Le nuove regole deontologiche in materia di ascolto del minore

25 Agosto 2016

Il nuovo codice deontologico forense affronta per la prima volta la delicata materia dell'ascolto del minore, alla quale è dedicato l'art. 56. La nuova disposizione, ispirata a condivisibili principi di tutela dell'integrità psichica del minore, presenta diversi nodi problematici e finisce per limitare le facoltà difensive riconosciute per legge nella delicata fase delle indagini preliminari.
Abstract

Il nuovo codice deontologico forense affronta per la prima volta la delicata materia dell'ascolto del minore, alla quale è dedicato l'art. 56.

La nuova disposizione, ispirata a condivisibili principi di tutela dell'integrità psichica del minore, presenta diversi nodi problematici e finisce per limitare le facoltà difensive riconosciute per legge nella delicata fase delle indagini preliminari.

Nessuna soluzione interpretativa pare adeguata a superare il problema che richiede l'intervento del Legislatore deontologico.

L'art. 56 del nuovo codice deontologico forense e le disposizioni del c.p.p.

Il Legislatore deontologico del 2014 si è confrontato per le prima volta con le problematiche connesse all'ascolto di persone di minore età, dedicandogli l'art. 56 del nuovo codice deontologico, definito dalla relazione di accompagnamento una delle novità più significative del nuovo codice.

La norma, di applicazione non esclusivamente penalistica, prevede che in linea generale l'ascolto del minore sia subordinato al consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale, sempre che non sussista conflitto d'interesse con gli stessi (comma 1).

Segue una disposizione dettata per la specifica ipotesi in cui l'avvocato difenda uno dei genitori in una controversia in materia familiare o minorile, nel qual caso l'avvocato deve astenersi da ogni forma di colloquio e contatto coi figli minori.

Il comma terzo si occupa specificamente del procedimento penale laddove, per qualunque ipotesi di acquisizione di notizia dal minore (colloquio non documentato, dichiarazione scritta, sommarie informazioni verbalizzate) sussiste l'obbligo di invito formale degli esercenti la responsabilità genitoriale con indicazione della facoltà di intervenire all'atto e della presenza dell'esperto nei casi previsti dalla legge e in ogni caso in cui il minore si anche persona offesa dal reato.

Qualunque violazione delle regole dettate dal codice deontologico forense è severamente sanzionata con la sospensione dall'esercizio della professione da sei mesi ad un anno.

La disciplina deontologica è decisamente più ampia di quella del c.p.p., il quale si limita, per l'appunto, a prevedere i casi nei quali il minore deve essere sentito in presenza dell'esperto in psicologia o psichiatria (art. 391-bis, comma 5-bis c.p.p.) limitandoli all'assunzione d'informazioni nei procedimenti per i delitti di cui all'art. 351 comma 1-ter (maltrattamenti contro famigliari o conviventi, riduzione o mantenimento in schiavitù, prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione di materiale pedo-pornografico, pornografia virtuale, iniziative turistiche volte ballo sfruttamento della prostituzione minorile, tratta di persone, acquisto ed alienazione di schiavi, violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, corruzione di minorenne, violenza sessuale di gruppo, adescamento di minorenni, atti persecutori). Il codice di rito nulla prevede in merito all'eventuale intervento degli esercenti la potestà genitoriale.

Disposizioni a confronto

codice deontologico forense

codice di procedura penale

  • Obbligo di assistenza dell'esperto nei casi previsti dalla legge e quando il minore è persona offesa;
  • necessità di consenso degli esercenti la potestà genitoriale salva l'ipotesi di conflitto d'interessi;
  • obbligo di invito formale agli esercenti la potestà genitoriale con indicazione della facoltà di intervenire all'atto;
  • sanzione della sospensione dalla professione da 6 mesi a 1 anno per qualunque violazione dei doveri sopra esposti.
  • Obbligo di assistenza dell'esperto nei casi previsti dall'art. 351-ter c.p.p.;
  • sanzione della inutilizzabilità dell'atto e comunicazione all'organo titolare dell'azione disciplinare.

La collocazione sistematica del comma 5-bis dell'art. 391-bis c.p.p., fa sì che alla mancata assistenza dell'esperto nei casi previsti dalla legge consegua l'inutilizzabilità dell'atto e l'obbligo per il giudice che procede di comunicare la violazione all'organo titolare del potere disciplinare.

È possibile, a questo punto, tracciare un primo quadro di sintesi: mentre il codice di procedura penale limita la presenza dell'esperto ad un solo tipo di atto (l'assunzione d'informazioni) e ad uno specifico elenco di reati, il codice deontologico la pretende per qualunque tipologia di contatto con la fonte informativa (quindi, anche il rilascio di dichiarazione scritta e il colloquio non documentato) e non solo nei casi previsti dalla legge ma, comunque, quando il minore sia persona offesa.

Tenuto conto della particolare delicatezza del contatto con questa fonte dichiarativa, l'impostazione seguita dal Legislatore deontologico è, per questo specifico profilo, condivisibile.

