Reati societari

Niccolò Bertolini Clerici
Giuseppe Todaro
14 Marzo 2016

La categoria di illecito penale comunemente indicata dalla locuzione reati societari attiene alle ipotesi di reato che vengono in rilievo nell'esercizio di un'attività imprenditoriale che sia svolta in forma collettiva, ovvero da società. Aspetto peculiare della disciplina approntata per tali fattispecie di reato risiede nella circostanza che la gran parte delle norme ad esse dedicate sono previste all'interno del codice civile, ciò in virtù di una scelta legislativa mossa dalla considerazione che i reati societari altro non siano che l'appendice sanzionatoria della disciplina civilistica delle società.
Inquadramento
LETTURE SUGGERITE

A. ALESSANDRI, False comunicazioni sociali in danno di soci e creditori, in AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società, a cura di Alessandri, Milano, 2002, 176 ss.; D. PULITANÒ, La riforma del diritto penale societario, fra dictum del legislatore e ragioni del diritto, in Riv. it. proc. pen., 2002, 934 ss.; S. SEMINARA, Nuovi illeciti penali e amministrativi nella legge sulla tutela del risparmio, in Dir. pen. proc., 2006. 549 ss.; A. ROSSI (a cura di), Reati societari, Torino, 2005, 129 ss.; C. SANTORIELLO, Profili generali del diritto penale societario dopo la riforma del 2001, in AA.VV. La disciplina penale dell'economia, Torino, 2008, 3 ss.; F. D'ALESSANDRO, La riforma delle false comunicazioni sociali al vaglio del giudice di legittimità: davvero penalmente irrilevanti le valutazioni mendaci?, in Giur. it., 2015, 2211 ss.; S. SEMINARA, La riforma dei reati di false comunicazioni sociali, in Dir. pen. proc., n. 7/2015, 813 ss.

La categoria di illecito penale comunemente indicata dalla locuzione reati societari ricomprende le ipotesi di reato che vengono in rilievo nell'esercizio di un'attività imprenditoriale che sia svolta in forma collettiva, ovvero da società. Aspetto peculiare della disciplina risiede nella circostanza che la gran parte delle norme dedicate a tali fattispecie di reato sono previste all'interno del codice civile, in particolare all'interno del Libro V, Titolo XI rubricato Disposizioni penali in materia di società e di consorzi. Ciò in virtù di una scelta legislativa mossa dalla considerazione che i reati societari altro non siano che l'appendice patologica della disciplina civilistica delle società.

Tale apparato normativo è stato oggetto di plurime riforme: tra queste, in particolare, (prima) il d.lgs. 61/2002 è intervenuto alla riformulazione dei reati di false comunicazioni sociali introducendo specifiche soglie di rilevanza penale, casi di procedibilità a querela e cause di non punibilità, così da espungere dal novero delle condotte punibili comportamenti di valenza esclusivamente privatistica; (poi) la l. 262/2005 ha ampliato il catalogo dei soggetti attivi e contestualmente introdotto alcune fattispecie di illecito amministrativo. Sul fondamento della ritenuta inadeguatezza del sistema sanzionatorio rinveniente da tali due interventi riformatori, la l. 69/2015 ha nuovamente rimodellato la disciplina delle falsità nelle comunicazioni sociali al fine, appunto, di rafforzare gli strumenti a difesa delle regole di trasparenza e libera concorrenza. Con specifico riferimento al reato di cui all'art. 2635 c.c., va inoltre segnalata l'importante modifica apportata dal d.lgs. 15 marzo 2017 n. 38 (Attuazione della decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato) nonché dall'intervento della c.d. legge spazza corrotti del 2019.

Il bene giuridico tutelato

Le diverse figure di reato, considerata la molteplicità di interessi giuridici coinvolti e la idoneità pluri- offensiva dei fatti ivi puniti, risultano estremamente diversificate tra loro. Tra i beni giuridici tutelati rientrano, infatti:

i) la trasparenza e correttezza dell'informativa societaria (alla cui protezione sono destinati i reati di cui al Capo I, Delle falsità);

ii) l'effettività del capitale sociale (tutelata dalle fattispecie di Indebita restituzione dei conferimenti Illegale ripartizione degli utili e delle riserve, Illecite operazioni su azioni o quote sociali, Formazione fittizia del capitale);

iii) l'integrità del patrimonio sociale (Infedeltà patrimoniale, Omessa comunicazione del conflitto di interesse);

iv) il regolare funzionamento delle società (Illecita influenza sull'assemblea) e del mercato (aggiotaggio c.d. societario); nonché

v) le funzioni di vigilanza sulle tipiche attività d'impresa (Ostacolo all'esercizio delle funzioni di vigilanza).

Con particolare riferimento alla fattispecie di cui all'artt. 2621 c.c. va osservato che l'evoluzione normativa, scandita dal susseguirsi delle riforme prima ricordate, ha inciso direttamente anche sull'interesse giuridico tutelato da tale fattispecie che, a seguito della riforma del 2002, appariva, come da molti osservato, caratterizzata da una eccessiva valorizzazione delle componenti patrimonialistiche e proiettata unicamente verso una dimensione di accentuata matrice privatistica marcata dall'introduzione delle soglie di punibilità e dalla procedibilità a querela. La riforma del 2015 pare invece aver restituito una più adeguata focalizzazione dell'interesse meritevole di tutela ora individuato nella correttezza e trasparenza dell'informazione societaria, ravvisate quali beni strumentali alla protezione di vari interessi finali anche di matrice costituzionale, tra i quali non solo il patrimonio dei soci e dei creditori, ma anche la leale concorrenza tra imprese e l'interesse a una corretta gestione societaria.

Se la dimensione istituzionale dell'interesse protetto meglio riflette la ratio stessa della norma, nondimeno alcuni Autori hanno osservato come l'elemento patrimonialistico conserva una funzione propria, quantomeno in termini di gradazione della risposta penale essendo espressamente ricompreso tra i criteri che preludono all'applicazione della fattispecie prevista dal comma primo dell'art. 2621-bisc.c.

Meno marcato appare invece l'impatto degli interventi riformatori sulle altre fattispecie qui in esame, ancorché debba comunque segnalarsi una tendenza, quantomeno di alcuni Autori, ad estendere l'oggetto della tutela a beni diversi quali ad esempio, nel caso dell'infedeltà patrimoniale, un generale dovere di correttezza secondo cui l'amministratore non può “strumentalizzare l'ufficio per fini privati ed estranei all'oggetto sociale”.

Quanto, invece, alla fattispecie ex art. 2638 c.c., essa è posta a tutela dell'esercizio delle funzioni di vigilanza, in particolare, della correttezza nei rapporti fra ente controllato ed ente controllante, al fine di consentire la piena legittimità ed efficacia dell'attività di controllo. Le condotte di ostacolo, pertanto, non sono riconosciute essere fonte di danno patrimoniale in quanto si rivelano meramente strumentali all'occultamento di precedenti o successivi fatti lesivi, ai quali più propriamente appare riconducibile il pregiudizio per i soci.

I soggetti attivi

Sotto il profilo soggettivo, si tratta per la maggior parte di reati c.d. propri, per la sussistenza dei quali il legislatore richiede che soggetti attivi siano solo quelli dotati di determinate qualifiche, tipicamente proprie di esponenti apicali o che comunque dispongano di poteri decisori in grado di incidere sull'attività di gestione dell'impresa. Da segnalare che la disposizione di cui all'art. 2639 c.c., Estensione delle qualifiche soggettive prevede che al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione sia equiparato chi è tenuto a svolgere la stessa funzione pur se diversamente qualificata, nonché chi eserciti in via di fatto, in modo continuativo e significativo, i poteri tipici ad essa inerenti. In linea generale, secondo la ricorrente giurisprudenza di legittimità, ai fini dell'attribuzione della qualifica di amministratore di fatto è necessaria la presenza di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare ed il relativo accertamento costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (cfr., ex multis, Cass. pen., sez. V, 27 giugno 2019, n. 45134).

