Legge-delega in materia penitenziaria: carcere più umano e giustizia riparativa tra gli obiettivi della riforma

21 Luglio 2017

La legge 103/2017 (Riforma della giustizia penale) prefigura una estesa riforma dell'ordinamento penitenziario, incentrata sui profili dell'umanizzazione dell'esecuzione penale, della sua migliore rispondenza alla finalizzazione rieducativa e della ricomposizione della frattura sociale che la commissione del reato ha determinato, nella prospettiva costituzionale della funzione rieducativa ...
Abstract

La legge 103/2017 (Riforma della giustizia penale) prefigura una estesa riforma dell'ordinamento penitenziario, incentrata sui profili dell'umanizzazione dell'esecuzione penale, della sua migliore rispondenza alla finalizzazione rieducativa e della ricomposizione della frattura sociale che la commissione del reato ha determinato, nella prospettiva costituzionale della funzione rieducativa della pena indicata dall'art. 27 della Carta fondamentale. Le direttrici che caratterizzano la “messa a regime costituzionale” dell'esecuzione della pena riguardano interventi in materia di lavoro penitenziario, di promozione del volontariato, di tutela della salute, delle esigenze affettive dei soggetti ristretti e delle particolari necessità delle detenute madri. Specifiche direttive sono, inoltre, dettate in materia di giustizia riparativa nonché per l'adeguamento dell'ordinamento penitenziario alle esigenze rieducative dei condannati minori d'età. Altri criteri di delega sono, infine, dedicati alla revisione delle pene accessorie ed alla c.d. riserva di codice.

Alle radici della riforma

Per meglio comprendere la ratio che ispira la delega sulla riforma penitenziaria, occorre guardare alla profonda crisi del sistema di esecuzione penale italiano che ha portato non soltanto rilevanti problematiche sul piano interno ma ha comportato, altresì, l'apertura di una procedura di infrazione contro l'Italia in sede Europea, in seguito al pilot judgement dell'8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia, con cui i giudici europei hanno accertato – con riguardo alla situazione di patologico sovraffollamento degli istituti di pena italiani - la lesione sistemica dell'art. 3 Cedu nel nostro Paese. Dopo avere constatato che l'Italia non riusciva a garantire condizioni di detenzione accettabili e dignitose e, in particolare, dopo avere accertato che l'Amministrazione penitenziaria non avesse assicurato neppure uno spazio minimo personale nelle celle di 3 mq, la Corte di Strasburgo aveva, quindi, imposto di introdurre entro un anno delle riforme idonee ad assicurare una congrua tutela a quanti subiscano condizioni detentive inumane e degradanti, tali da violare l'art. 3 Cedu (Cedu, Sez. II, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia, nn.43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10, 37818/10, CED).

La questione penitenziaria apertasi in seguito alla sentenza di Strasburgoha determinato numerose personalità della politica, tra cui il Guardasigilli, nella consapevolezza della non rinviabilità dei necessari interventi sul nostro sistema penitenziario, a intraprendere iniziative per la riforma dell'esecuzione penitenziaria, così da “mettere in sicurezza” il sistema rispetto a ulteriori possibili rilievi europei e completare il disegno – già presente nell'originaria riforma penitenziaria introdotta con la legge 26 luglio 1975, n. 354 – volto a costruire un modello di esecuzione penale che effettivamente possa contribuire al recupero sociale del condannato. Il contenuto della delega in materia penitenziaria deve molto alle proposte emerse in esito ai lavori degli Stati Generali dell'esecuzione penale, laboratorio culturale composto da professori, magistrati, avvocati, operatori penitenziari, rappresentanti di associazioni, professionisti, ministri di culto, istituito tra il 2015 e il 2016 presso il Ministero della giustizia con l'obiettivo di accompagnare, sul versante culturale e scientifico, il percorso parlamentare e di sensibilizzare l'opinione pubblica sull'oggetto della riforma, nella consapevolezza che si tratta di tematiche tradizionalmente poco sentite se non apertamente avversate dal prevalente sentire della pubblica opinione. Il confronto politico non ha, invece, consentito di affrontare – per ora – il problema della riforma del regime detentivo speciale di cui all'art.41-bis, l. 354/1975, ed anzi, la delega contiene una espressa clausola di salvezza dell'attuale disciplina del carcere duro per i più pericolosi appartenenti alla criminalità organizzata di stampo mafioso, che dunque resta estraneo all'intervento riformatore. I criteri direttivi per la riforma penitenziaria sono tutti contenuti nel comma 85 dell'articolo unico di cui si compone la legge 103/2017.

