Il falso valutativo è ancora punibile. Le motivazioni della Cassazione

22 Gennaio 2016

A seguito del recente intervento della Corte di cassazione, il falso c.d. valutativo ritorna ad essere compreso nella sfera di punibilità del delitto di false comunicazioni sociali, previsto dall'art. 2621 c.c., nei casi in cui gli enunciati valutativi violino criteri di valutazione predeterminati. Infatti, sostiene la sentenza, qualora intervengano in contesti che implichino accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o, comunque, tecnicamente indiscussi, anche gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere ad una funziona informativa e possono, quindi, dirsi veri o falsi.
Abstract

A seguito del recente intervento della Corte di cassazione, il falso c.d. valutativo ritorna ad essere compreso nella sfera di punibilità del delitto di false comunicazioni sociali, previsto dall'art. 2621 c.c., come modificato dalla l. 69/2015, nei casi in cui gli enunciati valutativi violino criteri di valutazione predeterminati. Infatti, sostiene la sentenza, qualora intervengano in contesti che implichino accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o, comunque, tecnicamente indiscussi, anche gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere ad una funziona informativa e possono, quindi, dirsi veri o falsi.

La modifica normativa

La l. 69/2015 ha profondamente modificato la fisionomia del reato di false comunicazioni sociali, tanto dell'originaria fattispecie contravvenzionale prevista dall'art. 2621 c.c., quanto dell'ipotesi delittuosa, a carattere di reato di danno, prevista dal successivo art. 2622 c.c.

L'attuale assetto normativo prevede due fattispecie di reato, la prima riferita a società non quotate (art. 2621 c.c.), la seconda alle quotate (art. 2622 c.c.).

Per entrambi i delitti, strutturati quali reati di pericolo, sono state eliminate le soglie di punibilità precedentemente previste e, rispetto alla formulazione introdotta con il d. lgs. 61/2002, in riferimento ai fatti materiali è stata soppressa la locuzione ancorchè oggetto di valutazioni, mentre, per il reato di cui all'art. 2621 c.c. e per l'ipotesi omissiva di cui all'art. 2622 c.c., è stato introdotta la specificazione per la quale i fatti materiali devono essere rilevanti.

Sul piano dell'elemento soggettivo, accanto alla rimozione dell'inciso con l'intenzione di ingannare i soci ed il pubblico, è stato inserito l'avverbio consapevolmente, mantenendo peraltro fermo il requisito del dolo specifico posto dalla specificazione al fine di procurare a sé o per altro ingiusto profitto.

La sentenza della Corte di cassazione n. 33774/2015

All'indomani dell'entrata in vigore della novella normativa, la Corte di cassazione aveva adottato la tesi della non punibilità del falso valutativo, evidenziando che: è del tutto evidente (…) che l'adozione del riferimento ai fatti materiali non rispondenti al vero, senza alcun richiamo a valutazioni e il dispiegamento della formula citata anche nell'ambito della descrizione della condotta omissiva, consente di ritenere ridotto l'ambito di operatività delle due nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, con esclusione dei cosiddetti falsi valutativi.

Ciò in quanto, secondo la Cassazione, ricorrendo alla congiunzione ancorché il legislatore aveva espressamente precisato che oggetto dei fatti materiali potessero esser anche le valutazioni.

In altri termini, prosegue la Cassazione, l'espressione fatti materiali, ancorché oggetto di valutazioni, seppure abbia dato luogo a diverse dispute semantiche, a ben vedere conduce solo ad estendere il genus dei fatti materiali di rilevanza penale, escludendo dal perimetro della punibilità solo le opinioni, le previsioni o le congetture prospettate come tali, cioè quali apprezzamenti di carattere squisitamente soggettivo.

La correttezza dell'approdo, secondo la Corte, sarebbe dimostrata dal permanere dell'esplicito riferimento alle valutazioni nel testo dell'art. 2638 c.c. (Ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza), peraltro proprio a precisazione contenutistica della stessa locuzione “fatti materiali non rispondenti al vero”: proprio l'attuale disarmonia tra tale norma e gli artt. 2621 e 2622 c.c. sarebbe indice della volontà legislativa di far venire meno la punibilità dei falsi valutativi

Secondo la medesima pronuncia, infine, L'aggettivo rilevanti riferito ai fatti materiali risulta pregno di genericità e in tal modo la determinazione della soglia di penale rilevanza viene ancora una volta lasciata alla valutazione discrezionale del giudice.

