroso in tema di spese di rappresentanza: non basta che essapresenti uno scopo promozionale dell'ente, essendo necessario anche che sia strettamente correlata con le sue finalità istituzionali.

In ogni caso le spese “di rappresentanza”, come qualsiasi altra spesa, anche se denominata “riservata”, devono essere giustificate in modo specifico, con la puntuale indicazione delle ragioni o delle persone a beneficio delle quali sono state compiute.

Guida all'approfondimento

AMATO, I confini delle spese di rappresentanza, reperibile in rete all'indirizzo http://www.procuratrento.it/allegatinews/A_988.pdf;

FIANDACA –MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, Vol. I, Bologna, 2012;

GRINDATTO, Appropriazione da parte di un consigliere regionale del contributo della Regione al suo gruppo consigliare. Peculato?, in Giur. It., 2013, 11;

MIRANDA, Le spese di rappresentanza della P.A.: evoluzione normativa e prospettive giurisprudenziali, in Azienditalia, 2014, 3;

MORONE, Peculato e spese per ragioni d'ufficio, in Giur. It., 2012, 8-9;

RESTA, Peculato, in A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa (a cura di), Trattato di diritto penale, parte speciale, II, I delitti contro la pubblica amministrazione, Torino, 2008.

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