Il potenziamento della giustizia riparativa

La direttiva contenuta nella lett. f)contempla la «previsione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell'esecuzione delle misure alternative». L'esigenza di assicurare la riparazione del danno provocato alla vittima dal fatto-reato risponde a un'esigenza sempre più avvertita dalla coscienza sociale. Il contenuto del criterio in esame sembra riferirsi a tutte le misure alternative e, in generale, all'intera fase dell'esecuzione penale, e risponde all'obiettivo di implementare l'attuale disciplina, che circoscrive all'affidamento in prova al servizio sociale l'obbligo in capo al condannato di adoperarsi in quanto possibile in favore della vittima del reato (art. 47, comma 7, l. 354/1975).

Il problema della operatività, nella fase dell'esecuzione, di strumenti di giustizia riparativa è assai delicato, considerando il rischio di vittimizzazione secondaria delle persone offese qualora i percorsi di giustizia riparativa non siano attentamente calibrati e gestiti con la necessaria professionalità. In particolare, con riguardo agli strumenti di restorative justice che potrebbero essere introdotti nella fase dell'esecuzione penale, dovrebbe essere posta la necessaria attenzione alla strutturazione dei medesimi sotto svariati profili. Anzitutto, non dovrebbe essere snaturata l'essenza e la finalità degli istituti di giustizia riparativa, nati con l'obiettivo non già di assicurare al soggetto danneggiato un ristoro di tipo patrimoniale per il danno subìto, bensì di riparare la frattura sociale prodottasi con la commissione del reato. In tale prospettiva, l'attività di giustizia riparativa deve incentrarsi sulla responsabilizzazione del reo nei confronti della vittima, attraverso un percorso guidato di mediazione, finalizzato alla comprensione reciproca del “male” fatto e subìto, nella prospettiva della funzione rieducativa della pena e non su una sorta di “monetizzazione” dell'emenda che non offrirebbe, per inciso, alcuna rassicurazione dell'effettiva resipiscenza del reo. L'eventuale attivazione di quest'ultimo in favore della vittima del reato dovrebbe, inoltre, essere subordinata – come già accade con riguardo alla previsione del comma 7, art. 47, ord. penit. – alla concreta “esigibilità” di un tale impegno, sia sotto il profilo della concreta possibilità di elidere le conseguenze dannose del reato, sia sotto quello delle effettive capacità personali (economiche o di altro tipo) del reo. In terzo luogo, dovrà essere attentamente calibrata la disciplina di eventuali condizioni o presupposti di natura riparativa ai fini dell'accesso (o del positivo esito) delle misure alternative alla detenzione con riguardo al rischio che, qualora la “riparazione” sia intesa in senso esclusivamente o prevalentemente economico (cioè come risarcimento monetario), potrebbe essere concreto il rischio di introdurre fattori di discriminazione tra condannati abbienti e meno abbienti, dal momento che su questi ultimi il “peso” del risarcimento graverebbe in termini maggiori rispetto ai primi. Non va, infine, sottovalutato il rischio di una eccessiva discrezionalità nella determinazione giudiziale dei risarcimenti eventualmente dovuti, che potrebbe essere influenzata – in assenza di criteri oggettivi - dalla sensibilità del singolo giudice rispetto a determinate tipologie di reati.