A ciò si aggiunge che la riforma operata dalla l. 69/2015 avrebbe pure introdotto un significativo elemento di incertezza, considerando che, laddove nella nuova formulazione del delitto di cui all'art. 2621 c.c. si stabilisce che i fatti materiali devono anche essere rilevanti, tale precisazione inspiegabilmente non viene replicata nella disposizione gemella prevista dall'art. 2622 c.c.

La sentenza in questione non ha mancato di sollevare importanti perplessità tra i suoi commentatori, allarmati dai riflessi della predicata espunzione della componente valutativa dall'area della punibilità del delitto falso in comunicazioni sociali, considerando che la maggior parte del bilancio è costituita da valutazioni e che esse sono i contenuti principali e di maggior rilevanza delle relazioni e delle altre comunicazioni previste dalla legge.

Il falso valutativo è ancora punibile. Il nuovo orientamento della Cassazione

Più recentemente la Corte di cassazione veniva chiamata a pronunciarsi sul ricorso dell'amministratore unico di una società, condannato, con decisione confermata in appello, per i reati di cui agli art. 2621 c.c. e art.223 l.fall. Una delle principali imputazioni riguardava la dissimulazione, in bilancio, dell'esistenza di un'importante massa di crediti incagliati, in vero esistenti ma non svalutati seppure in sofferenza e, di fatto, inesigibili: detti crediti risultavano ancora iscritti a bilancio secondo il loro valore di presumibile realizzo, secondo quanto previsto dall'art. 2426 n. 8 c.c., e non vi era stata inserita alcuna regolare posta nel fondo di svalutazione dei crediti.

In tali condizioni si integrava, in tesi d'accusa, una artificiosa rappresentazione, mediante la mendace omissione – e finanche dell'occultamento (sotto lo specifico riflesso della inesigibilità) – di fatti materiali non rispondenti al vero sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società.

A seguito del mutato quadro normativo, il ricorrente, aderendo alla tesi proposta dalla sentenza n. 3374/2015 della Corte di cassazione, deduceva nel caso di specie l'inosservanza o l'erronea applicazione, da parte del giudice d'appello, degli artt. 2621 c. c. e 223 l.fall., sul presupposto che, a seguito della riforma operata dalla l. 69/2015, l'attuale formulazione dell'art. 2621 c.c. non consentirebbe più la punibilità del falso valutativo, con la conseguente ripercussione sulla non configurabilità del delitto di bancarotta impropria societaria, contestato a seguito del fallimento della società, di cui il delitto di false comunicazioni sociali costituisce l'antefatto criminoso.

La Corte di cassazione, prendendo le distanze dal precedente orientamento, afferma con la sentenza n. 890/2016 che la tesi della non punibilità del falso valutativo non può essere condivisa e propone un opposto principio di diritto, secondo cui il riferimento ai fatti materiali oggetto di falsa rappresentazione non vale ad escludere la rilevanza penale degli enunciati valutativi, che sono anch'essi predicabili di falsità quando violino criteri predeterminati. Infatti, qualora intervengano in contesti che implichino accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o, comunque, tecnicamente indiscussi, anche gli enunciati valutativi sono idonei ad assumere una funzione informativa e possono, quindi, dirsi veri o falsi.

In altri termini, quando la rappresentazione in bilancio debba parametrarsi a criteri predeterminati, dalla legge o da prassi universalmente accettate, l'elusione di quei criteri – od anche l'applicazione di metodiche diverse da quelle espressamente dichiarate – costituisce falsità nel senso di discordanza dal vero legale, ossia dal modello di verità convenzionale, conseguibile solo con quei criteri, validi per tutti e da tutti generalmente accettati, il cui rispetto è garanzia di uniformità e coerenza, oltreché di certezza e trasparenza.

Secondo la Corte di cassazione, pertanto, il falso c.d. valutativo (da non confondere con il falso c.d. qualitativo) è tuttora punibile anche ai sensi della vigente disciplina sulle falsità nelle comunicazioni sociali, a condizione che l'estimazione incriminata sia stata condotta in violazione – o in omissione - di regole di legge ovvero di leges artis coralmente validate.