Come potremo verificare, però, il complesso regime autorizzativo pone problematiche sostanzialmente irresolubili che finiscono per confliggere coi diritti difensivi di chi si trovi coinvolto in un procedimento penale, anche nella veste di persona offesa.

I profili critici di una disposizione di taglio civilistico

La genesi dei problemi che cercheremo di seguito di analizzare, potrebbe riassumersi così: i redattori del codice deontologico, distratti dall'ampia casistica di matrice civilistica, sembrano aver dimenticato che il minore può essere testimone di reati commessi da un genitore in danno dell'altro.

Fuor di polemica, è necessario porre a confronto l'art. 56 con le disposizioni del codice di rito e la realtà quotidiana.

Un primo problema che occorre risolvere è se e in quale misura il comma 1 dell'art. 56 trovi applicazione in ambito penale: a prima lettura parrebbe, infatti, che al procedimento penale debba applicarsi il solo comma 3, con regole specifiche e diverse (non più consenso, ma invito con avvertimento della facoltà d'intervenire all'atto).

Tuttavia, nessuno ignora che l'art. 391-bis c.p.p. prevede che l'attività d'investigazione difensiva possa essere svolta per l'eventualità che si instauri un procedimento penale: qui non c'è alcun procedimento e forse non ci sarà mai e, di conseguenza, non è ragionevolmente applicabile il comma 3 dell'art. 56 cod. deont.; l'unica previsione applicabile, resta dunque quella del comma 1.

Ricordata la legge, pensiamo al caso concreto: genitore che accusi l'altro genitore di aver commesso reiterati maltrattamenti in proprio danno (caso statisticamente non improbabile in occasione di separazioni “tormentate”) e si rivolga all'avvocato per redigere la denuncia. Quell'avvocato che, diligentemente o finanche doverosamente, intendesse svolgere indagini difensive preventive nell'interesse della persona offesa mediante ascolto (con assistenza dell'esperto) di un figlio minore, testimone ai fatti, non potrebbe procedere se non comunicando alla controparte le proprie intenzioni e conseguendo il suo esplicito consenso.

Si osservi che, in questo caso, non vi sarebbe conflitto d'interessi con gli stessi (ovvero tra minore e uno e entrambi i genitori) bensì tra i soli genitori, con la conseguenza che la regola del comma 1 non potrebbe trovare eccezione.

Ovviamente, l'identico ragionamento vale anche per il caso in cui l'attività d'investigazione preventiva debba essere svolta per conto di chi tema di poter subire un procedimento penale (magari perchè la denuncia gli è stata “promessa” dal coniuge separando).

Secondo, possibilmente più grave, problema: se il comma 1 condiziona l'attività d'investigazione difensiva al veto della controparte, il comma 3 dell'art. 56 finisce per imporre un'attività in violazione della legge.

Infatti, nel procedimento penale, qualunque tipo di contatto col minore testimone richiede il preventivo invito degli esercenti la potestà genitoriale, con avviso della facoltà di intervenire all'atto.

Anche qui, pensiamo al caso concreto: un minore testimone deve essere sentito su fatti di reato commessi da un genitore in danno dell'altro (si pensi, tra le ipotesi più frequenti, ai maltrattamenti in famiglia) con l'ovvia conseguenza che l'uno assumerà la qualità di persona sottoposta alle indagini e l'altro di persona offesa. Secondo l'art. 391-bis, comma 8, c.p.p., all'assunzione di informazioni non possono assistere la persona sottoposta alle indagini, la persona offesa e le altre parti private.

Siamo al corto circuito normativo: il codice deontologico forense impone ciò che il codice di procedura penale vieta.

Oltretutto, si è omesso di considerare che, in presenza di conflitti tra genitori, la presenza del genitore durante l'ascolto del minore è decisamente sconsigliata dagli esperti, causa l'elevato il rischio di condizionamenti.

È ben vero che, in questo caso, il problema è circoscritto alla sola assunzione di informazioni (l'art. 391-bis, comma 8, limita il divieto a tale atto) ma, a prescindere dall'importanza (e ricorrenza statistica) proprio di questo specifico atto, resta la “mostruosità strategica” di dover informare preventivamente la controparte che si intende raccogliere una dichiarazione o sentire suo figlio su circostanze (presumibilmente) a suo carico, con ogni conseguente rischio di condizionamento e di indebita colpevolizzazione del minore.

Insomma, anche dal punto di vista dell'effettiva tutela del minore, la previsione dell'art. 56, comma 3, cod. deont. lascia alquanto a desiderare.

In ultimo, va sottolineato che le regole deontologichesono incomplete e lasciano irrisolte alcune questioni di importanza non secondaria: manca, in particolare, qualunque indicazione in merito alle concrete modalità dell'esame e al ruolo dell'esperto, lasciando alla discrezione del difensore stabilire chi e come debba condurre l'esame, anche nei confronti di minori in età prescolare.

In conclusione

I nodi problematici individuati in relazione ai commi 1 e 3 dell'art. 56 cod. deont. sono oggettivamente gravi e da un certo punto di vista “inediti”: salvo errore, non era mai accaduto che una disposizione di carattere deontologico finisse per limitare determinate facoltà difensive, in specie nella delicatissima fase delle indagini preliminare dove meglio, e più efficacemente, può dispiegarsi il diritto di difendersi provando.