In sede attuativa, si dovrà, inoltre, tenere conto dei principi introdotti dalla direttiva 25 ottobre 2012, n. 2012/29/Ue del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo del 25 ottobre 2012,che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione-quadro n. 2001/220/Gai, nonché delle prescrizioni contenute nelle Regole europee sulla messa alla prova di cui alla raccomandazione R(2010)1 e, in particolare, della Parte VI della medesima, dedicata ai compiti dei Servizi sociali e al Lavoro con le vittime del reato e alle Pratiche di giustizia riparativa (artt. 93-97). Sotto il profilo sistematico, i nuovi strumenti e procedure di giustizia riparativa dovranno, altresì, essere coordinati e armonizzati con gli istituti recentemente introdotti con riguardo alla messa alla prova dell'imputato, che prevedono lo svolgimento di un'attività di L.P.U. a titolo riparativo e, sotto il profilo sistematico, con la previsione del neointrodotto art. 162-ter c.p., che prevede l'estinzione di alcune tipologie di reati in seguito alla condotta riparatoria realizzata dall'imputato mediante restituzioni, risarcimenti o offerta reale in misura ritenuta congrua dal giudice.

Lavoro e volontariato come strumenti di risocializzazione

Il criterio di cui alla lett. g)della delega prelude ad un «incremento delle opportunità di lavoro retribuito, sia intramurario sia esterno, nonché di attività di volontariato individuale e di reinserimento sociale dei condannati, anche attraverso il potenziamento del ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterna, aggiornando quanto il detenuto deve a titolo di mantenimento». La direttiva in analisi attiene ad un profilo strategico del percorso rieducativo del condannato, che pure è – paradossalmente – il punto di forse maggiore criticità della concreta attuazione del trattamento in favore dei detenuti, a causa della elevata onerosità del sistema di gestione del lavoro e la scarsità delle risorse disponibili. Tra le proposte emerse dai lavori degli Stati Generali, meritano attenta valutazione quelle intese a valorizzare il ruolo e la funzionalità della cassa ammende; a intervenire sul costo del lavoro penitenziario e quella di affidare compiti di impulso e coordinamento ad una istituenda Agenzia per il lavoro penitenziario di nuova costituzione.

La direttiva contenuta nella seguente lett. h) «previsione di una maggior valorizzazione del volontariato sia all'interno del carcere, sia in collaborazione con gli uffici di esecuzione penale esterna» è volta a implementare il contributo della comunità esterna al trattamento rieducativo dei detenuti. Nella materia del volontariato, si segnala il recente Accordo di collaborazione siglato il 9 giugno 2017 tra il Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità e la Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia, volto a sviluppare la collaborazione tra i servizi territoriali del Dipartimento e le organizzazioni di volontariato.

Le videoconferenze

La direttiva contenuta nella lett. i) introduce la modifica della «disciplina dell'utilizzo dei collegamenti audiovisivi sia a fini processuali, con modalità che garantiscano il rispetto del diritto di difesa, sia per favorire le relazioni familiari». Si tratta, in sostanza, dell'ufficializzazione delle buone prassi già sperimentate presso alcuni istituti penitenziari, ove si sono autorizzati i detenuti a effettuare colloqui con i propri familiari utilizzando il collegamento via Skype. Si tratta di una possibilità offerta dalla tecnologia che, pur costituendo una surroga del contatto diretto del soggetto ristretto con i propri riferimenti affettivi, rappresenta in molti casi l'unica modalità utilizzabile dal detenuto per un contatto anche visivo con i propri congiunti, nei non infrequenti casi in cui la distanza del luogo di residenza dei familiari dall'istituto penitenziario, situazioni di natura sanitaria o anagrafica dei congiunti o anche condizioni di difficoltà economica possono costituire ostacoli a volte insuperabili per lo svolgimento dei colloqui visivi.