Le nuove fattispecie di false comunicazioni sociali
LETTURE SUGGERITE

R. BRICHETTI-L. PISTORELLI, La lenta “scomparsa” del diritto penale societario italiano, in Guida dir. n. 26/2015, 53 ss.; A. CRESPI, Sentenze opache e legalità “formalistica”, in Riv. soc., 6/2015, 1033 ss.; F. D'ALESSANDRO, La riforma delle false comunicazioni sociali al vaglio del giudice di legittimità: davvero penalmente irrilevanti le valutazioni mendaci?, in Giur. it., 2015, 2211 ss.; A. LANZI, Quello strano scoop del falso in bilancio che torna reato, in Guida dir., n. 26/2015, 12 ss.; F. MUCCIARELLI, Le “nuove” false comunicazioni sociali: note in ordine sparso, in www.penalecontemporaneo.it; F. MUCCIARELLI, “Ancorché” superfluo, ancora un commento sparso sulle nuove false comunicazioni sociali, ivi; F. MUCCIARELLI, Falso in bilancio e valutazioni: la legalità restaurata dalla Cassazione, ivi; S. SEMINARA, La riforma dei reati di false comunicazioni sociali, in Dir. pen. proc., n. 7/2015, 813 ss..

Come ricordato, il d.lgs. 61/2002 aveva attuato una prima riforma dei reati societari prevedendo una connotazione marcatamente patrimonialistica, come emergeva in maniera particolarmente evidente proprio con riferimento alle fattispecie di false comunicazioni sociali, oggetto di una vera e propria duplicazione a seconda del verificarsi o meno di un danno (appunto) patrimoniale in capo alla società, ai soci o ai creditori. La l. 69/2015 ha ri-delineato tali ipotesi di reato con l'esclusione delle c.d. soglie di punibilità, sicché l'aspetto del vulnus patrimoniale non è più direttamente contemplato dalle fattispecie. L'incriminazione torna, perciò, ad essere incentrata sull'aspetto più propriamente informativo, ossia sull'esigenza di una corretta rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società, a prescindere dalle possibili implicazioni di carattere patrimoniale. La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali consta di un'unica condotta tipica, riprodotta in termini pressoché sovrapponibili in due distinte fattispecie incriminatrici:

i) l'una dedicata alle falsità poste in essere nell'ambito di società non quotate (art.2621c.c.);

ii) l'altra riferita alle falsità poste in essere nell'ambito di società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese dell'Unione europea (art. 2622c.c.).

Le fattispecie richiamate puniscono la condotta di i) amministratori, ii) direttori generali, iii) dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, iv) sindaci, v) liquidatori che perseguendo il fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, consapevolmente, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, a) espongano fatti materiali (rilevanti) non rispondenti al vero, ovvero b) omettano fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale, finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore.

Le fattispecie in esame configurano reati c.d. propri, ossia punibili solo se realizzati dai titolari delle qualifiche soggettive espressamente previste e sotto questo aspetto vi è quindi una perfetta continuità rispetto alla disciplina previgente. Non essendo invece prevista la verificazione di un qualche evento ulteriore rispetto alla falsificazione, nemmeno a valere quale circostanza aggravante, si tratta di reati di mera condotta, suscettibile di una duplice concretazione: attiva, mediante l'esposizione nelle comunicazioni sociali di fatti materiali (rilevanti, secondo l'art.2621c.c.) non rispondenti al vero; ovvero omissiva, attraverso, appunto, l'omissione di fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è invece imposta dalla legge.

La circostanza che il legislatore non abbia ritenuto di riprodurre in nessuna delle due norme incriminatrici la locuzione fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni è stata oggetto di un contrasto giurisprudenziale risolto dall'intervento delle Sezioni Unite che con la sentenza 31 marzo 2017, n. 22474 hanno affermato il principio di diritto secondo cui «sussiste il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo alla esposizione o alla omissione di fatti oggetto di “valutazione”, se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l'agente da tale criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari della comunicazione». Risulta dunque escluso che le falsità valutative abbiano perso rilevanza penale. Quanto all'elemento dei fatti materiali, è espressamente richiesto che gli stessi siano rilevanti. L'unico elemento introdotto ex novo a poter arginare il rischio di indeterminatezza delle nuove fattispecie incriminatrici è l'esplicito requisito di concreta idoneità delle condotte ad indurre altri in errore.

Quanto infine all'elemento psicologico, esso presenta una struttura complessa comprendendo i) il dolo generico (avente a oggetto la rappresentazione del mendacio), ii) il dolo specifico (del fine di conseguire un profitto ingiusto) e iii) il dolo intenzionale di inganno dei destinatari (cfr. Cass. pen., sez. V, 16 febbraio 2018, n. 21672). In proposito, anche recente giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto che l'elemento psicologico del reato di false comunicazioni sociali “non si può considerare provato, in quanto in re ipsa, sulla sola base della violazione di norme contabili relative all'esposizione delle voci in bilancio, né può essere ravvisato nella volontà di far vivere in modo artificioso la società, ma deve essere desunto da elementi idonei ad evidenziare la consapevolezza, da parte del soggetto che redige il bilancio, delle proprie azioni abnormi o irragionevoli realizzate mediante artifici contabili” (cfr. Cass. pen., sez. V, 16 febbraio 2018, n. 21672).

La giurisprudenza ha inoltre chiarito che il reato di falso in bilancio si consuma nel luogo e nel momento in cui si riunisce l'assemblea ed il bilancio viene illustrato ai soci, sicché la competenza per territorio si determina in relazione a tale luogo, rimanendo irrilevante il luogo (ed il tempo) di deposito del bilancio presso la sede della società (cfr. Cass. pen., Sez. V, 27 aprile 2018, n. 27170).

Le circostanze attenuanti

Rispetto alla sola fattispecie dedicata ai fatti commessi nell'ambito di società non quotate sono state poi previste alcune circostanze attenuanti ed una specifica causa di non punibilità. La disposizione di cui all'art. 2621-bisc.c. prevede infatti un regime di punibilità più mite se i fatti sono di lieve entità in ragione della natura e delle dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta. La medesima riduzione di pena si applica anche se le condotte tipiche siano state realizzate nell'ambito di società non soggette alla disciplina delle procedure concorsuali ai sensi della disposizione di cui all'art. 1, comma 2, l.fall.; solo in quest'ultimo caso il delitto è altresì procedibile a querela della società, dei soci, dei creditori o dei destinatari della comunicazione sociale. La disposizione di cui all'art. 2621-ter c.c. prevede poi che il giudice possa tenere conto dell'entità dell'eventuale danno cagionato alla società, ai soci od ai creditori, al fine di poter pervenire ad una pronuncia di non punibilità per particolare tenuità del fatto. La previsione costituisce una specificazione in subiecta materia del principio generale di cui all'art. 131-bis c.p. che, come noto, ha recentemente introdotto la possibilità per il giudice di dichiarare la non punibilità dei reati meno gravi se concretamente connotati da particolare tenuità. Solleva qualche perplessità che una simile valutazione venga ancorata al parametro del danno rispetto a fattispecie incriminatrici di pericolo dalle quali è stato (per contro) espunto ogni riferimento alla dannosità della condotta.