Per giungere a tale approdo, il primo argomento dal quale muove la Corte poggia sull'esatta individuazione della volontà del legislatore nel delineare i contorni della nuova disciplina del reato di false comunicazioni sociali, da cui, si ricorda, è scomparso il riferimento testuale alla categoria delle valutazioni: indagine questa da condurre nel rispetto della inevitabile simbiosi che intercorre tra l'indagine testuale della norma - estesa anche ai canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi – ed i criteri logico – sistematico e teleologico della novella. In questo quadro, osserva la Corte, la rimozione della previgente locuzione ancorché oggetto di valutazioni non può assumere, di per sé, alcuna valenza decisiva, trattandosi di una precisazione concessiva, ancillare, finalizzata solo alla esplicazione della proposizione principale e priva di alcun valore additivo.

L'argomento della Cassazione è perfettamente coincidente con quanto osservato dalla più autorevole dottrina, che, già dall'indomani dell'entrata in vigore della l. 69/2009, aveva evidenziato l'irrilevanza della soppressione al riferimento alle valutazioni, considerando che, in base ad una lettura sistematica del reato di false comunicazioni sociali nella previgente formulazione, fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni finiva per coincidere perfettamente con l'espressione fatti non rispondenti al vero.

In secondo luogo, prosegue la Corte, i termini materiali e rilevanti, in riferimento ai fatti predicabili di falsità, sono locuzioni non comuni e prettamente tecniche, frutto di una mera trasposizione letterale di formule lessicali in uso nelle scienze economiche anglo-americane e, soprattutto, nella legislazione comunitaria.

La qualificazione materiale, osserva la Corte, si riconnette al concetto anglo-americano di materiality, criterio ormai fondamentale per la redazione del bilancio ma anche per l'attività di revisione. Sul punto, la Cassazione ritiene che, al di là delle diverse sfumature interpretative, il principio della materialità sia sostanzialmente sinonimo di essenzialità, termine che ha una finalità selettiva per escludere dalle comunicazioni sociali solo i profili marginali e secondari.

Il principio della materialità, inoltre, si ricollega al criterio comunitario della true and fair view (espressamente richiamato nell'art. 2 comma 3 della IV^ Direttiva Cee sul bilancio di esercizio e nell'art. 16, comma 3, della VII Direttiva Cee sul bilancio consolidato), tradotto dal legislatore nazionale nell'art. 2423 con l'espressione rappresentazione veritiera e corretta sulla situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società e del risultato economico d'esercizio (c.d. clausola generale della chiarezza e della veridicità del bilancio).

Quanto all'aggettivo rilevante esso si riconnette, secondo la Corte, al concetto di rilevanza sancito dall'art. 2, punto 16, della Direttiva 201/34/Ue (relativa ai bilanci di esercizio, ai bilanci consolidati ed alle relazioni di talune tipologie di imprese e recepita con il d.lgs. 136/2015), che definisce rilevante lo stato dell'informazione quando la sua omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio dell'impresa.

Per inciso, la Corte osserva che la mancata riproposizione del termine nell'ambito della fattispecie commissiva dell'art. 2622 c.c. – pur non potendosi escludere una svista legislativa – può trovare una verosimile giustificazione alla luce del particolare e più rigoroso regime di garanzia cui sono sottoposte le società quotate.

Peraltro, come si è osservato in dottrina, l'analisi della Cassazione sul punto lascia qualche incertezza, posto che il significato tecnico dei termini materiale e rilevante, considerato nella sentenza, rimanda a concetti sostanzialmente simili ed assimilabili in ragione della loro funzione (cioè, in definitiva, garantire la corretta e compiuta informazione delle condizioni economiche, patrimoniali e finanziarie della società): non è un caso, al riguardo, se la Corte si riferisca a tali termini qualificandoli due facce della stessa medaglia.

Quanto al valore semantico del termine fatti deve essere individuato nell'accezione tecnica dell'espressione, certamente più lata, di dato informativo della realtà che i bilanci e le altre comunicazioni, obbligatorie per legge, sono destinati a proiettare verso l'esterno.