Direttive per la tutela di alcuni diritti fondamentali

La direttiva della lett. l)prevede la «revisione delle disposizioni dell'ordinamento penitenziario alla luce del riordino della medicina penitenziaria disposto dal decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230, tenendo conto della necessità di potenziare l'assistenza psichiatrica negli istituti di pena». Si tratta di un profilo cruciale della riforma, volto a migliorare l'organizzazione e la qualità dell'assistenza sanitaria in favore dei detenuti, attualmente non ottimale e tale da esporre il nostro Paese al rischio di censure in sede europea. Nel documento conclusivo dei lavori degli Stati Generali, si richiama l'attenzione sulla necessità che, in materia di sanità penitenziaria, si faccia riferimento all'accordo approvato dalla Conferenza Unificata Stato-Regioni il 22 gennaio 2015 che ha stabilito le Linee guida in materia di modalità di erogazione dell'assistenza sanitaria negli Istituti penitenziari per adulti così da favorire una maggiore omogeneità dei livelli delle prestazioni sanitarie erogate. Tra i profili più rilevanti sui quali il legislatore delegato dovrà provvedere, si segnalano le disposizioni per assicurare la necessaria continuità terapeutica nel caso di trasferimento dei detenuti particolarmente nel caso in cui la nuova sede penitenziaria sia collocata in un diverso ambito regionale e il ricorso alla c.d. telemedicina, nei casi in cui sia possibile ed efficace un intervento senza il contatto diretto tra il curante e il paziente detenuto. Di particolare importanza appare, inoltre, il riconoscimento esplicito dell'esigenza di garantire una migliore assistenza psichiatrica (e psicologica) ai soggetti ristretti, attualmente una carenza particolarmente avvertita sul piano generale e vera emergenza in molte realtà penitenziarie particolarmente sguarnite per l'insufficienza delle risorse disponibili.

La previsione della lett. m), prevedendo la «esclusione del sanitario dal consiglio di disciplina istituito presso l'istituto penitenziario» implicherà un intervento sull'art. 40, l. 354/1975 ed una conseguente rimodulazione della composizione del consiglio di disciplina (attualmente composto dal direttore dell'istituto, da un educatore e appunto dal sanitario, che potrebbe essere sostituito da una figura di mediatore culturale).

Di notevole importanza è la direttiva contenuta nella lett. n) ove si prevede il «riconoscimento del diritto all'affettività delle persone detenute e internate e disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio». Tale criterio di delega imporrà, in sede attuativa, il superamento di snodi assai delicati per assicurare ai detenuti l'esercizio dell'affettività attraverso i c.d. colloqui intimi in ambito detentivo. Si tratta, in effetti, di un adeguamento “obbligato”, dopo il pronunciamento della Corte costituzionale ed alla luce delle regole penitenziarie elaborate in sede europea. La Consulta, in particolare, ha riconosciuto che l'esercizio dell'affettività nella condizione di restrizione della libertà personale rappresenta «una esigenza reale e fortemente avvertita», che trova attualmente, nel nostro ordinamento, « una risposta solo parziale nel già ricordato istituto dei permessi premio, previsto dall'art. 30-ter della legge 354 del 1975, la cui fruizione – stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi – resta in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria» (Corte cost., sentenza 19 dicembre 2012, n.301). Il tema del mantenimento e dello sviluppo di relazioni significative (familiari e affettive) nel corso dell'esperienza detentiva è un profilo considerato anche dai lavori degli Stati Generali, che hanno elaborato alcune proposte di riforma, tra cui la modifica dell'art. 18, comma 2, l. 354/1975, che escluda il controllo continuo “a vista” nel corso dei colloqui e l'introduzione di una disciplina speciale per i colloqui “affettivi”, che ne regoli tempi e modalità di svolgimento. Dal documento di sintesi dei lavori degli Stati Generali emergono, inoltre, articolate proposte volte a implementare l'esercizio dell'affettività – soprattutto nell'ambito familiare – estendendo, a es., la sfera di operatività di alcuni strumenti trattamentali già esistenti, quali l'art.21-bis, ord. penit., in tema di «assistenza all'esterno dei figli minori» e l'art.30, comma 2, ord. penit., positivizzando la possibilità di concessione di permessi per momenti fondamentali della vita dei propri congiunti (battesimo, laurea, matrimonio, ecc.) o per far visita a familiari affetti da gravi patologie o infermi. L'innovazione deve essere valutata con favore, non solo perché allinea il nostro ordinamento penitenziario agli standard di civiltà giuridica già presenti in molti altri Paesi europei, ma anche perché le statistiche dimostrano che, negli stabilimenti penitenziari dove tali modalità di visita sono attivate, si determina crollo verticale degli episodi di aggressività e dei procedimenti disciplinari a carico dei detenuti, a tutto vantaggio dell'ordine e della sicurezza degli istituti e delle attività di tipo rieducativo che in tale migliore situazione possono essere attivate.