Impedito controllo

La disposizione di cui all'art. 2625, comma 2, c.c. punisce la condotta degli amministratori che impediscono ovvero ostacolano lo svolgimento delle attività di controllo legalmente attribuite ai soci, o ad altri organi sociali mediante: i) l'occultamento di documenti o ii) ricorrendo ad altri artifici.

Elemento necessario perché la condotta assuma rilevo penale è la creazione di un danno ai soci – ricorrendo, altrimenti, il mero illecito amministrativo, punito, pertanto, con la sola sanzione pecuniaria, di cui al comma 1 della stessa disposizione. È pertanto nella tutela del patrimonio dei soci che si è individuato il bene giuridico protetto oltre che, in generale, nel “corretto funzionamento della società mediante la garanzia, accordata ai soci non amministratori, di poter verificare l'andamento della gestione, la consistenza del patrimonio e la loro rappresentazione contabile” (cfr. Cass. pen., sez. I, 15 marzo 2017, n. 39443).

La norma appresta dunque tutela penale al diritto che l'art. 2476, co. 2, c.c., attribuisce ai soci non partecipi dell'amministrazione di ricevere "dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all'amministrazione".

Essendo venuto meno, in forza del d.lgs. n. 39/2010, il riferimento alle attività e alle società di revisione, la protezione oggi accordata dalla norma incriminatrice attiene al solo controllo c.d. interno e cioè quello proprio del collegio sindacale ovvero del consiglio di sorveglianza o del comitato per il controllo sulla gestione.

Si tratta, sempre salva la clausola di estensione di cui all'art. 2639c.c., di fattispecie propria dei soli amministratori, le cui modalità di realizzazione (c.d. a forma vincolata) non sono assimilabili per via analogica ad altre non tipicamente corrispondenti a quelle testualmente descritte.

L'attività ostruzionistica, per assumere rilievo penale, deve comunque sempre caratterizzarsi per la sua idoneità ad intralciare o rallentare in modo apprezzabile l'iniziativa dei soggetti cui è demandato il controllo. Come infatti ricordato anche da recente giurisprudenza di legittimità, il reato in esame non riguarda la partecipazione del socio e l'esercizio dei relativi diritti “in riferimento a tutti gli aspetti della vita societaria, comprese le deliberazioni della società, ma intende garantire soltanto le funzioni di controllo esercitabili sulla gestione ed amministrazione della società, con la conseguenza che non ogni attività societaria, cui venga impedito al socio di prendere parte, integra violazione della norma di cui all'art. 2625 c.c., essendo necessario che l'impedimento attenga in modo specifico alle funzioni ispettive circa la regolarità della gestione” (Cass. pen., sez. V, 27 febbraio 2015, n. 15641).

Inoltre, valorizzando la formulazione testuale dell'art. 2625 c.c., si è ritenuto che la norma richieda il compimento di una condotta necessariamente attiva dell'amministratore della società, attuata mediante la distrazione, la distruzione dei documenti sociali, ovvero mediante l'impiego di particolari espedienti volti a trarre in inganno, quali la simulazione, la falsificazione materiale, la rappresentazione tanto carente da risultare artificiosa, l'infedele verbalizzazione o la tenuta delle scritture contabili in modo così disordinato da impedire la possibilità di una corretta rappresentazione del dato di gestione o di patrimonio.

In altri termini, la disposizione incrimina "ogni modalità che renda impossibile o difficoltosa l'azione di verifica da parte di chi, secondo la legge, è legittimato ad una istanza di controllo sulla gestione o sulla sua rappresentazione contabile" (Cass. pen., sez. V, 10 giugno 2010, n. 27296).

Ne consegue che il delitto è ravvisabile allorché l'amministratore non si limiti a negare, in tutto o in parte, l'ostensione della documentazione contabile e societaria, ma ponga in essere operazioni positive volte ad occultare i documenti richiesti, ovvero alteri fraudolentemente il contenuto dei libri contabili e/o dei verbali assembleari (Cass. pen, sez. VI, 27 settembre 2016, n. 47307).

La fattispecie è perseguibile solo a querela della persona offesa che è da individuarsi in tutti i soci che abbiano subito un danno patrimoniale, indipendentemente dalla circostanza che lo stesso sia stato immediatamente determinato dal comportamento degli amministratori ovvero ne sia il risultato indiretto.

Da segnalare poi la forma aggravata del reato in esame che ricorre ogni qual volta si tratti di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'art. 116 del d.lgs. 58/1998.

Quanto ai rapporti con altri reati si ritiene che la fattispecie di impedito controllo si ponga in rapporto di sussidiarietà rispetto a quella di false comunicazioni sociali, sicché nel caso in cui l'impedimento alle attività di controllo derivi esclusivamente una falsità costitutiva dei reati di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c., troveranno applicazione unicamente tali fattispecie. Peraltro, occorre pure segnalare che la disposizione non rientra tra quelle atte ad integrare il reato di bancarotta fraudolenta impropria ai sensi della disposizione di cui all'art. 223, comma 2, n. 1,l.fall.

Indebita restituzione dei conferimenti

La disposizione di cui all'art.2626c.c. punisce la condotta degli amministratori che, fuori dei casi di legittima riduzione del capitale sociale, restituiscano - anche simulatamente - i conferimenti ai soci o li liberino dall'obbligo di eseguirli.

La fattispecie, così riformulata dal d.lgs. 61/2002, è posta a tutela dell'integrità del capitale sociale, sanzionando condotte non rispettose del vincolo di indisponibilità che grava sul patrimonio indisponibile della società; in via indiretta, la protezione è quindi estesa sia all'interesse dei creditori sociali alla conservazione delle garanzie patrimoniali, sia dei soci a che venga preservata la vita della società stessa. Soggetti attivi sono i soli amministratori trattandosi quindi di reato proprio, mentre due sono le condotte alternativamente incriminate:

i) la liberazione dell'obbligo di eseguire i conferimenti medesimi, che impedirebbe la regolare costituzione del capitale;

ii) la restituzione ai soci dei conferimenti che determinerebbe lo svuotamento del capitale sociale precedentemente costituito.

La restituzione in particolare può avvenire sia in modo diretto che indiretto ovvero ancora in forma simulata come, ad esempio, laddove venga effettuato un pagamento a fronte di una prestazione inesistente. Non si ritiene che la fattispecie risulti integrata nei casi di restituzione di beni dati dal socio in solo godimento; parimenti, non avrebbe rilevanza penale neppure la condotta inerte dell'amministratore che non si adoperi per esigere il versamento dei conferimenti.

Nel rapporto con altre fattispecie di reato la disposizione in esame si pone come sussidiaria, non operando laddove la fattispecie concreta integri altra e più specifica ipotesi di reato.

Da segnalare che nell'ipotesi in cui intervenga il fallimento della società, la restituzione ai soci dei versamenti in conto capitale (o “in conto futuro aumento di capitale”) integra la bancarotta fraudolenta per distrazione, ai sensi degli artt. 223, comma 1 e 216, comma 1, n. 1 l. fall. e non il delitto di bancarotta fraudolenta da reato societario, previsto dal combinato disposto degli artt. 223, comma 2, n. 1, l. fall. e 2626 c.c., in quanto detti versamenti, “confluendo in un'apposita riserva, non incrementano immediatamente il capitale sociale e, diversamente dai conferimenti, non attribuiscono alle somme che ne formano oggetto lo statuto penalistico proprio del capitale sociale” (cfr. Cass. pen., sez. V, 1° febbraio 2019, n. 8431).