Eppure, tra il diritto di veto del comma 1 e l'obbligo d'informazione su un'inesistente facoltà d'intervento del comma 3, le regole deontologiche pervengono a tale aberrante risultato.

Ora, i pratici potrebbero sostenere che, in fondo, è sempre meglio affidare il minore testimone al P.M., in specie se sia anche persona offesa dal reato: si evitano rischi e ci si garantisce l'obbiettivo.

A prescindere da quanto possa essere condivisibile in linea di principio una tale concezione “paternalistica” del procedimento penale (per nulla, a onor del vero), si tratterebbe di una mera indicazione operativa che non contribuirebbe a risolvere il nodo problematico e, comunque, non rappresenterebbe una soluzione ogni qual volta il P.M. rispondesse in termini negativi. Ne' sarebbe una soluzione praticabile in ipotesi di investigazioni preventive, dove sono espressamente esclusi dall'art. 391-nonies c.p.p. tutti gli atti che richiedono l'intervento o l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria.

Quanto al comma 3, si potrebbe sostenere che in fondo l'art. 391-bis, comma 8 contiene un precetto privo di sanzione e dunque potrebbe essere ignorato in nome delle regole deontologiche: se si sente il minore, il genitore indagato o persona offesa può presenziare all'atto. Si dovrebbe però ammettere, in questo modo, che la deontologia possa suggerire di non rispettare le regole di legge il che pare oggettivamente aberrante. Resterebbe, poi, da convincere il giudice della correttezza di tale metodo e dell'attendibilità dei risultati ottenuti.

L'unica soluzione interpretativa che, allo stato, pare poter risolvere almeno una delle problematiche evidenziate è il ricorso ad un curatore speciale, in analogia a quanto prevede l'art. 121 c.p. per l'esercizio del diritto di querela: si potrebbe così ovviare, quanto meno, al “diritto di veto” imposto da un genitore ai sensi dell'art. 50, comma 1, cod. deont. Parliamo, tuttavia, di una strada assai complessa da seguire e fonte, a sua volta, di numerose problematiche: come adattarla all'ipotesi in cui non vi sia conflitto d'interessi tra genitori e minore bensì tra i soli genitori? Quale sarebbe il giudice competente a decidere? Quel giudice, potrebbe valutare il merito della richiesta ovvero la rilevanza e utilità a fini difensivi delle eventuali dichiarazioni?

Nessuna soluzione pare poi possibile per superare l'empasse creata dal comma 3, il quale richiede una rapida revisione da parte del legislatore deontologico: si dovrà prendere atto che nei casi in cui i genitori sono coinvolti nel procedimento, la presenza dell'esperto e il conseguente rispetto dei protocolli accreditati rappresenta il massimo di garanzia oggettivamente disponibile per il minore.

Alcune indicazioni operative,sembrano infine opportune in ordine alle questioni lasciate aperte dalle regole deontologiche, partendo dal presupposto che l'esame del minore in sede di investigazioni difensive rappresenta un'eventualità alla quale il difensore deve essere tecnicamente e deontologicamente preparato, in specie laddove si tratti del primo ascolto di minorenne che sia anche persona offesa dal reato. Come abbiamo visto, le regole deontologiche ampliano i casi nei quali la presenza degli esperti è necessaria: nondimeno non si deve escludere l'opportunità di ricorrere comunque all'assistenza dell'esperto, ovvero indipendentemente dal titolo di reato per il quale si procede, come opportunamente suggerito anche da codici di comportamento di livello associativo (cfr. Regole di Comportamento del Penalista nelle Indagini Difensive della Unione delle Camere Penali Italiane, art. 10).

Secondo le indicazioni elaborate in termini generali dalla Corte di cassazione, in tutti i casi dubbi (minori di anni dieci, presenza di patologie, ritardi cognitivi) l'esperto dovrà essere chiamato a pronunciarsi in primo luogo sulla idoneità a deporre del minore, fornendo poi la necessaria assistenza durante l'esame: la collaborazione tra difensore e consulente, consentirà di individuare i casi nei quali è opportuno che l'esame venga condotto esclusivamente dall'esperto ovvero con la sua semplice mediazione.

In ogni caso, l'esame del minore dovrà essere condotto secondo linee guida approvate dalla comunità scientifica, aggiornate e scientificamente verificabili.

Quanto alle modalità di documentazione del colloquio, il codice deontologico forense, superando le incerte indicazioni del codice di rito, prescrive in termini generali che in ipotesi di riproduzione fonografica del colloquio le informazioni possano essere documentate anche in forma riassuntiva (codice deontologico forense, art. 55, comma 10): la necessità di superare la “diffidenza” che, anche nel momento di valutazione dei risultati, circonda le investigazioni difensive, suggerisce che le informazioni assunte vengano verbalizzate in forma integrale e che la registrazione del colloquio avvenga in ogni caso e sia affidata esclusivamente alla videoregistrazione. Solo questo strumento, infatti, garantisce la possibilità di apprezzare tutte le modalità espressive dei minori, ricche anche di aspetti non verbali.

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