In una prospettiva di tutela dei diritti fondamentali e di promovimento del ricollocamento sociale dei detenuti si muove la direttiva della lett. o), «previsione di norme che favoriscano l'integrazione delle persone detenute straniere» che si rivolge a quella larga parte della popolazione detenuta costituita da cittadini stranieri o apolidi. In sede attuativa, il criterio di delega in esame potrebbe introdurre disposizioni per il potenziamento dell'offerta culturale e di istruzione nei confronti della popolazione detenuta straniera in termini sia di acquisizione delle necessarie competenze linguistiche, sia soprattutto di conoscenza e condivisione del sistema di valori su cui si fonda l'ordinamento costituzionale e la nostra società, che gli stranieri sono chiamati a rispettare e condividere, a prescindere dalle personali convinzioni religiose o culturali.

La direttiva contenuta nella lett. v) prevede la «revisione delle attuali previsioni in materia di libertà di culto e dei diritti ad essa connessi» e in sede attuativa tale criterio dovrebbero favorire lo sviluppo di strumenti di contrasto al crescente pericolo di radicalizzazione ideologica di matrice confessionale che, qualora non contrastato anzitutto sul piano culturale e valoriale, rischia di trovare fertile terreno di diffusione nelle carceri soprattutto tra i soggetti più fragili, esposti maggiormente all'indottrinamento all'odio culturale e religioso inoculato dagli ideologi del fanatismo.

La riforma dell'ordinamento penitenziario minorile

La direttiva di cui alla lett. p),in materia di «adeguamento delle norme dell'ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minori di età» introduce la riforma dell'ordinamento penitenziario minorile, secondo articolati e specifici criteri direttivi indicati negli otto punti in cui esso si specifica ulteriormente:

  1. giurisdizione specializzata e affidata al tribunale per i minorenni, fatte salve le disposizioni riguardanti l'incompatibilità del giudice di sorveglianza che abbia svolto funzioni giudicanti nella fase di cognizione;
  2. previsione di disposizioni riguardanti l'organizzazione penitenziaria degli istituti penali per minorenni nell'ottica della socializzazione, della responsabilizzazione e della promozione della persona;
  3. previsione dell'applicabilità della disciplina prevista per i minorenni quantomeno ai detenuti giovani adulti, nel rispetto dei processi educativi in atto;
  4. previsione di misure alternative alla detenzione conformi alle istanze educative del condannato minorenne;
  5. ampliamento dei criteri per l'accesso alle misure alternative alla detenzione, con particolare riferimento ai requisiti per l'ammissione dei minori all'affidamento in prova ai servizi sociali e alla semilibertà, di cui rispettivamente agli articoli 47 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni;
  6. eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefìci penitenziari, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell'individuazione del trattamento;
  7. rafforzamento dell'istruzione e della formazione professionale quali elementi centrali del trattamento dei detenuti minorenni;
  8. rafforzamento dei contatti con il mondo esterno quale criterio guida nell'attività trattamentale in funzione del reinserimento sociale.