Illegale ripartizione degli utili e delle riserve

La fattispecie di cui all'art. 2627 c.c. punisce la condotta degli amministratori che ripartiscono utili o acconti su utili non effettivamente conseguiti o destinati per legge a riserva, ovvero che ripartiscono riserve, anche non costituite con utili, che non possono per legge essere distribuite.

La norma è posta a tutela dell'integrità del capitale sociale limitatamente alle sole riserve non distribuibili per legge. La norma fa riferimento al concetto di utile quale plusvalore del patrimonio sociale nettorispettoalpatrimonioinizialeequindinonsolol'utiledell'ultimoesercizio,bensìaildeltatragliutiliele perdite anche degli esercizi precedenti.

La previsione della clausola di riserva salvo che il fatto non costituisca più grave reato ha portato ad osservare la contenuta applicabilità della disposizione in esame che, in quanto ipotesi contravvenzionale, lascerebbe il passo a fattispecie diverse quali appropriazione indebita, infedeltà patrimoniale o addirittura di aggiotaggio laddove la ripartizione degli utili costituisca artificio idoneo a provocare una sensibile alterazione del prezzo delle azioni.

È prevista una specifica causa di estinzione del reato per il caso in cui, prima del termine previsto per l'approvazione del bilancio, siano effettuate la restituzione degli utili o la ricostituzione delle riserve. In giurisprudenza si è sottolineato come “la distribuzione di somme di denaro corrispondenti ad asseriti utili "in nero" concreta - ancorché essi rappresentino il profitto effettivo della gestione - una manomissione del capitale, integrativa della bancarotta patrimoniale (ed è esatto, nonostante l'oscuro accenno contenuto nel ricorso, anche il richiamo espresso dalla sentenza all'art. 2627 c.c., il cui comportamento è incluso nel novero dei fatti indicati dall'art. 223 c.p., comma 2, n. 1). Infatti, anche se l'utile non costituisca di per sè l'oggetto materiale della condotta di distrazione fraudolenta, essendo di spettanza dei soci e non della società, quando la sua assegnazione avvenga senza la prededuzione dell'onere tributario e della conseguente penalità tributaria (che sorge al momento della erogazione della ricchezza) si riscontra manomissione della ricchezza sociale poiché la distribuzione eccede quanto di pertinenza dei soci” (cfr. Cass. pen., sez. V, 14 novembre 2016, n. 14522).

Illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante

La fattispecie di cui all'art. 2628 c.c. punisce la condotta degli amministratori che i) acquistino o ii) sottoscrivano azioni o quote sociali (anche quando emesse dalla società controllante) fuori dei casi consentiti dalla legge, così cagionando una lesione all'integrità del capitale sociale o delle riserve non distribuibili per legge.

Tale previsione, unica nell'ambito del diritto penale societario volta a punire le operazioni indebite sugli strumenti partecipativi propri, è anch'essa volta a tutela dell'effettività del capitale sociale.

Ancorché sia tratti di un reato proprio degli amministratori, è senz'altro possibile ipotizzare, mediante il ricordo alla disposizione di cui all'art. 110 cod. pen., il concorso dei soci quando gli stessi pongano in essere una condotta agevolatrice ulteriore rispetto a quella di alienazione prevista dalla disposizione in esame.

Secondo l'espressa previsione normativa, ai fini della sussistenza della fattispecie è necessario che la lesione all'integrità del capitale sociale o delle riserve non distribuibili per legge sia determinata dal compimento delle operazioni effettuate in contrasto con le previsioni della normativa civilistica di riferimento che, come noto, è differenziata a seconda dei tipi societari.

In questa sede è possibile poi solo un brevissimo cenno alle operazioni di c.d. leveraged buy out ormai ritenute legittime secondo quanto affermatosi in sede di relazione al d.lgs. 61/2002 e come tali riconosciute anche dalla Suprema Corte di Cassazione.

Anche in tal caso è prevista una specifica causa di estinzione del reato per il caso in cui, prima del termine previsto per l'approvazione del bilancio, siano ricostituiti capitale sociale e riserve.

Non appaiono sussistere dubbi circa la possibilità che la fattispecie in esame possa concorrere con le false comunicazioni sociali che si ponga quale presupposto per l'acquisto illecito. Possibile infine l'assorbimento nella fattispecie di cui all'art. 223, comma 2, l.fall. nell'ipotesi in cui le operazioni illecite cagionino o concorrano a cagionare il dissesto della società.

Operazioni in pregiudizio dei creditori

La disposizione di cui all'art. 2629 c.c. punisce la condotta degli amministratori che, in violazione delle disposizioni di legge a tutela dei creditori, effettuino riduzioni del capitale sociale o fusioni con altre società o scissioni, così cagionando un danno ai creditori.

La previsione del danno quale elemento costitutivo della fattispecie rappresenta in fattore di principale differenziazione rispetto alla previgente formulazione della fattispecie quale reato di pericolo. Il verificarsi del danno rappresenta inoltre il momento consumativo del reato, il che appare coerente con la previsione della querela quale condizione di procedibilità.

Il bene protetto viene individuato nell'integrità del capitale sociale (e segnatamente nella sua funzione di garanzia degli interessi dei creditori) posto potenzialmente in pericolo dalla realizzazione di operazioni straordinarie che, per loro natura, possono rappresentare dei momenti critici per i creditori della società. Anche in questo caso si tratta di reato proprio degli amministratori cui possono eventualmente essere chiamati in concorso eventuale ex art. 110 c.p. i soci che votino la delibera di riduzione del capitale nella consapevolezza di indurre i primi a cagionare un danno ai creditori.

La condotta incriminata, perché assuma rilievo penale, deve caratterizzarsi per la sua contrarietà alle norme civilistiche che regolano le operazioni di riduzione del capitale sociale, fusione e scissione. Quanto alla fusione e alla scissione, le disposizioni rilevanti sono, rispettivamente, gli artt. 2501 ss. e gli artt. 2506 ss. Ai fini della sussistenza del reato è necessario che la riduzione “illegittima” sia stata in precedenza deliberata dall'organo assembleare, diversamente potendosi al più configurare l'ipotesi di cui all'art.2626c.c.

Essendo poi espressamente richiesta la verificazione del danno in capo ai soggetti offesi dal reato, va notato che, in presenza di una delibera di approvazione dell'operazione che risulti inficiata da vizi che la rendano inesistente o comunque nulla, il delitto non sarebbe mai configurabile. È stato altresì notato che potrebbero rientrare nella sfera di applicazione della norma anche talune operazioni di leveraged buy out. È infine da segnalare che al capoverso, la disposizione prevede una causa estintiva del reato qualora, prima del giudizio, sia risarcito il danno subito dai creditori.

Omessa comunicazione del conflitto d'interessi

La disposizione di cui all'art. 2629-bis c.c. punisce la condotta di amministratori

i) di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altro Stato dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante, ovvero

ii) di soggetti sottoposto a vigilanza quali banche, gruppi bancari, intermediari finanziari, Sim, S.G.R., società di gestione armonizzate, Sicav, imprese di assicurazione e riassicurazione,

che violino gli obblighi previsti dall'articolo 2391, comma 1 c.c.

Il riferimento è alla mancata comunicazione agli altri amministratori ed al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, l'amministratore abbia in una determinata operazione della società.

Come poi disposto dallo stesso richiamato art. 2391 c.c. se si tratta di amministratore delegato, deve altresì astenersi dal compiere l'operazione, investendo della stessa l'organo collegiale; se si tratta di amministratore unico, deve darne notizia anche alla prima assemblea utile.