Sul punto è bene ricordare, osserva la Corte, che il termine fatti è andato a sostituire l'espressione informazioni, che sarebbe stato persino superfluo in un contesto comunicativo (bilancio ed altre comunicazioni) che si sostanzia null'altro che di informazioni.

Il termine fatti, al contrario, trova la sua specifica ragione d'essere nel proprio poliedrismo, che ne consente l'utilizzo sia in riferimento al bilancio sia - e forse soprattutto - nell'ambito delle altre comunicazioni sociali previste dalla legge.

In definitiva, conclude la Corte, se fatti sono i dati informativi e se materiali e rilevanti sono solo i dati oggetto di informazioni essenziali e rilevanti, idonei ad orientare le scelte degli utilizzatori, anche le valutazioni, se non rispondenti al vero, sono idonee a condizionare negativamente le opzioni operative, sicché sarebbe illogico escluderle dal novero delle rappresentazioni potenzialmente false punibili ai sensi degli artt. 2621 e 2622 c.c.

Certo, la rappresentazione di un fatto sconta sempre una componente di inscindibile soggettività la quale, tuttavia, nell'ottica selettiva del diritto penale, può essere superata attraverso il ricorso, come si è detto, a parametri valutativi predeterminati o prassi universalmente accettate: l'elusione di tali criteri – od anche l'applicazione di metodiche diverse da quelle dichiarate – integra falsità nell'accezione di discordanza dal vero legale, ossia dal modello di verità convenzionale conseguibile solo con l'osservanza di quei criteri, validi per tutti e da tutti generalmente accettati, il cui rispetto è garanzia di uniformità e di coerenza, oltre che di certezza e trasparenza.

In chiusura un'ultima annotazione. Ricorrendone gli ulteriori elementi costitutivi previsti dalla legge, la giurisprudenza ha già sancito la configurabilità del concorso tra i reati di false comunicazioni sociali e i delitti di aggiotaggio e manipolazione del mercato che incriminano la diffusione di notizie false (rispettivamente, art. 2637 ed 185 d. lgs. 58/1998. Analogo argomento vale anche in tema di falso in prospetto, previsto dall'art. 173 d. lgs. 58/1998). Senza aver modo di poter approfondire il tema nell'ambito del presente focus, ci si limita a sottolineare come il ricorso a comunicazioni tipiche ed obbligatorie per legge quale mezzo di diffusione di notizie false connota il reato di aggiotaggio in ragione della fonte qualificata di provenienza.

In conclusione

Il principio di diritto stabilito dalla Corte di cassazione merita senz'altro di essere accolto positivamente, poiché appare maggiormente volto alla tutela effettiva del mercato, attraverso la previsione di metodi di formazione del bilancio e delle altre comunicazioni sociali idonei a garantire la corretta rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società: in questa prospettiva, le valutazioni divengono corrette - quindi conformi al vero legale – laddove esse siano state ottenute in forza di validi procedimenti valutativi, basati su parametri normativamente predeterminati o su leges artis indiscusse.

Il falso valutativo, di converso, diviene punibile sia nel caso in cui sia stato commesso attraverso il doloso scostamento dai parametri operativi di riferimento (soprattutto se normativamente imposti) sia nel caso vi sia uno scollamento tra il criterio valutativo effettivamente dispiegato rispetto a quello dichiarato, che normalmente trova riscontro nella nota integrativa.

Guida all'approfondimento

ALESSANDRI, Diritto penale ed attività economiche, Bologna, 2010

D'AVIRRO, Il nuovo falso in bilancio. Problematiche sull'irrilevanza penale delle valutazioni estimative, in IlPenalista, 20/11/2015

MUCCIARELLI, Le “nuove false comunicazioni sociali”: note in ordine sparso, in Dir. Pen. contemporaneo, 22 giugno 2015

MUCCIARELLI, “Ancorché” superfluo, ancora un commento sparso sulle nuove comunicazioni sociali, in Dir. Pen. contemporaneo, 2 luglio 2015

MUCCIARELLI, Falso in bilancio e valutazioni: la legalità restaurata dalla Cassazione, in Dir. Pen. contemporaneo, 18 gennaio 2016

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