L'ampiezza della delega prelude – come si è accennato – ad una lungamente attesa riforma organica dell'intero sistema di esecuzione penale nei confronti dei minorenni, contraddistinto da princìpi e istituti peculiari. I criteri richiamano, del resto, i princìpi già espressi nelle decisioni della Corte costituzionale che, in molteplici occasioni, hanno affermato l'incompatibilità con le peculiari esigenze del recupero del minore autore di reati di preclusioni e automatismi che possono rendere più difficile l'accesso del condannato minorenne alle misure rieducative esterne al carcere. Incassato il generale giudizio positivo degli operatori, il successo della riforma dipenderà, tuttavia, dalla sua concreta attuazione mediante i decreti delegati. In sede attuativa, è molto probabile che la soluzione sarà quella di integrare, con un Titolo autonomo, la legge di ordinamento penitenziario n.354/1975, inserendovi la disciplina speciale per i condannati minori d'età. Non pare, infatti, favorita l'opzione di predisporre un testo normativo speciale, sulla falsariga del d.p.r. 448/1988 che, a sua volta, si collocava nella prospettiva indicata dall'art.79, comma 1, ord. penit. che estende ai minori degli anni diciotto sottoposti a misure penali la normativa penitenziaria elaborata per gli adulti, «fino a quando non sarà provveduto con apposita legge».

Pur nell'ambito di una valutazione complessivamente positiva, si segnala la possibilità che la previsione del punto 1) circa la incompatibilità funzionale tra giudice di merito e giudice di sorveglianza – ineccepibile in punto di principio – possa, tuttavia, creare rilevanti problemi organizzativi nelle piccole sedi, dove l'esiguità degli attuali organici potrebbe non consentire una organizzazione dell'attività giurisdizionale nei termini voluti dal legislatore delegante.

La “riserva di codice”

La direttiva contenuta nella lett. q) prevede la c.d. riserva di codice nella materia penale «attraverso l'inserimento nel codice penale di tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore che abbiano a diretto oggetto di tutela beni di rilevanza costituzionale, in particolare i valori della persona umana, e tra questi il principio di uguaglianza, di non discriminazione e di divieto assoluto di ogni forma di sfruttamento a fini di profitto della persona medesima, e i beni della salute, individuale e collettiva, della sicurezza pubblica e dell'ordine pubblico, della salubrità e integrità ambientale, dell'integrità del territorio, della correttezza e trasparenza del sistema economico di mercato». Il criterio in esame, ispirato alla finalità di assicurare una «migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell'effettività della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l'intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai princìpi costituzionali», appare – tuttavia – di non semplice realizzazione, stante anche la genericità del tenore della delega stessa, che non aiuta certamente il complesso impegno che attende il Legislatore delegato.

Gli interventi sul trattamento penitenziario e la tutela delle donne e delle madri detenute

La direttiva della lett. r) stabilisce l'introduzione di «norme volte al rispetto della dignità umana attraverso la responsabilizzazione dei detenuti, la massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna, la sorveglianza dinamica», così recependo un percorso già da temo avviato sul piano organizzativo e culturale, da alcune circolari dell'amministrazione penitenziaria.

Di fondamentale importanza nella prospettiva della tutela della maternità in ambito detentivo sono i criteri di delega contenuti nella lett. s), relativi alla «revisione delle norme vigenti in materia di misure alternative alla detenzione al fine di assicurare la tutela del rapporto tra detenute e figli minori e di garantire anche all'imputata sottoposta a custodia cautelare la possibilità che la detenzione sia sospesa fino al momento in cui la prole abbia raggiunto il primo anno di età»e nella lett. t), circa la «previsione di norme che considerino gli specifici bisogni e diritti delle donne detenute».