Perché la condotta assuma rilievo penale è necessario altresì che la stessa abbia prodotto un danno in capo alla società o a terzi, configurandosi quindi la fattispecie come reato di evento cui corrisponde anche il bene giuridico oggetto di tutela. Residuano tuttavia dubbi diffusi in ordine alla natura del danno; se cioè lo stesso debba essere economicamente apprezzabile o viceversa possano rientrarvi anche interessi immateriali. Quanto all'elemento psicologico, il reato in esame richiede sul versante soggettivo un semplice dolo generico, a differenza di altre fattispecie poste più specificamente a protezione del patrimonio sociale, in particolare - come si vedrà tra breve - l'infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 c.c.

Formazione fittizia del capitale

La disposizione di cui all'art. 2632 c.c. punisce la condotta di amministratori e soci conferenti che (anche in parte) formano od aumentano fittiziamente il capitale sociale mediante:

  1. attribuzioni di azioni o quote in misura complessivamente superiore all'ammontare del capitale sociale;
  2. sottoscrizione reciproca di azioni o quote;
  3. sopravvalutazione rilevante dei conferimenti di beni in natura o di crediti ovvero del patrimonio della società nel caso di trasformazione.

La norma tutela l'effettività e l'integrità del patrimonio sociale nella sua specifica funzione di garanzia degli interessi dei creditori e dei terzi in generale e ciò non solo al momento genetico della costituzione della società, ma anche in quello dell'aumento del suo capitale. Due quindi le categorie di soggetti attivi: (i) gli amministratori e (ii) i soci conferenti, in considerazione della possibilità loro fisiologicamente riconosciuta di influenzare le scelte della società attraverso l'esercizio dei poteri gestori attribuitigli.

La fattispecie si connota per essere un delitto a condotta vincolata articolata in tre distinte e specifiche tipologie di comportamento tra loro alternativi. La prima ricomprende nel suo ambito non solo l'effettiva messa in circolazione dei titoli che rappresentano le azioni, ma anche il momento antecedente alla loro sottoscrizione. Quanto alla seconda tipologia di condotta, il requisito della reciprocità nella sottoscrizione di azioni o quote non richiede necessariamente anche l'omogeneità delle operazioni né la contestualità delle stesse, anche se sembrerebbe corretto ritenere che sia comunque necessaria quantomeno l'esistenza di un previo accordo. Con riguardo infine all'ipotesi della sopravvalutazione rilevante si è osservato che si tratta di requisito eccezionalmente generico che espone la fattispecie a rischi di incompatibilità col principio di determinatezza proprio dell'ordinamento penale. Trattandosi di un reato d'evento la consumazione richiede che ciascuna delle tre condotte alternative abbia quale sua determinazione eziologica la formazione o l'aumento del capitale sociale. Quanto al concorso con altri reati deve infine ricordarsi che nell'ipotesi in cui ciò cagioni o concorra a cagionare il dissesto della società, a seguito della dichiarazione di fallimento, la fattispecie in esame verrebbe assorbita da quella di cui all'art.223, comma 2, n. 1,l.fall. (cfr. Cass. pen., sez. un., 25 settembre 2014, n. 11170).

Indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori

La disposizione di cui all'art.2633c.c. punisce la condotta propria dei liquidatori che ripartendo i beni sociali tra i soci prima del pagamento dei creditori sociali o dell'accantonamento delle somme necessario a soddisfarli, cagionano danno ai creditori. Anche in questo caso si può affermare che si tratti di fattispecie posta a tutela dell'integrità del capitale sociale nella sua specifica funzione di garanzia degli interessi dei creditori, più in particolare al momento della liquidazione della società. La condotta incriminata si sviluppa in due momenti: il primo più propriamente attivo, concretato da ogni forma di attribuzione o distribuzione ai soci dei beni del patrimonio sociale (da intendersi come ogni elemento suscettibile di valutazione economica); il secondo, di carattere omissivo, che invece si ha alternativamente con il mancato pagamento dei creditori sociali o comunque con il mancato accantonamento delle somme necessarie a soddisfarli. Quanto all'accantonamento si è osservato che non sarebbe sufficiente la mera iscrizione delle somme a bilancio, ma che sarebbe invece necessario porre le stesse ad un vincolo tale da determinarne l'indisponibilità. In entrambe le ipotesi è comunque sempre necessario che si verifichi un danno, un concreto pregiudizio, alle pretese dei creditori sociali, tanto vero è che la procedibilità della fattispecie è espressamente subordinata alla querela della persona offesa, da individuarsi necessariamente nei creditori rimasti insoddisfatti. Il reato si consuma alla verificazione del danno. D'altra parte, la dimensione privatistica della fattispecie de qua emerge poi anche dall'espressa previsione di una causa di estinzione del reato costituita dal risarcimento del danno cagionato, da effettuarsi, ovviamente, prima del giudizio.

Infedeltà patrimoniale
LETTURE SUGGERITE

L. FOFFANI, Le infedeltà, in AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società, a cura di Alessandri, Milano, 2002, 345 ss.; E. MUSCO, I nuovi reati societari, Milano, 2002, 129; A. LANZI-A. CADOPPI, I reati societari, Padova, 2007, 179 ss.; C. SANTORIELLO, La tutela del patrimonio societario, in AA.VV. La disciplina penale dell'economia, Torino, 2008, 173 ss.;

La fattispecie di cui all'art. 2634 c.c. punisce la condotta propria di (i) amministratori, (ii) direttori generali e (iii) liquidatori che:

a) avendo un interesse in conflitto con quello della società e

b) al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio,

compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali che cagionino, intenzionalmente, un danno patrimoniale alla società.

Si ritiene che anche il reato in esame sia posto a tutela del patrimonio sociale, deponendo in tal senso la struttura stessa della fattispecie che richiede la verificazione di un danno quale evento tipico. Non manca, tuttavia, chi ha invece posto l'accento su aspetti non prettamente patrimoniali quali il dovere oggettivo di correttezza proprio delle qualifiche dei soggetti attivi del reato. Quanto ai soggetti attivi v'è da segnalare l'esclusione dei sindaci dal loro novero anche se, ovviamente, non si è mancato di osservare come sia implicita la possibilità di una loro responsabilità per violazione degli obblighi connessi alla posizione di garanzia da costoro ricoperta. Ai fini della configurabilità del reato, è dunque necessario che ricorrano i seguenti presupposti:

  1. un interesse in conflitto con quello della società;
  2. la deliberazione di un atto di disposizione di beni sociali;
  3. un evento di danno patrimoniale intenzionalmente cagionato alla società amministrata;
  4. il fine specifico, in capo all'agente, di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio.

Quanto alla sussistenza di un interesse in conflitto con quello della società, la giurisprudenza ha sottolineato come sia necessaria la prova di “un antagonismo di interessi effettivo, attuale e oggettivamente valutabile tra il soggetto attivo e la società in ragione del quale il primo si trovi in una posizione antitetica rispetto a quella dell'ente tale da pregiudicarne gli interessi tramite l'atto di disposizione deliberato, non essendo sufficiente, ai fini della configurabilità di tale antagonismo, che siano stati compiuti atti improntati ad illiceità sistematica” (cfr. Cass. pen., sez. V, 4 giugno 2019, n. 40446).

Con riguardo alla disposizione dei beni sociali, essa non deve necessariamente sostanziarsi in una condotta attiva, potendo “assumere rilievo anche l'inerzia dell'amministratore, quando sia tale da determinare la compromissione dell'integrità del patrimonio sociale (Fattispecie in cui l'amministratore della fallita aveva omesso per ben sei anni di far valere un credito vantato dalla società)” (cfr. Cass. pen., Sez. V, 12 maggio 2017, n. 37932).

Deve sottolinarsi, infine, come la norma preveda in realtà un duplice elemento soggettivo costituito: i) dal dolo specifico del fine, in capo all'agente, di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio e ii) dal dolo intenzionale di cagionare alla società un danno di natura.

Il delitto di infedeltà patrimoniale si configura quale reato istantaneo di danno posto che la condotta tipica deve produrre quale propria conseguenza una lesione di natura patrimoniale, sicché non trova spazio alcuna possibilità di riconoscere come accordata una tutela anticipata del bene giuridico secondo il principio di offensività.

Anche in questo caso, si tratta di fattispecie punibile a querela della persona offesa. L'orientamento giurisprudenziale oggi maggioritario riconosce il singolo socio non solo quale danneggiato dal reato, bensì quale vera e propria parte offesa, attribuendogli, pertanto, la facoltà di presentazione delle querela “in quanto la condotta dell'amministratore infedele è diretta a compromettere le ragioni della società, ma anche, principalmente, quelle dei soci o quotisti della stessa, che per l'infedele attività dell'amministratore subiscono il depauperamento del loro patrimonio” (cfr. Cass. pen., sez. V, 7 novembre 2018, n. 57077). Inoltre, la qualità di persona offesa, e quindi la conseguente legittimazione alla proposizione della querela, “spetta anche al socio receduto. Costui, infatti, non perde la qualità di persona offesa al momento dello scioglimento nei suoi confronti del rapporto sociale, dato che la condotta infedele determina non solo un danno al patrimonio della società, ma anche un depauperamento del valore della quota, alla cui liquidazione il socio ha diritto all'atto del recesso, sulla base della situazione patrimoniale della società al momento dello scioglimento del rapporto.” (cfr. Cass. pen., Sez. V, 14 giugno 2016, n. 35384). Peculiare, peraltro, il caso in cui la quota sociale sia oggetto di cessione. Si è infatti affermato, che “il diritto di rimessione della querela compete esclusivamente alla persona offesa che l'ha proposta e non è trasmissibile inter vivos, anche nel caso in cui venga alienato il diritto leso dalla condotta antigiuridica altrui, posto che non è trasferibile la qualità di persona offesa, che si cristallizza al momento in cui il soggetto titolare del bene giuridico tutelato subisce l'offesa da reato” (cfr. Cass. pen., Sez. V, 18 novembre 2015, n. 22495).

Quanto al rapporto con altri reati va senz'altro segnalato che laddove il fatto punito dalla fattispecie di infedeltà patrimoniale abbia cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società, andrà a configurarsi anche il reato di cui all'art. 223, comma 2, n. 1, l. fall. Inoltre, come ripetutamente affermato in sede di legittimità, le fattispecie di infedeltà patrimoniale (art. 2634 cod.civ.) e di appropriazione indebita (art. 646 cod. pen.) sono in rapporto di specialità reciproca. Infatti, mentre l'infedeltà patrimoniale tipizza la necessaria relazione tra un preesistente conflitto di interessi con le finalità di profitto o altro vantaggio dell'atto di disposizione, l'appropriazione indebita presenta caratteri di specialità per la natura del bene (denaro o cosa mobile) che solo ne può essere oggetto, e per l'irrilevanza del perseguimento di un semplice vantaggio in luogo del profitto. In altri termini, l'ambito di interferenza tra le due fattispecie è dato dalla comunanza dell'elemento costitutivo della deminutio patrimonii e dell'ingiusto profitto, ma esse differiscono per l'assenza, nell'appropriazione indebita, di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi che, invece, connota l'infedeltà patrimoniale.

Corruzione tra privati
LETTURE SUGGERITE

A. RUGANI, Riforma della “corruzione tra privati” (d.lg. n. 38/2017): l'ennesima occasione perduta, in Cass. Pen., fasc.12, 1 dicembre 2017, 4638B ss.; F. VERGINE, Poche luci e molte ombre nelle nuove norme introdotte dalla legge n. 3 del 2019, Il Processo, fasc.1, 1 marzo 2019, 177 ss.

La fattispecie di cui all'art. 2635 c.c., punisce, salvo che il fatto costituisca più grave reato, i) gli amministratori, ii) i direttori generali, iii) i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, iv) i sindaci e v) i liquidatori, di società o enti privati, ovvero (vi) chi nell'ambito organizzativo della società esercita altre funzioni direttive, ovvero ancora (vii) chi è sottoposto alla loro direzione o vigilanza, che sollecitano o ricevono, per se' o per altri, denaro o altre utilità non dovuti, o ne accettano la promessa, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà.

Come anticipato nelle premesse, l'attuale novero dei soggetti attivi è il risultato dell'ampliamento effettuato dal d.lgs. n. 38/2017 che ha esteso la platea dei soggetti corruttibili sia agli intermediari del pactum sceleris, sia a chi, pur non ricoprendo una posizione apicale, esercita funzioni direttive. A fronte della formulazione quanto più ampia possibile adottata dal legislatore della riforma, ben potrà essere ricompreso tra i soggetti attivi anche il dipendente che, pur non occupando una posizione di rilievo all'interno dell'organigramma societario, si trovi a esercitare funzioni direttive, anche nei confronti di una sola persona. Inoltre, una lettura

coerente con il principio generale in tema di reati societari, conduce a considerare operante l'estensione delle qualifiche soggettive a chi di fatto eserciti le funzioni, come si come previsto ai sensi dell'art. 2639 c.c. (c.d. amministratore di fatto). L'art. 2635 c.c. punisce inoltre, con la medesima pena, il corruttore, esattamente come previsto in tema di reati contro la pubblica amministrazione, dagli artt. 318, 319 e 321 c.p.

La riforma operata dal d.lgs. 38/2017 ha inciso anche sulle condotte tipiche sanzionate: la condotta del soggetto corrotto, infatti, è ora integrata non solo dalla ricezione di denaro o altra utilità non dovuti o dall'accettazione della promessa, ma anche dalla mera sollecitazione al pagamento o alla dazione, così anticipando la soglia di rilevanza penale del fatto corruttivo. La riforma del 2017 ha inoltre eliminato tra i requisiti obiettivi della fattispecie il danno alla società quale elemento costitutivo della fattispecie; la norma incrimina, invero, il pactum sceleris in sé, senza il necessario verificarsi di alcun danno patrimoniale nei confronti della società. Conseguentemente la fattispecie non assume più i caratteri del reato di danno, bensì del reato di pericolo e anche l'interesse giuridico oggetto di tutela non è più, dunque, il patrimonio sociale, bensì la correttezza e lealtà della concorrenza, la trasparenza ed il buon funzionamento del mercato, la salvaguardia della competitività tra imprese, messe in pericolo da accordi corruttivi diretti alla condotta infedele.

Inoltre, a seguito dell'approvazione della legge 19 gennaio 2019, n. 3 recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici” il reato di corruzione tra privati è procedibile d'ufficio, senza la necessità che la persona offesa abbia manifestato la volontà che l'Autorità giudiziaria persegua tale fattispecie criminosa. Il vecchio regime di procedibilità, tuttavia, rimane applicabile a tutte quelle condotte commesse prima dell'entrata in vigore del nuovo intervento normativo.