Il primo intervento inciderà sul sistema delle misure alternative che già prevede specifici benefici per le condannate madri di prole di tenera età, quali la detenzione domiciliare (art. 47-ter, comma 1, lett. a), l. 354/1975), la detenzione domiciliare speciale (art. 47-quinquies, l. 354/1975), senza contare che potrebbe essere implementato anche il beneficio della semilibertà, con specifiche disposizioni speciali. Si tratta di materia molto delicata, su cui è intervenuta la recente sentenza costituzionale n. 76 del 12 aprile 2017, che ha dichiarato l'incostituzionalità della norma nella parte in cui impedisce alle madri condannate per i delitti di cui all'art. 4-bis della medesima legge l'accesso alle modalità di espiazione della pena ivi previste. La previsione della possibilità di sospensione della misura cautelare sembra prefigurare l'introduzione una sorta di istituto analogo a quello già vigente con riguardo al differimento dell'esecuzione della pena (artt. 146, 147 c.p.). La seconda direttiva appare, invece, incentrata sull'implementazione degli aspetti trattamentali della vita all'interno delle strutture penitenziarie, benché il tenore letterale del criterio sembri legittimare l'introduzione di specifiche disposizioni di favore (a es. sotto il profilo dell'ampiezza delle prescrizioni) anche in relazione alle madri sottoposte a esecuzione domiciliare o alla detenzione domiciliare.

La revisione delle pene accessorie

La lett. u) prevede la «revisione delle pene accessorie improntata al principio della rimozione degli ostacoli al reinserimento sociale del condannato ed esclusione di una loro durata superiore alla durata della pena principale». Si tratta di una direttiva che risponde alla ratio di potenziare l'effetto risocializzante dell'esecuzione della pena in rapporto all'incisione delle pene accessorie su alcune facoltà personali del condannato, inserendosi nel contesto della disciplina esecutiva che già contempla l'estinzione degli effetti penali – cioè del genus del quale le pene accessorie sono considerate una specie (art. 20 c.p.) – quale conseguenza dell'esito positivo dell'affidamento in prova al servizio sociale (art. 47, ord. penit.) e della concessione della riabilitazione (art. 178 c.p., per quanto, in quest'ultimo caso, l'effetto estintivo degli effetti penali si produca “solo se la legge non dispone altrimenti”.

Il percorso attuativo della delega

La legge di riforma ora definitivamente approvata delega il Governo ad adottare, nei termini e con la procedura di cui al comma 83 (cioè su proposta del Ministro della giustizia e previo parere delle competenti commissioni parlamentari), decreti legislativi recanti le norme di attuazione delle disposizioni previste dai commi 84 e 85 e le norme di coordinamento delle stesse con tutte le altre leggi dello Stato, nonché le norme di carattere transitorio (comma 86). Entro un anno dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi di cui al comma 82, il Governo è autorizzato ad adottare, con la medesima procedura, uno o più decreti legislativi recanti disposizioni integrative e correttive, nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi stabiliti dai commi 84 e 85 (comma 87).

In conclusione

Le direttive contenute nella legge-delega di riforma dell'ordinamento penitenziario introducono princìpi e criteri direttivi che normativizzano molte proposte maturate nell'ambito dei lavori degli Stati Generali con l'obiettivo di ri-strutturare l'esecuzione penale in termini coerenti con il principio rieducativo della pena sancito dalla Carta costituzionale. Si tratta, per il nostro Paese, di un'occasione per archiviare definitivamente la stagione della crisi strutturale che ha provocato l'intervento della Corte europea di Strasburgo e conferire all'esecuzione penitenziaria quei caratteri di civiltà giuridica che ancora, per molti aspetti, le fanno difetto nonostante i molti passi in avanti fino ad oggi compiuti. Un'opportunità che difficilmente si ripresenterà e che non può andare, anche per questa ragione, perduta.

Guida all'approfondimento

FIORENTIN, Con la Riforma Orlando arrivano le modifiche all'ordinamento penitenziario

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