La fattispecie prevista all'art. 2635-bis c.c., punisce l'istigazione alla corruzione tra privati, nel duplice schema di istigazione attiva e istigazione passiva. In particolare, il primo comma, sanziona chiunque, in cambio della violazione dei doveri di ufficio e di fedeltà, offre o promette denaro o altra utilità indebiti ai dirigenti della società o dell'ente privato, qualora l'offerta o la promessa non sia accettata (istigazione attiva). Il secondo comma punisce, invece, l'istigazione passiva, la condotta, cioè, dell'intraneo che solleciti una promessa o dazione di denaro o altra utilità, al fine del compimento o dell'omissione di atti in violazione dei medesimi obblighi, qualora tale proposta non sia accettata. Anche per tale fattispecie criminosa, la l. n. 3/2019 ha introdotto la procedibile d'ufficio.

Illecita influenza sull'assemblea
LETTURE SUGGERITE
M. ZANCHETTI, Illecita influenza sull'assemblea, in AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società, a cura di Alessandri, Milano, 2002, 405 ss.; C. SANTORIELLO, La tutela penale del regolare funzionamento della società, in AA.VV. La disciplina penale dell'economia, Torino, 2008, 220 ss.; G.P. DEL SASSO, Illecita influenza sull'assemblea, in A. Lanzi-A. Cadoppi, I reati societari, Padova, 2007, 233 ss.

La disposizione di cui all'art. 2636 c.c. punisce la condotta di chiunque, allo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, con atti simulati o fraudolenti determini la maggioranza in assemblea. La fattispecie si connota per essere posta a tutela del regolare funzionamento dell'organo assembleare, assicurato dal rispetto del principio maggioritario attraverso cui si esprime e si attua l'interesse sociale. Infatti, la formulazione della disposizione in esame si impernia sulle modalità della condotta incriminata, evidentemente a forma vincolata, e alternativamente realizzabile a mezzo di atti simulati o fraudolenti. Quanto al significato da attribuire a tale locuzione, si ritiene che atti simulati siano quelli finalizzati a creare un'apparenza, laddove invece atti fraudolenti siano quelli che siano caratterizzati da astuzia, nonché risultino idonei a sorprendere la buona fede altrui. Con riguardo agli atti simulati, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che non debba farsi stretto riferimento all'accezione strettamente civilistica, ma che invece sia opportuno estendere la nozione ad una più ampia tipologia di comportamenti, che siano cioè idonei a creare una falsa rappresentazione della realtà tale da alterare il regolare processo di formazione della volontà assembleare. Ciò con la conseguenza che potranno assumere rilievo penale anche atti che individualmente considerati dal punto di vista civilistico siano perfettamente leciti, ma che, nel loro complesso, diano corpo ad uno stratagemma artificioso. I più diversi sono, perciò, i comportamenti che possono integrare la fattispecie in esame e, solo a titolo esemplificativo, è possibile ricordare quello del socio che si avvalga di azioni o quote non collocate, ovvero che occulti la mora dei versamenti che gli precluderebbe il diritto di voto, ovvero, ancora, la fraudolenta incetta di deleghe. La fattispecie si configura quale reato d'evento per la cui realizzazione è necessario che si determini in assemblea una maggioranza che diversamente non sarebbe venuta ad esistenza. Al fine di accertare la consumazione del reato è quindi necessario fare ricorso alla c.d. prova di resistenza attraverso la sottrazione, dalla totalità dei voti, di quelli determinati dalla condotta simulatoria o fraudolenta: evidente dunque che non assumerà rilievo penale l'ipotesi in cui la conseguenza della condotta ingannatoria sia solo il rafforzamento di una maggioranza che sarebbe comunque venuta a formarsi anche in assenza di tali comportamenti illeciti.

Aggiotaggio su strumenti finanziari non quotati e aggiotaggio bancario

La disposizione di cui all'art. 2637 c.c. punisce la condotta di chiunque i) diffonda notizie false, ovvero ii) ponga in essere operazioni simulate o altri artifici concretamente idonei a a) provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari non quotati operi quali non è stata presentata una richiesta di ammission ealle negoziazioni in un mercato regolamentato, ovvero a b) incidere in modo significativo sull'affidamento che ilpubblico ripone nella stabilità patrimoniale di banche o di gruppi bancari.

La disposizione contempla, quindi, due distinte ipotesi delittuose: il c.d. aggiotaggio su strumenti finanziari non quotati ed il c.d.aggiotaggio bancario.

Il bene giuridico tutelato dalla prima ipotesi è da riconoscersi nel regolare andamento e nella stabilità del mercato mobiliare attraverso la tutela del meccanismo di formazione dei prezzi, mentre l'aggiotaggio bancario è inteso a preservare la stabilità del sistema bancario attraverso la tutela della fiducia dal pubblico in esso riposta.

L'aggiotaggio su strumenti finanziari di articola a sua volta in due distinte e alternative modalità di condotta: il c.d. aggiotaggio informativo realizzato attraverso la diffusione di notizie false ed il c.d. aggiotaggio manipolativo attuato per mezzo di operazioni simulate o altri artifici che siano oggettivamente idonei a provocare la sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari.

Quanto alla diffusione di notizie false, deve con ciò intendersi la comunicazione, con qualsiasi mezzo e ad un numero indeterminato di persone, di un contenuto informativo intrinsecamente falso o comunque fortemente suggestivoedingannevoleperilcontestoincuisiinseriscono.

Sul punto, in giurisprudenza si è affermato chela diffusione attraverso un comunicato stampa del deliberato del consiglio di amministrazione di una società quotata in Borsa in ordine ai dati di bilancio che si proporranno all'approvazione della successiva assemblea dei soci integra, sussistendo i requisiti della falsità del dato e della idoneità dello stesso ad alterare sensibilmente i corsi dei titoli, il delitto di aggiotaggio informativo, a prescindere dal fatto che gli stessi non siano già stati adottati dalla successiva assemblea”, mentre “la eventuale successiva approvazione del bilancio può integrare la fattispecie di false comunicazioni sociali, in concorso con quella di aggiotaggio” (cfr. Cass. pen., Sez. V, 21 novembre 2019, n. 15).

Tra le operazioni simulate vengono intese sia le simulazioni assolute che quelle relative, mentre la locuzione “altri artifici” assume la funzione di clausola di chiusura idonea a ricomprendere tutte le modalità di condotta diverse dalla simulazione che assumano in concreto una connotazione artificiosa. Possono, infatti, venire in rilievo anche condotte di per sé apparentemente lecite, ma che poste in essere in determinate condizioni determinino la distorsione degli equilibri di formazione dei prezzi. Trattandosi di fattispecie di pericolo concreto, le condotte esaminate devono risultare oggettivamente idonee a provocare la sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari, senza che sia perciò necessaria la verificazione della sensibile alterazione del prezzo. L'accertamento in ordine alla c.d. price sensitivity è cioè condotto attraverso un giudizio di prognosi postuma da effettuarsi ex ante e dovendosi considerare tutte le circostanze del caso concreto che fossero esistenti al momento in cui il soggetto agente abbia posto in essere la condotta. In tal senso dovranno quindi vagliarsi le caratteristiche dello strumento finanziario, le condizioni tipiche del mercato, il volume delle operazioni poste in essere nonché i mezzi utilizzati ed il lasso temporale occupato dall'operazione. Quanto al rapporto con la diversa fattispecie manipolativa di cui all'art. 185 Tuf, la differenza risiede nell'oggetto materiale della condotta costituito, in questo secondo caso, da strumenti finanziari quotati o per i quali è stata richiesta l'ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamentato; non risulta esservi uniformità di posizione in ordine alla possibilità di ritenere configurabile l'eventuale concorso di norme.

Ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza
LETTURE SUGGERITE

L. CORNACCHIA, Ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, in Giur. Comm., fasc.1, 2017, 69 ss. P. LOSAPPIO, La tutela penale delle funzioni di vigilanza. Il «nuovo» avamposto del microcredito, in Riv. trim. dir. pen. economia, 2015, 125 ss.; D'ALESSANDRO, Regolatori del mercato, enforcement e sistema penale, Torino, Giappichelli, 2014; E. MONTANI, Le attività di ostacolo, in Reati in materia economica, Tratt. Palazzo-Paliero, a cura di Alessandri, Torino, 2012, 190 ss.

La disposizione di cui all'art. 2638 c.c. contempla due distinte ipotesi di reato, differenziate sia in relazione alle modalità della condotta che al momento offensivo del reato:

  • le c.d. false informazioni all'autorità di vigilanza di cui al primo comma e
  • il c.d. ostacolo alle funzioni di vigilanza di cui al comma secondo.

Entrambe le fattispecie sono poste a tutela del regolare svolgimento delle funzioni di controllo affidate alle pubbliche autorità di vigilanza e quindi della correttezza dei rapporti tra ente controllante ed ente controllato. Tra le autorità pubbliche di vigilanza rientrano, esemplificativamente, Banca d'Italia, Consob e Ivass nonché l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, l'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici ed il Garante per la radiodiffusione e l'editoria, cui va dunque riconosciuta la qualifica di persone offese dal reato.

Soggetti attivi sono amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori di società o enti, nonché altri soggetti sottoposti per legge alle autorità pubbliche di vigilanza, o tenuti ad obblighi nei loro confronti.

La prima delle fattispecie contemplate dalla disposizione in commento punisce i predetti soggetti che, al fine di ostacolare l'esercizio delle funzioni di vigilanza:

  1. espongano, nelle comunicazioni alle predette autorità previste in base alla legge, fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza ovvero,
  2. occultino con altri mezzi fraudolenti, in tutto o in parte fatti che avrebbero dovuto comunicare, concernenti la situazione medesima.

Si tratta, a ben vedere, di un reato a condotta vincolata per la cui realizzazione sono espressamente previste due distinte modalità alternative tra loro. Tale delitto è, inoltre, reato di mera condotta, sia che venga commesso mediante la mera omessa comunicazione di informazioni dovute sia attraverso il ricorso a mezzi fraudolenti, che si consuma nel momento in cui viene posta in essere una delle condotte alternative previste dalla menzionata disposizione normativa.

Più specificamente, quanto al concetto di fatti materiali non rispondenti al vero, è da notare come il legislatore abbia inteso mantenere la locuzione ancorché oggetto di valutazioni che, invece, a seguito della novella introdotta dalla l. 69/2015, è stata eliminata dalla formulazione della fattispecie di falso in bilancio. Quanto poi alla nozione di “comunicazioni previste dalla legge”, si ritiene che vi rientrino non solo quelle prescritte dalla fonte primaria, ma anche quelle contemplate da fonti secondarie quali regolamenti o provvedimenti particolari delle autorità di vigilanza, non mancando peraltro precedenti giurisprudenziali che abbiano esteso il novero delle comunicazioni suscettibili di comunicazione a tutte quelle che abbiano i requisiti di pertinenza e rilevanza rispetto all'esercizio della funzione di vigilanza. Per entrambe le modalità di condotta, la punibilità è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi. La fattispecie di cui al secondo comma della disposizione in esame punisce i medesimi soggetti che, in qualsiasi forma, anche omettendo le comunicazioni dovute alle predette autorità, consapevolmente ostacolino le funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza. Si tratta di reato d'evento, costituito appunto dal cagionare un ostacolo alle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza. La condotta può assumere qualsiasi forma, anche meramente omissiva, posto che la stessa formulazione della disposizione in commento, proprio perché assai meno circoscritta della precedente e interamente imperniata sul solo nesso eziologico tra la condotta e l'impedimento della funzione di vigilanza, consente di ritenere che anche la sola omissione di comunicazioni dovute sia idonea a potersi ritenere configurato il reato.

La distinzione tra le due fattispecie previste dall'articolo in commento si estendono poi anche al momento consumativo del reato, posto che, come osservatosi nella giurisprudenza, la fattispecie di cui al primo comma di false informazioni all'autorità di vigilanza si perfeziona nel momento e nel luogo in cui le informazioni vengono esposte nelle comunicazioni dirette alle autorità pubbliche di vigilanza, mentre il delitto, di cui al secondo comma, di ostacolo alle funzioni di vigilanza si consuma nel momento e nel luogo in cui si realizza l'attività di intralcio. Pertanto, “il luogo di consumazione del reato di cui all' art. 2638 commi 2 e 3 c.c. deve identificarsi in quello in cui vengono assunte le determinazioni degli organi dell'ente di vigilanza. Una volta rinvenuta la connessione tra le varie fattispecie contestate e riscontrata la pari gravità delle stesse, la competenza per territorio deve essere ulteriormente determinata alla stregua del criterio cronologico, con attribuzione della competenza al tribunale del luogo in cui il delitto è stato commesso per primo” (cfr. Cass. pen., sez. I, 7 dicembre 2017, n. 15537). Peraltro, il reato di cui all'art. 2638, co 2, c.c., quando consista nella omissione delle comunicazioni dovute alle autorità di vigilanza, può assumere carattere eventualmente permanente, protraendosi esso per tutto il tempo in cui dette comunicazioni, pur potendo ancora essere utilmente effettuate, continuano ad essere omesse (cfr. Cass. pen., sez. V, 12 novembre 2015, n. 6884). Da ultimo, quanto al trattamento punitivo, il terzo comma della disposizione prevede un'aggravante ad effetto speciale per l'ipotesi in cui si tratti di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi della disposizione di cui all'art. 116Tuf.

La confisca del prodotto o del profitto del reato e dei beni utilizzati per commetterlo

La tendenza a prevedere sempre più numerose ipotesi speciali di confisca - con l'evidente fine di rafforzare la risposta sanzionatoria dello Stato mediante l'introduzione di strumenti di apprensione delle utilità economiche provenienti dal delitto - ha riguardato anche la disciplina dei reati a seguito della riforma operata dal d. lgs. 11 aprile 2002 n. 61 che ha introdotto, mediante la riformulazione dell'articolo 2641 c.c., una ipotesi speciale di confisca prevista in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per uno dei reati contemplati nel titolo XI del codice civile.

Tale misura - considerate i) la sua obbligatorietà, ii) la previsione di una clausola (prevista al comma 2 dell'art. 2641 c.c.) che consente la confisca per equivalente, nonché iii) l'assimilazione della sentenza di patteggiamento a quella di condanna - si distacca dallo schema tipico della misura di sicurezza patrimoniale di cui all'art. 240 c.p. e assume caratteristiche proprie della pena accessoria.

Nondimeno, la giurisprudenza di legittimità si è, sin da subito, espressa nel senso di ritenere che l'art. 2641 c.c. si limiti a rendere obbligatoria la confisca già facoltativamente applicabile dal giudice (seppur limitatamente all'ipotesi di condanna) in forza della disciplina generale contenuta nel comma 1 dell'art. 240 c.p., posto che la formula cui è ricorso il legislatore della riforma non differisce sostanzialmente da quella di "cose che servirono a commettere il reato" contenuta nella disposizione ultima citata. Come infatti ripetutamente affermato, il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l'effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato o meno, sicché “tra le utilità confiscabili non rientrano i legittimi vantaggi e i risultati economici derivanti da una precedente attività lecita e riconducibile a soggetti terzi” (Cass. pen., sez. V, 24 ottobre 2013, n. 27675).

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